Privilegio dei maschi erano le tasche: sui fianchi dei pantaloni, fonde e nascoste.
Giusto poteva penzolare l’elastico spesso della fionda, ma certi coltellini, certe biglie o figurine, e i fiammiferi, per cicche di risulta, quelli restavano segreti.
Alle bambine andava molto peggio.
Sui vestiti a quadretti col carré, le tasche erano davvero piccoline, per bambole educate, sedute in mezzo al letto.
Denunciavano chi aveva strappato gli amici del sole, per succhiarne gli steli di nascosto, lo spago e i pezzetti di candela, per eventuali soffitte da esplorare.
I sogni no, quelli in tasca non ci stavano: erano nei fiocchi a lato, nei capelli; dovevano prendere aria, perché ‘fa tutto il vento’.
Al massimo, in tasca, ci poteva stare un tesoro piccolo.
Il gioco dei tesori non era solo suo: gli anni bambini hanno bisogno di aquiloni, di incanti e di stupori. Si cercano nei sassi luccichini che al sole brillano, irrequieti, si cercano nei cassetti dei comò messi nel rustico: magari una canzone, scritta su foglietti con numeri ed oroscopo, poi da provare su musiche inventate, magari i baci di una cartolina, scritti con l’inchiostro blu, o una perla che ha perso la collana.
Quando il caso non regala, si costruiscono, i tesori, come auto-inganni.
Trovare un chiodo arrugginito, per esempio, e farlo diventare un amuleto, da tenere stretto nella mano, a scuola.
Sognare di scalfire una brisa, solo una brisa di vetro acquamarina, dalle pietre dell’aiuola in piazza, e usarla come acchiappa sole. E già vedere la gibigiana contro i muri, un guizzo, un’occhiata di luce all’improvviso.
Magari poterne prendere una tutt’intera, di pietre, e farne cento, mille, di brise, per ogni giorno della vita, ma una pietra in tasca non ci stava.
Il fischietto intagliato, sì. Quello ci stava.
La bambina della casa in fondo non ci giocava mai ed era proprio finito sulla linea del cancello: a ben vedere, più fuori che dentro, certamente.
Bastava spostarlo con un piede, verso la strada, e fingere che fosse stato sempre lì, orfano e in cerca di una bocca che ti fischi.
Era un regalo di magia, si diceva la bambina: a soffiarci, forse si diventava usignoli del Giappone, con il petto arancio e con il becco in tinta, come c’era sul libro di lettura. Forse si chiamavano altri uccelli, pettirossi, passeri storditi, e la cincia, magari la ghiandaia che ha le piume a pois.
Era un tesoro da ficcare in tasca e correre a casa, si sa mai …
“Questo non è tuo”. Alla madre era bastata l’imboccatura che spuntava dalla tasca, pur se confusa col crespo di sangallo.
L’umiliazione del riporto.
La corsa, col fischietto nascosto nella mano, poi poggiato sulla soglia della casa in fondo.
Dopo tre giorni, rivederlo fra scorze di cavolo e radicchio, nel secchio del pattume.