• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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La bambina della sala

28 venerdì Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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I ricci lisciati sulla tempia, con il pettinino, lasciavano scoperto un po’ l’orecchio, di orlo sottile e delicato.
Mentre metteva l’orecchino, il collo si piegava in curva dolce, i capelli calati sulla spalla.
Era così bella e giovane, sua mamma.

Tu hai da stare a letto, però le aveva detto. Stretta, anzi un po’ dura.
Ma come si faceva?
Da sola, in quelle stanze: la paura sapeva salire per le scale, cavalcando scricchi e cigolii, e poi picchiava al petto, alle tempie e metteva il nervoso nelle gambe.
Lo sapeva, sì, che ad arrivare era solo la vecchia età del legno, non una strega, non un qualche babau tutto imbrinato.
C’è che la paura non sente le ragioni.
Lo sapeva, sì, che in un attimo si poteva uscire: due passi ed eccola in sala, nel teatro che il nonno riscaldava con una stufa grande come un forno.
Se hai paura traversi il cortile, poi resti lì con me, alla cassa. Stacchi i biglietti tu, che il nonno sarà in chiacchiere, lo sai, la Matilde sua nonna l’aveva messo bene in chiaro.
Ma come si faceva, se sua mamma non voleva?
Ascoltare una e non l’altra era una maniera per farle litigare.
(Porte sbattute, rinfacci per le stanze, sua mamma a piangere e a dire che non era colpa sua)

La musica arrivò come un invito, assieme ad un grattare, forse di unghie roditrici.
Fu già in piedi, allora, con il vestito buono e i capelli tirati con le dita.
Sua nonna non le disse niente: cominciava a farsi un po’ di gente, sul filo di ‘Amapola, dolcissima Amapola, la sfinge del mio cuore sei tu sola’.
Era una festa messa su di fretta, per gentilezza d’una fisarmonica. Ché, poi, bastava un ragazzo in vena di mandòla o Clio, se dal suo violino frizzava quel suono brillantino che metteva ai piedi la voglia di ballare.
La bambina guardò intorno la sala: ai lati, fiancate di poltrone, per fare spazio in mezzo, e le assi per terra appena impolverate.
Nascosta fra la tenda rossa, per seguire il ballo uscito dal violino.
‘Maria La-O lasciati baciar,
Maria La-O tu mi fai sognar…’
La vide finalmente, la sua mamma, col vestito di rasone spesso, le stelle, le rose e tante piroette.
Eppure la gente guardava e poi rideva.
Il vestito, i sandali, la zeppa … Andava tutto bene. Persino il cavaliere.
Eppure la gente guardava e poi rideva.

Quando nel ballo le giunse da vicino, vide che dietro, proprio sul fianco, anzi più giù, stava incollata una caramella, gialla e rotonda, beffarda e appiccicosa come la risata grassa della gente che ruotava intorno, e guardava e rideva, guardava e rideva.
Anche il violino sembrava ridere di naso e le luci e le donne poggiate alle poltrone.

La bambina sentì lo schifo in bocca, forse il caldo o la polvere.
Forse la vergogna. Anche quella vecchia, di un padre che non c’era e non si sapeva, e dei silenzi in casa, alle sue domande.
E le pareva di vederla, quella mano d’uomo, prendersi confidenza con sua mamma, toccarla per sporcarla con il gesto, un gesto sciocco di sprezzo e derisione .
Solo sperava che sua nonna non vedesse o almeno non dicesse a sua figlia quelle parole brutte, tirate dietro, pesanti come schiaffi.

Sua mamma ballava e non sapeva nulla.
Era così bella e giovane, sua mamma.

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Pensieri in fuga 15.

23 domenica Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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Settembre di giorno è ancora l’estate, di sera e di notte non più.
La civetta lo dice, vicina alla casa.
Di notte l’odore  di ciancia torna a battere nei vetri.
E’ di zolfo dolciastro e di altro.
Della barbabietola ha solo il fresco di cetriolo maturo.
Racconta la fabbrica che c’era.
Coi suoi rumori (o clangori) secchi e ritmati, andava e andava: zampettio di cingoli e luci, e operai nascosti chissà dove a sudare.

A ricordarne l’odore, viene voglia di cercare i vapori, o almeno le strie dei carri, per terra, o la gente ai cancelli a guardare questo circo da poveri, che non costa niente.
La fabbrica è spenta, da tanto.
Tana di gatti, che la notte colano lungo i muri, senza rumore, come miele dal vaso.
L’odore viene da lontano, portato dal vento.

