Qui da noi ci sono cieli carta da zucchero, se le piogge di fine estate li gonfiano e li scoppiano in bolle d’acqua grossa.
Poi, resta in alto una memoria di nuvole.
Ci vuol tempo perchè sgombrino.

A vederle colare, nella coda di temporali a lento commiato, ti accorgi d’essere dentro a un addio.

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Qui da noi ci sono giorni che sembrano impastati di lentezza e silenzio.
Così fermi che galleggi nell’attesa: strana confidenza fra il dentro e il fuori.
Ma, se di colpo, da strada, un urlo lungo di cornacchia batte la stanza, è come uno schiocco d’ortica.
Tutto torna ad essere solo carne o cosa.

La vita, puntuta, ha un modo di farsi sentire, aspro d’amarena o ago di suono.
Ti prende e sai di non avere altre strade. Vai nel negozio vicino a comprare il pane.

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Qui da noi ora le finestre si chiudono.

Quando passo per la strada che mi piace, quella che quasi si strozza fra le case basse, non sento più l’odore del caffelatte col pane, che non è amaro e non è dolce, la mattina.
E non gioco a indovinare se, nella casa gialla (la porta sull’asfalto), vedrò la vecchia in vestaglia o il vecchio con le spalle strette, che mangia in canottiera.
Dietro le finestre chiuse ciascuno si riprende il suo.
Solo l’estate fa teatro.

A queste giornate di confine resta il pudore.
E gli odori forti dei primi fritti, che infeltriscono l’aria.
A passare, li senti che sfiatano dalle imposte e gravano.
Come le abitudini.