A saperlo che i nomi trasportano un destino e tirano il viaggio di qua e di là, più di un’armonica fra i salici, più del muschio sui pioppi, chi li darebbe mai.
Chi li darebbe mai…
A saperlo, il male di una parola regina o fata, sulla pelle di chi succhia fatica e latte.
A saperlo.
Ma tant’è.
Chè, i nomi, arrivano di guizzo, come la brina.
Li provi nell’aria, li covi nel lenzuolo, poi li leggi sotto a una figura o nella marca di un cappotto e li decidi in fretta, davanti all’impiegato. Come accadde al Vittadello, che si portò in vita il peso della prima giubba, comprata bell’e fatta da suo nonno, in quel negozio grande.

Ma chiamarsi, per dote, Stelladiana, e aver la pelle fresca e i piedi scalzi, essere belli che la metà bastava, pure coi panni smessi, non era un bel regalo.
A questo non aveva pensato, il padre.
Il nome, il nome se l’era tenuto stretto fino all’ufficio dell’anagrafe, detto neanche alla moglie.
Perché lui, coi nomi, ci sognava.
Il primo era cascato giù da un libro, che il prete aveva chiuso in fretta (rosa di carni forti).
Ed era andata male: chè il Rubens, il figlio ragazzo, era finito a capofitto in un mulinello di Po. In quei bagni sirena che d’estate intrappolano le gambe e picchiano lo stomaco. E non c’è verso di venirne fuori.
Per la bambina nuova ci voleva un nome altro, che fosse via dall’acqua, via via via.
Che se poi c’era dentro un po’ di cielo, meglio ancora.
Il cielo d’estate sta all’asciutto.

E la Stelladiana bene lo sapeva: il suo era un nome luccicoso.
Stava d’incanto coi suoi occhi neri e stava di schifo con i panni da strizzare e stendere sopra il medicaio. Stava di schifo con la fatica del mese che allungava il conto, giù in bottega.
Era un nome che diceva “Vai!”: c’era ben da tenergli dietro, in qualche modo.

La Stelladiana andò con l’uomo che custodiva il treno.
L’uomo aveva un buon lavoro, ma era selvatico come le anatre di passo, chiuso di malinconia gelosa, che scioglieva nel vino, all’osteria. Non nel petto della sua sposa bella.
Sposa di fretta, neanche con il velo.
Sposa che nessuno aveva da vedere, sposa da nascondere, poi, fra cime di granturco e siepi di ricino, nella stazione morta di campagna, senza persone intorno.
Sposa bambina da chiudere con la mandata doppia, a sera.
Sposa da spegnere coi grembiuli, perché neanche lo specchio avesse da goderne.
Con parole grosse. Chè la gelosia ha una sua musica priva di dolcezze, una musica che batte e torna, batte e torna.

Per lunghi anni la Stelladiana sembrò dormire nel suo torpore grigio; solo guardava il treno che passava: una fermata una, il giorno del mercato grande, lì vicino.

Fu svelta e silenziosa a salire sul vagone, quel mattino.
La bellezza se n’era andata via, ma il nome aveva detto ancora “Vai!”.
Le scarpe del marito nella borsa, buttate più in là dal finestrino.