Perché anche i luoghi hanno fantasmi, a saperli annusare.

Ci son storie fatte d’odori che restano in gola come carta vetrata.

La bambina del bosco

18 martedì Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Perché piovesse sempre, quell’ottobre, sul bosco della Mesola, non era dato capire.
I vecchi lecci sembravano più curvi e le tamerici toccavano terra sotto il peso molle dei rami.
Il vento spostava fasci d’acqua.
Abitare proprio sul ciglio, in faccia al bosco, per via del padre guardiano, era come stare davanti a un sipario verde e gocciolante, che sbatteva e si arricciava a scatti.
La bambina guardava la pioggia cadere di stravento e le pareva che ogni goccia si portasse via tutti i resti dell’estate e facesse arrivare il freddo a grandi passi.
Con tutti quei fratelli in casa, nella cucina stretta, c’era solo da sperare che la barchessa non facesse troppa acqua dal tetto e i più piccoli sfollassero lì, a fare confusione.
La barchessa era di tutti e di nessuno, un vuoto pieno, che faceva squadra con la stalla e coi servizi bassi, destinazione per gli attrezzi e per i giochi dei giorni piovosi o troppo caldi.
Il carretto di legno per gli sfalci, forche e tridenti appesi, il braciere nell’angolo più asciutto, buono anche per il bucato grande.
A ridosso del muro della stalla, stava il tavolo lungo: sapeva di pino e di salmastro, l’odore che il delta spalma sulle cose nel lento slargarsi del Po, quando gli argini non tengono, non fanno resistenza e si slentano per accogliere il mare.
La bambina amava quell’odore che soffiava e dal fiume e dalla costa per poi incontrarsi nel verde delle piante.
Lo sapeva di stare a un crocevia di mondi, dove ogni rumore e profumo raccontava del vicino e del lontano.
Ma ora il cielo non smetteva di macinare acqua e acqua, e il fango riempiva l’aria col suo sentore di palude.
Sì, ottobre portava in anticipo tristezza: fra le lenzuola stese in casa correvano parole d’apprensione. L’estate non era stata buona, l’orto avaro di patate, la stalla vuota già da tempo, adesso legnaia di fascine.
Il padre aveva il pensiero dell’inverno e quel giorno si mise ad incollare i fogli di giornale sui muri della stanza. Per tenere più lontano il freddo, già a novembre: un aiuto alla stufa, lui diceva, l’aveva visto nelle baracche di Goro, giù nel delta.
Più avanti si farà l’intonaco, rinnovava la promessa.
La cucina sembrava ancor più stretta, adesso: tappezzata di scritte tutte nere, rendeva visibile il bisogno.
La bambina sapeva dimenticarlo a primavera, quando il bosco tornava a germogliare con i pudori dolci delle gemme e i ciuffi teneri dei pini. Si andava al bordo della palude grande ad aspettare le tartarughe sveglie.
Anche d’estate si viveva bene: fuori tutto il giorno e la sera insieme, con la coperta gettata sopra il prato, ad ascoltare i gufi.
Ma ora il cielo non smetteva di macinare acqua e acqua, e in casa c’era l’acre della colla fatta di farina, l’umido dei muri gonfi di bolle e di spessori. Il fuoco acceso della stufa, per asciugare meglio, cuoceva anche l’odore e lo spandeva intorno.
Persino le voci dei bambini che giocavano a terra parevano più grigie, dentro un pomeriggio pigro e lento.
Dovette capire il padre che qualcosa bisognava fare.
Uscì nella barchessa.
La bambina lo sentì trafficare col paiolo e il braciere, poi vide la madre uscire.
Rimase in casa per non sciuparsi la sorpresa.
Aspettò che il fischio di suo padre, quello che annunciava il suo ritorno a casa, chiamasse a raccolta sotto la tettoia.
Portate i cucchiai, che sono nel cassetto, era allegra la voce e piena di promesse.

Sul tavolo lungo, a ridosso del muro della stalla, tante foglie larghe di fico: sopra, un triangolo di zucca che fumava, arancio e caldo, col suo profumo di zucchero salato.
Come mangiare il sole col cucchiaio, scottarsi e ridere, guardando la pioggia che cadeva.

Paradisi

15 sabato Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Le avessero chiesto dov’era il paradiso, si sarebbe fatta il segno della croce, poi avrebbe detto qui.
Qui era una fetta di terra sfragolona. Grassa e scura.
Si apriva a zampa di gallina: una strada per ogni grifa.
A un crocevia di venti e di speranze.
Qui era il caseificio della Stoffa, e suo marito dalle mani grandi. Voluto ad ogni costo.

