• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: giugno 2018

La bambina del fischietto

28 giovedì Giu 2018

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Privilegio dei maschi erano le tasche: sui fianchi dei pantaloni, fonde e nascoste.
Giusto poteva penzolare l’elastico spesso della fionda, ma certi coltellini, certe biglie o figurine, e i fiammiferi, per cicche di risulta, quelli restavano segreti.
Alle bambine andava molto peggio.
Sui vestiti a quadretti col carré, le tasche erano davvero piccoline, per bambole educate, sedute in mezzo al letto.
Denunciavano chi aveva strappato gli amici del sole, per succhiarne gli steli di nascosto, lo spago e i pezzetti di candela, per eventuali soffitte da esplorare.
I sogni no, quelli in tasca non ci stavano: erano nei fiocchi a lato, nei capelli; dovevano prendere aria, perché ‘fa tutto il vento’.
Al massimo, in tasca, ci poteva stare un tesoro piccolo.

Il gioco dei tesori non era solo suo: gli anni bambini hanno bisogno di aquiloni, di incanti e di stupori. Si cercano nei sassi luccichini che al sole brillano, irrequieti, si cercano nei cassetti dei comò messi nel rustico: magari una canzone, scritta su foglietti con numeri ed oroscopo, poi da provare su musiche inventate, magari i baci di una cartolina, scritti con l’inchiostro blu, o una perla che ha perso la collana.

Quando il caso non regala, si costruiscono, i tesori, come auto-inganni.
Trovare un chiodo arrugginito, per esempio, e farlo diventare un amuleto, da tenere stretto nella mano, a scuola.
Sognare di scalfire una brisa, solo una brisa di vetro acquamarina, dalle pietre dell’aiuola in piazza, e usarla come acchiappa sole. E già vedere la gibigiana contro i muri, un guizzo, un’occhiata di luce all’improvviso.
Magari poterne prendere una tutt’intera, di pietre, e farne cento, mille, di brise, per ogni giorno della vita, ma una pietra in tasca non ci stava.

Il fischietto intagliato, sì. Quello ci stava.

La bambina della casa in fondo non ci giocava mai ed era proprio finito sulla linea del cancello: a ben vedere, più fuori che dentro, certamente.
Bastava spostarlo con un piede, verso la strada, e fingere che fosse stato sempre lì, orfano e in cerca di una bocca che ti fischi.
Era un regalo di magia, si diceva la bambina: a soffiarci, forse si diventava usignoli del Giappone, con il petto arancio e con il becco in tinta, come c’era sul libro di lettura. Forse si chiamavano altri uccelli, pettirossi, passeri storditi, e la cincia, magari la ghiandaia che ha le piume a pois.
Era un tesoro da ficcare in tasca e correre a casa, si sa mai …

“Questo non è tuo”. Alla madre era bastata l’imboccatura che spuntava dalla tasca, pur se confusa col crespo di sangallo.
L’umiliazione del riporto.
La corsa, col fischietto nascosto nella mano, poi poggiato sulla soglia della casa in fondo.

Dopo tre giorni, rivederlo fra scorze di cavolo e radicchio, nel secchio del pattume.

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Verso la Rodiana

26 martedì Giu 2018

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E’ una strada sghemba che va verso la Rodiana, sghemba e incerta come pensieri di ragazza.

Nei giorni pesanti di calura, gli occhi si chiudono alla luce perché il sole, qui, è polvere che si leva dalle cavedagne. Si aspetta l’acqua perché la polvere torni ad essere terra e si drizzi in piccole creste quasi risentite.

Per dire come sa essere la campagna, occorrerebbero metri di filo steso, balle di stoffa spiegata e stirata con le mani, senza l’aria a fare gioco.
Bisognerebbe pensare in orizzontale, fermarsi allo strato più basso e scrivere scrivere scrivere su un’unica linea.
Pensare in piatto e in giallo, anche. Perché pure il giallo è orizzontale, qui.
Si è preso la terra.
Gronda nei fossi, come certo olio denso e lento, che cede alla forma delle cose, e costeggia la ferrovia, in uno slargo laterale: scorre in basso, senza slanci.
Se ne sta qui, borioso per un niente (un giallo da trombe sfiatate o cornucopie vuote).
Dove non ci sono i campi di granturco, restano solo, incerte e schiacciate, delle stoppie corte.
Pare essersi mangiato gli uomini, come formiche, e averli nascosti in questi rotoloni che hanno scorticato la buccia della terra per farne paglia.
Rotoloni metafisici.
Fitti, in linea d’aria con la pieve vecchia, in fila indiana lungo la ferrovia, in splendido isolamento e disordine al centro della campagna grande.
Silenziosi e stupefatti, lascito o pedaggio.

