Era arrivato da lontano.
Succhiato in faccia.
E riccio.
Con quel parlare chiuso e duro, che sapeva di caldo, non di nebbia.
A fare il sarto sotto la chiesa, con le campane che piovevano diritte, come le squadre sulla stoffa, per tenere in riga il gesso.
Una stanza per bottega e casa.
La singer che di notte tartagliava.
Lui e il figlio, piccolino, tirato su a latte con il pane, e le uova portate dalle donne, per l’orlo da rifare in fretta. Un po’ di frutta raccolta dentro il brolo.
Era bello, il bambino, pulito e ben vestito anche con poco, perché il padre era sarto fino e di una coperta sapeva cosa fare.
Se ne accorsero anche i possidenti che il riccio aveva mani d’oro: passarono cappotti, per quella stanza stretta, e completi dalle spalle larghe che parevano tirate con il piombo.
Arrivarono i quaderni della scuola, sul tavolo, giù in fondo, ché il ragazzo adesso aveva da studiare: era cresciuto troppo in fretta e il cuore si era messo a saltellare.
Il padre ascoltava le parole, anche se le mani filavano veloci e le forbici seguivano le righe tirate con il filo d’imbastire.
Poi venne il giorno che il ragazzo, fatto grande, sposò la Cinta, Cinta la bella, Cinta la formosa.
Al padre qualcosa s’incrinò nel petto, perché tutto sembrava troppo piano: il figlio che faceva l’usciere in municipio, il podestà che lo guardava buono, il lavoro che ora non mancava.
Tutto sembrava troppo piano adesso che il figlio era al sicuro e la guerra lasciava ormai i suoi buchi fra i giovani mandati chissà dove.
Quasi il sarto sentiva l’imbarazzo per quella fortuna inaspettata.
Il cuore, il cuore che restava ballerino, teneva il ragazzo via dal fronte, a fare il suo mestiere, fra carte, annonarie, timbri e bolli. La moglie gli portava il pasto, ché non avesse neppure la fatica di correre a casa e poi tornare.
Cinta la bella, Cinta la formosa non poteva passare inosservata, col suo petto glorioso e un modo spavaldo di sciogliersi i capelli perché facessero carezza contro il collo.
Lasciava un profumo di mele e di promesse, lungo le scale, dentro il municipio.
Il podestà la vide e ne fu subito preso.
Cominciò con l’accompagnarla per la strada, la gente che taceva ma guardava.
Poi cercò di più. Se la voleva in casa e in casa la portò.
Bastò mandare al fronte, quello russo, il marito e il suo cuore ballerino.
Sotto gli occhi del padre che capiva e sapeva solo piangere in silenzio.
Il ragazzo dalla Russia non tornò, la moglie sparì per la vergogna, e il padre non ebbe bisogno di parole.
Lasciò la stanza sotto il campanile: niente più squadre, né gessi, né forbici cantanti.
Andava nelle corti per un po’ di pane e solo per dormire nei fienili: rappezzava le braghe da lavoro, puntava le giacche sfilacciate, ma solo verso sera.
Ogni mattina (piovesse, ci fosse il sole o freddo o caldo), prendeva il suo sgabello sotto il braccio e andava a sedersi proprio là: davanti alla casa grande, quella del podestà.
Restava tutto il giorno, per essere la prima e l’ultima cosa da vedere, la faccia ferma, le mani ferme, sopra le ginocchia.
Fino al 25 aprile.