A niente le prediche del padre, sempre a dire con quattro femmine c’è da vedere chi ti viene in casa.
A niente gli sguardi lunghi in chiesa, quando, con la veste azzurra, arrivava alla messa, fiera e diritta, in mezzo alle sorelle. Per lei c’era chi avrebbe dato intera la cascina.

E pure rideva ai baci dei soldati, che arrivavano brevi sulle dita dalla caserma in ozio, vicino all’ospedale, in quella Ferrara accesa di mattoni, come sa esserlo nei giorni della festa.
La Zoraide le richiudeva presto la finestra, ché alle zie questo tocca fare, ma quasi le sembrava di essere cattiva.
La Elsa rideva e il suo cuore ritornava a casa.

Certo le piaceva sentirsi riguardata, ma, il suo sposo, già se l’era scelto.
A costo di non gemellare le terre con nessuno.
A costo di farci la scappata.
Così.
Col treno fino a Mantova.
Da soli.
Poi il matrimonio, senza vergogna per quel grembo glorioso da regina. Regina della Stoffa.

La corte, presa in quell’amore, cedeva alla semina, nell’orto e nella stalla.
Gentile come una tasca gonfia che si scuce.
Piselli dolci già da maggio e certe rose di radicchio rosso che sembravano crescere da sole.
Latte e burro, di quello con il cigno, impresso con lo stampo fine.
La forma intera, tagliata per Natale. Grana di quello buono, senza callo.
Persino gli scarti da dare alle galline, che chiamavano per l’uovo, la mattina.
E poi le sere lunghe, nella stanza quieta. Sola col telaio, a camminare con le mani, insieme alla navetta e al filo.
Tutto per sapere che questo è paradiso: fare e raccogliere, fare e trovare risposta alla fatica, buona se non lascia a mani vuote.
Le cose al loro posto, né tante né poche: nello stesso luogo.
Anche la paura.
Quella che arriva con la tosse del freddo, con le nespole gelate in tramontana, con le occhiate della madre, lì, apposta per guardarle il petto e dire Adesso, ancora?
Coi giornali con le scritte nere, che sporcano le mani, anche i pensieri, con un inchiostro difficile a levare.

Sì, venne la guera.
La guera spirulet che tira fuori casa, anche se non vuoi, anche se la bambina è nata con le febbri, anche se il caseificio non marcia senza braccia e il libro del latte resta senza croci.
Marito partito caldaie spente.
Lavorare o andare, dissero i padroni.

Allora la Elsa sentì il freddo della porta che si chiude.
La sua guera l’aveva già perduta. E pure il paradiso.
Non prese la strada per la sua casa di ragazza.
Se vi stringete un po’, disse alla suocera, a mi e li putini a ua ben la camara dal tler.

Lessico&ricamo

07 venerdì Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Per me il ricamo significa cucina.
A casa mia si ricamava in cucina.
Soprattutto il martedì, perché dall’edicola del mio paese arrivava, con la sua copertina cartonata, ma morbida e rosata, Mani di Fata.

A me piaceva per il nome, che era un programma fiabesco, una promessa di racconti.
Dal giornale di mia mamma, invece, non uscivano le fiabe: uscivano decalcomanie strane con l’inchiostro lucido in rilevo, ghirigori, pulcini, nastri, fiori, lettere dell’alfabeto, che si ripassavano a rovescio, col ferro da stiro caldo, e restavano lì, sulla tela, in attesa di prendere pienezza dai fili.
Il ferro da stiro lasciava, sul panno umido e reso scuro dalle ferrate, l’odore del pane biscotto: era quello l’odore del rito, che preparava le scelte dei colori e dei punti.
Mia mamma commentava i disegni con mia zia e con mia nonna, in un linguaggio spesso indecifrabile: punto quadro, mezzo punto, punto croce, punto a piqué.

Era un lessico a volte rubato alla natura (punto erba, gigliuccio, punto ombra, punto margherita, punto mosca) o ai libri di avventura, tanto i nomi erano esotici ed evocativi (punto Tunisi, punto Rodi, punto rumeno, punto Palestrina, punto corallo, punto cretese, persino la Stella Madeira e la Croce Maltese!).
Così, oggi, quando penso al ricamo, resta forte la memoria di quell’incanto.