Sono un nuovo paesaggio d’attesa: disegnano radure e direzioni allo sguardo.
Fosse caduto il sole, potrebbero essere le sezioni robuste dei suoi raggi da polipo.
Fossero i tronchi di antiche colonne, potrebbero essere i resti di un tempio selvatico.
Sogno di un verticale cui dare forma.
Piace pensare alle preghiere che avrebbero accolto, mentre i cuculi battono gli anni da rincorrere sulle dita, per non perdere il conto.

 

oggi

22 venerdì Giu 2018

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La cosa
Nei giardini storici di Palazzo Bonazzi di Ostiglia, oggi, venerdì 22 giugno ore 17,30, in occasione del solstizio d’estate, in omaggio a Gianfranco Maretti Tregiardini, Zena Roncada presenta il libro postumo, curato da Marco Munaro, “Con l’ultimo treno della sera”. Letture a cura di Giulio Benatti.
In caso di maltempo, l’incontro si terrà nella sala Consiliare del Municipio di via G. Viani.
Il luogo
I giardini storici di Palazzo Bonazzi. I giardini, vincolati da tutela paesistica con decreto ministeriale del 3 gennaio 1952 comprendono il Giardino Storico Bonazzi che si sviluppa su una superficie di 6000 mq (annesso al Palazzo Comunale costruito nel 1783), ed il Giardino Pubblico adiacente di 7800 mq. Uno spazio verde nel centro storico del Comune dove nella zona storica spicca l’esedra. Oltre alla valenza naturalistica, con la presenza di numerose piante (145 quelle censite nel corso della riqualificazione) il giardino è uno spazio di notevole pregio storico e monumentale.
 

Cronache dal terrazzo 5.

21 giovedì Giu 2018

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Ho scelto le vinche pendule per quel tratto di terrazzo che diventa balcone, in un offrirsi all’esterno, proprio come un dono. Ricadono con moderazione, le vinche, ma sono generose di fiori, semplici, a ricalcare i disegni dei bambini.
E’ quotidiana la cura del terrazzo e quotidiana è la cura del balcone.
Però.
Un’intera cassetta, seguita un po’ di più perché tanto esposta al sole, si è intristita: le foglie si sono raggrinzite e i fiori son lì, tutti snervati. Sembrano marionette senza fili, col capo reclinato.
Bisogna salutarle.
Il fioraio sentenzia: troppa acqua, troppa attenzione. I fiori bisogna anche saperli trascurare.
Bella lezione da mandare a mente. Ci vuol misura nella dedizione.
Che sia l’eccesso d’affetto non richiesto a rovinar le cose?

Talvolta…

 

Sorelle

15 venerdì Giu 2018

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Bisogna pensare a certe strade che sembrano farsi da sole, in mezzo ai campi: un diradarsi improvviso delle spighe, che si tirano da parte per il passaggio di un carretto.

Specie, bisogna pensare ad una strada bianca: il nome non deve far scordare i sassi, ma abbagliare, forte. Nei giorni di calura.
(Quando gli occhi si stringono alla luce e le cose si sfrangiano, dentro la fessura, scomposte dall’orlo delle ciglia. Pungono, anche, perché il sole qui da noi è argilla sminuzzata, polvere che si alza dalle cavedagne e aspetta l’acqua per drizzarsi in punte dure: piccole creste quasi risentite, unghiate di ruote appesantite)

E bisogna pensare al pomeriggio che si cuoce lento, slana le gambe e le fa malate, col gonfiore a tendere, lucida, la pelle. La domenica.
(Quando la giornata ha una forma incerta e lascia il lavoro ad un trattore, giusto verso sera, perché, tanto, qualcosa si può ancora fare, se le donne se ne stanno quiete nella corte: a parlare e guardare i gerani dentro le latte di conserva o maledire l’odore dei maiali nel porcile)

Poi bisogna pensare a due sorelle ragazze, sulla strada bianca, con la veste buona, che ha maniche a coprire, lo scollo piccolo e quadrato. Non si deve mostrare la pelle tutta scura, dice di troppe ore passate a trapiantare: l’acqua e limone si può, ma solo per le mani.
Stanno andando alla benedizione.

