La mia adolescenza, dal punto di vista calzaturiero, conobbe per un lungo periodo soltanto un nome: mocassini.
Maschili, con l’impuntura ribattuta e il tacco largo, due cm come massima concessione alla vertigine.
Neri d’inverno, con  calzettoni al ginocchio dieci centimetri sotto l’orlo della gonna. A pieghe, la gonna. E corta. Un po’.
Bianchi d’estate, quando la parola d’ordine era: sandali mai! Piuttosto a piedi nudi, sui sassi a punta.
La Rosa miamamma, che mi aveva allevato a scarpe Pupa di vernice per tutta l’infanzia, cercava di addomesticarmi a certe ciabattine estive vezzose, senza risultato: non sono sandali, in fondo, mi diceva.
Ci fu resistenza, tranne un esasperato cedimento ad un paio di infradito di plastica, molto fiorite, per fortuna subito divorate dalla Lola, la pointer di casa, apparsa trionfante con una plasticosa margherita pendula, al lato della bocca. Golosa.
Il mocassino era uno strumento di equilibrio universale: piedi ben piantati a terra, passo svelto verso il sol dell’avvenire, slancio proletario del polpaccio. Compensava i sogni e i mondi alla rovescia rispetto all’esistente.
Ma.
La Rosa miamamma aveva per amica una signora deliziosa. Modista. Parola altrettanto deliziosa, che nel lessico familiare significava: gentile persona capace di impiantare un cappellino effimero, con un fiore, un cerchietto, un nastro e una nuvola di tulle, rubata a una bomboniera.
Anche la suddetta signora aveva una figliolina circa della mia età.
Per questo miamamma, per le feste d’inverno, arrivò a casa con una parola nuova: festina, l’ultimo dell’anno. E relativa spiegazione: figlia della modista, invito, bisogna che tu vada, il mondo lo cambi dal primo dell’anno in poi.
Sguardo preoccupato alla versione invernale dei miei mocassini, con suola a carrarmato.

E’ bello cedere ogni tanto, rompendo la maschera del ruolo.
E’ bello confessare, a se stessi e in silenzio, che una cosa fa piacere.
Partì una vertenza sindacale che si concluse con l’opera mediatoria della zia sarta: sì al maglione nero, che faceva molto esistenzialista francese, ma addolcito da una scarpina decolleté.
Fu la zia ad arrivare con l’oggetto del desiderio (altrui): tacco bassino e non esile, punta arrotondata ma slanciata, scollatura che faceva intravvedere l’innesto delle dita del piede, il tutto in pelle intrecciata. Strette. Da morire.
Per abbellire bisogna soffrire, fu la frase che siglò la convinzione parentale che io dovevo tenermele e domarle. Sempre nel lessico di casamia, questo significava camminare più che si poteva per allargare le scarpe, nella totale indifferenza a vesciche e rossori. Importante inumidirle.

Pioveva, quel pomeriggio dell’ultimo dell’anno: io camminai sotto la pioggia nel cortile e le inzuppai. Per rimediare le infilai nel cancelletto del forno della stufa a legna, di nascosto.
Un odore crudelmente biscottato fu non abbastanza precocemente intercettato: le decolleté ormai avevano assunto una forma molto simile agli orologi di Dalì.
Alla festa andai con le scarpe di sempre, ingentilite da un fiocchetto di raso, ma le decolleté entrarono nella mia vita, con senso di colpa retroattivo.

Sono tornata ai mocassini, in questa fase della mia esistenza senza troppi slanci e con molta incertezza. Ho bisogno di aderenza alla realtà e di passi sicuri, ora che mi sento più fragile. E se tornasse qualche sogno, se si accendesse qualche speranza di cambiare la realtà,  sempre più confusa e lontana dai valori che amo, piace pensare di ripartire dalle mie scarpe basse ben piantate a terra, perché eppur bisogna andar.
Sorriso.