Penso al senso di una bellezza che nasce come un testo o una pittura, da un foglio vuoto o da una tela bianca, e poi prende forma sulla traccia di un’idea, di un disegno o magari di una linea retta o curva, costruita con piccoli punti di ago e di filo. Una bellezza che si dischiude piano piano e si fa oggetto, in confidenza con la vita e/o con il corpo.

Penso alla perizia affettuosa che lo sostiene, perché il ricamo è techné e cuore, ingegno e vitalità espressiva, che non ha niente da invidiare ad altre forme di espressione.

E penso, ancora, a quanto poco si ragioni sul valore dei saperi nati dalle mani delle donne e sulle parole che sanno dirli.

La bambina della penna

04 martedì Set 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Finiti i compiti, accompagnate le amiche di scuola sulla porta, la bambina non sapeva cosa fare perché il tempo passasse con l’ovatta intorno, difeso dai rumori e dagli umori avversi.
Erano solo le quattro del pomeriggio e la mamma ancora a lavorare.
Bisognava aspettare le sei e sperare che la nonna continuasse a dormire, nella stanza appresso alla cucina.
Si erano fatti i compiti in silenzio, con quelle risatine soffocate che sembrano il verso dei pulcini, pur di non svegliarla.
Amiche clandestine dentro la cucina, con l’alfabeto muto e il gioco del mimo per comunicare. Così strano ridere senza voce, ma neanche alle altre piaceva quella nonna che sempre brontolava, che sempre ce l’aveva con qualcuno, specie con il genero, perché se n’era andato, costringendo la figlia a lavorare e lei a tirar fuori la pensione.
Col freddo la bambina non aveva il permesso per uscire: novembre portava il buio presto, bisognava rimanere in casa, ma a stare lì, senza sole, con la strada intubata contro il muro, c’era da aspettarsele, le malinconie.
Arrivavano come passeri d’inverno, nella fuliggine di un camino: polvere scura ai muri e un rotolare d’ali litigiose, fino al silenzio. In certi pomeriggi grigi, come nebbia sciolta nel bicchiere.
Allora preparava la cartella, per essere già a posto, solo lasciava fuori la penna.
C’erano i fogli del calendario da poter usare, grandi e bianchi, sul dietro. Come scrivere sul dorso dei giorni e dei santi.
Bastava trovare un pezzetto di giornale, magari il cartoccio dei fagioli secchi, per avere le parole da copiare, sul tavolo della cucina, con la luce bassa.
Calligrafia.
Quello le piaceva: scrivere, senza sapere cosa, tornendo le lettere alla perfezione, con la stilografica che suo padre le aveva regalato e che era diventata un talismano. Di madreperla rossa, con lo stantuffo pronto a succhiare tanto inchiostro ed un pennino morbido che non grattava mai. Sui fogli del calendario filava liscio come l’olio: l’inchiostro brillava per un po’, poi si asciugava piano piano. Sì, bisognava stare attenti alle sbavature, ad appoggiare il braccio per avere ferma la mano.
Il suo era un lavoro d’impegno e precisione, quasi di cesello, che dedicava a suo papà lontano, l’assente innominato dalla mamma e imprecato ogni giorno dalla nonna.
Quasi era per far dispetto a lei che la penna diventava così cara.

Le ciabatte a pianellare sul pavimento dissero che la nonna adesso era sveglia.
Venne in cucina, vicino al lavandino e prese a sciacquare tre bicchieri che lì si erano lasciati, per non far rumore.
Le tue amiche vengono soltanto per bere l’acqua frizzante, cosa credi?
La bambina capì che non era giorno per rispondere e continuò a copiare in silenzio quel che c’era scritto sul giornale.

Forse non lo fece apposta, forse fu davvero un capogiro: la vecchia appoggiò forte la mano sulla spalla della bimba, scuotendola, improvvisa. La penna cadde, rotolando: il pennino staccato, il cuore d’inchiostro blu a fare macchia e schizzi tutt’intorno.
Peccato, mica l’ho fatto apposta, disse la nonna e voltò via, a cercare uno straccio per pulire.
La bambina non disse niente, cos’altro poteva fare?
Prese quel che restava della penna, la nettò sotto l’acqua che correva: lacrime blu dentro il lavandino; l’asciugò con la carta assorbente e l’avvolse nel fazzoletto buono, in un funerale silenzioso.
Prese il foglio del calendario, fermo circa a metà, poi lo girò alla luce, contro la finestra, per vedere a che giorno e a che santo era arrivata.
19 novembre, san Fausto martire.
Il nome di suo padre.

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