Una pregusta il senso di incenso e di frescura del primo passo nell’ombra della chiesa. L’odore dei gigli già trascorsi ancora appiccicato alle statue e ai legni delle panche. L’altare con i pizzi in devozione, preghiere fatte a tombolo, regalo del tempo e della cura a sanare peccati e desideri. Le tele stirate con lo zucchero, neanche la piega di un pensiero. E la giaculatoria coi nomi dei santi tutti in fila, che si smemora in lunghe cantilene, lunghe come il fiume, che tutto porta, tutto… Si sta protetti dentro quel candore e obbedire pare il solo gesto.

L’altra si leva le scarpe e le tiene entrambe per le stringhe. Dondolano in gioco, le scarpe, docili alla mano che segue una sua musica, lontana. Cammina sicura a piedi nudi, la Elsa. Non appena la curva della strada la salva dallo sguardo di sua mamma.
(Si laverà alla pompa con la spranga di ferro per timone, sul bivio del rosario, spigolando l’ombra della colonnina e basterà traversare di corsa il trifoglio per asciugarsi bene. Le scarpe salve da polvere e sudore)
Guarda e capisce, la Livia: Allora tu non vieni.
La Elsa fa no no e conta i passi che mancano alla Elge, che tiene il ballo, nella sala grande del caffè, con le pale al soffitto e il biliardo tirato da una parte, la limonata fresca appannata sui bicchieri. A pochi passi dalla chiesa., col prete avanti indietro, a vedere chi si perde e chi si salva.
La musica si sente da lontano, a favore di un alito di vento: violino, fisarmonica e piano verticale pronti a straripare dai muri della piazza. La Elsa si è tenuta le scarpe belle fresche, pronte per ballare, perché il ragazzo che le ha ben fatto segno, in chiesa, la mattina, di certo ci sarà. E saranno polche e mazurche e parole dolci nell’orecchio e quel senso di pienezza al petto.

A casa non c’è da dire niente.
La Livia lo ripete a voce bassa. Ma già lo sa come andrà a finire: si arriverà più tardi, mute tutte e due, ma la Elsa con gli occhi che sono ancora altrove.
La madre capirà col senso delle donne, altro odore sulla pelle e quel rosa che viene dagli amori. Paura, memoria e gelosia, a fare fitto, insieme.
Due schiaffi, uno per sorella.

Cronache dal terrazzo 4

08 venerdì Giu 2018

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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Vicino alla finestra del bagno la madresilvia si arruffa con un profumo lattiginoso.
Lì c’è un nido di merli.
Hanno lavorato sodo: si davano la voce e c’era tutto un cercar cose in giro, nel volare basso.
Il nido ora è solo una macchia più scura, ricamata di foglie.
Impenetrabile di chioccolii.

C’è stato vento in questi giorni.
Tanto vento.
Tanta pioggia.
E lampi.

I rami della madresilvia hanno ceduto, subito: che combattono a fare, con quei fiori che ingialliscono solo ad annusarli.
L’aria li convince in un attimo e loro si sciolgono snervati. Sparse le molli trecce…
Sembrano lenzuola annodate per un’evasione.
Giù a penzolare.

Il piccolo del merlo ha colto l’occasione ed è sceso di lì: fuga dal nido, grazie a una scaletta di madresilvia, il temerario.
Adesso piange, rotondo, sotto la panchina, già teatro di liaisons lumacose.
Lo sgridano, con gorgheggi prolungati.
Istruzioni di volo un tantino nervose.

Il piccolo è obesamente grigio e tiene il becco spalancato di rosso, come fermo in un richiamo continuato.
E ciondola, ora su una zampa ora sull’altra: non sa scattare.

Gliele cantano, oh se gliele cantano: c’è tutta una mappa celeste nel fischio paterno.
Il piccolo resta per ora lontano dal nido, lontano dal cielo. In bilico fra il mondo piccolo e il mondo grande.
Certo volerà, fra un poco, ma non per tornare.

La strada di casa non sempre accoglie il ritorno.
Lo lascia sospeso, sogno di ricongiunzione.

E nòstos oscilla lieve come un velario o la promessa di un angelo.

Lessico&scarpe

03 domenica Giu 2018

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La mia adolescenza, dal punto di vista calzaturiero, conobbe per un lungo periodo soltanto un nome: mocassini.
Maschili, con l’impuntura ribattuta e il tacco largo, due cm come massima concessione alla vertigine.
Neri d’inverno, con  calzettoni al ginocchio dieci centimetri sotto l’orlo della gonna. A pieghe, la gonna. E corta. Un po’.
Bianchi d’estate, quando la parola d’ordine era: sandali mai! Piuttosto a piedi nudi, sui sassi a punta.
La Rosa miamamma, che mi aveva allevato a scarpe Pupa di vernice per tutta l’infanzia, cercava di addomesticarmi a certe ciabattine estive vezzose, senza risultato: non sono sandali, in fondo, mi diceva.
Ci fu resistenza, tranne un esasperato cedimento ad un paio di infradito di plastica, molto fiorite, per fortuna subito divorate dalla Lola, la pointer di casa, apparsa trionfante con una plasticosa margherita pendula, al lato della bocca. Golosa.
Il mocassino era uno strumento di equilibrio universale: piedi ben piantati a terra, passo svelto verso il sol dell’avvenire, slancio proletario del polpaccio. Compensava i sogni e i mondi alla rovescia rispetto all’esistente.
Ma.
La Rosa miamamma aveva per amica una signora deliziosa. Modista. Parola altrettanto deliziosa, che nel lessico familiare significava: gentile persona capace di impiantare un cappellino effimero, con un fiore, un cerchietto, un nastro e una nuvola di tulle, rubata a una bomboniera.
Anche la suddetta signora aveva una figliolina circa della mia età.
Per questo miamamma, per le feste d’inverno, arrivò a casa con una parola nuova: festina, l’ultimo dell’anno. E relativa spiegazione: figlia della modista, invito, bisogna che tu vada, il mondo lo cambi dal primo dell’anno in poi.
Sguardo preoccupato alla versione invernale dei miei mocassini, con suola a carrarmato.

E’ bello cedere ogni tanto, rompendo la maschera del ruolo.
E’ bello confessare, a se stessi e in silenzio, che una cosa fa piacere.
Partì una vertenza sindacale che si concluse con l’opera mediatoria della zia sarta: sì al maglione nero, che faceva molto esistenzialista francese, ma addolcito da una scarpina decolleté.
Fu la zia ad arrivare con l’oggetto del desiderio (altrui): tacco bassino e non esile, punta arrotondata ma slanciata, scollatura che faceva intravvedere l’innesto delle dita del piede, il tutto in pelle intrecciata. Strette. Da morire.
Per abbellire bisogna soffrire, fu la frase che siglò la convinzione parentale che io dovevo tenermele e domarle. Sempre nel lessico di casamia, questo significava camminare più che si poteva per allargare le scarpe, nella totale indifferenza a vesciche e rossori. Importante inumidirle.

Pioveva, quel pomeriggio dell’ultimo dell’anno: io camminai sotto la pioggia nel cortile e le inzuppai. Per rimediare le infilai nel cancelletto del forno della stufa a legna, di nascosto.
Un odore crudelmente biscottato fu non abbastanza precocemente intercettato: le decolleté ormai avevano assunto una forma molto simile agli orologi di Dalì.
Alla festa andai con le scarpe di sempre, ingentilite da un fiocchetto di raso, ma le decolleté entrarono nella mia vita, con senso di colpa retroattivo.

Sono tornata ai mocassini, in questa fase della mia esistenza senza troppi slanci e con molta incertezza. Ho bisogno di aderenza alla realtà e di passi sicuri, ora che mi sento più fragile. E se tornasse qualche sogno, se si accendesse qualche speranza di cambiare la realtà,  sempre più confusa e lontana dai valori che amo, piace pensare di ripartire dalle mie scarpe basse ben piantate a terra, perché eppur bisogna andar.
Sorriso.

Il tempo degli zingari

01 venerdì Giu 2018

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Il tempo del campo degli zingari alla stazione-porto (pioppi immensi d’ombra) si viveva con trepidazione.
Si chiudevano i pollai con cura, perchè gli zingari sono palpagalline.
Ci mettono niente a rubarle e a lasciar lì le penne, come uno sberleffo.

Noi bambine del viale temevamo per le galline, ma ci piacevano anche gli zingari, pure se tradivano di persona le fantasie che Bolero o Grand Hotel disegnavano per noi.
Sui giornali le zingare dei fumetti avevano teste ricciute e grandi seni, che le camicie scollate neanche trattenevano, e grandi anelli alle orecchie. Le nostre, del campo della stazione-porto, erano piccole e scure, con le caviglie sporche e petti scarni, un bambino appeso. E capelli strapazzati e crespi, lunghi lunghi sulla schiena.
Se ti passavano vicino restava nell’aria un odore fitto di vecchio, di panni mal asciugati e di antichi sudori. Abbassavo il palato e trattenevo il fiato per tenere lontano l’odore, che pure si ingentiliva di spezie.
Ma quando c’erano le nozze, gli zingari erano diversi. Carovane mai viste chiudevano il campo alla vista. Bisognava andare vicino per vedere e non fingere sguardi sussiegosi, come se ci si trovasse a passare per caso.

Era bella, la sposa.
Le avevano alzato una tenda bianca fra i pioppi e intorno carrozzoni e cavalli con gli zoccoli piumati riposavano.

Fu facile andare.
La prima luna turca della mia vita, alle nove di sera di un maggio di zingari, tanti, qui e lungo le strade, nastri di voci e di occhi scuri.

La paura è solo in cuori d’ombra.
E non è paura il grido del sangue, veloce a battere, e neppure le corse del cuore.
Non e’ paura.
Ci vuole un premio per chi attraversa la strada da sola e, pesante di bugie recitate nella casa grande, spia la sposa degli zingari, da sola e di sera, al bosco della stazione porto, dietro i tubi di ferro.
E prepara il suo tradimento.
Niente amiche quella sera.
Basta.
Niente aspettare il loro ritorno dal rosario, tenendo d’occhio la strada della chiesa.
Basta.
Da sola, senza maschi, perchè poi non tengono neanche il brodo e vanno a inventarsi chissà cosa.
Nessuno, per avere un vero segreto da raccontare.
Altrochè il rosario.
E allora ci vuole almeno il premio della non-paura, anche se le gambe non lo sanno e fanno prurito di nervoso.
E l’idea d’aver fatto finta di niente a casa e di aver detto “vado a giocare” sta diventando di marmo.

Ma è bella la sposa, ferma e seduta con le collane al collo e un piatto di carne in mano.
Col vestito bianco, bianco come le camicie degli nomini che ballano sotto la tenda.
Si può restare anni a guardare.
E che veli sottili, le vesti delle donne che arrivano a terra, soffiate dalle arricciature. Rispondono morbide ai loro gesti di regina. Ma allora esistono anche gli zingari ricchi, di veli e di ori, e questi non portano via i bambini. Ne hanno tanti, e belli. Cosa se ne fanno di altri bambini?
Questi hanno anche la radio senza fili e le fisarmoniche.
Sono grandi le ombre degli zingari sulla tenda, e sembrano ciclopiche idre marine, le donne, dalle braccia danzanti.

Il braccio sulla spalla,da dietro, pesò e graffiò, di colpo, come una scossa, una frustata di ortiche.

Non è paura.
E’ molto peggio.
E’ come vivere tutta la vita in un secondo.
Non ci sono più feste e zingari ricchi. Solo sacchi e carrozzoni e schiaffi e catene e vestiti sporchi e scarafaggi.
Di più: pipistrelli intrappolati nei capelli lunghi e pasticciati come quelli delle zingare povere.
Lunghissimi capelli.
E già mi vedo piccola fiammiferaia, io: per le strade, a chiedere l’elemosina, a scaldarmi coi fiammiferi, al freddo, e a piangere la sera, mentre la carovana va…ma dove va poi ‘sta carovana …

“A casa, andiamo a casa”.
Il nonno mi prese per la mano.

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