• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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La bambina della visita

29 lunedì Ott 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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La bambina non sapeva.
Non sapeva se essere contenta o un poco triste.
Per essere tristi, il motivo, a ben vedere, c’era: la supplente, con la veletta nera in testa, era entrata in classe trafelata.
La mamma della vostra maestra non c’è più, poverina. Non aprite neanche le cartelle, si va in visita. L’ha detto il direttore.
Ma anche il bello stava proprio qui.
Niente quaderni, niente esercizi e neanche operazioni. Una mattina a gambe all’aria, con l’intervallo raddoppiato dall’uscita.
In giro, per l’aula, sguardi d’intesa dietro quel pensiero e facce d’occasione, un po’ contrite.
A serpeggiare era un senso di sollievo clandestino, quello che arriva quando ci si sveglia la mattina nel silenzio della neve alta: la scuola sprofonda a mille miglia di distanza, irraggiungibile nel freddo, così si torna a letto, fra le lenzuola calde che sanno di vacanza.

Lungo le scale e il corridoio, in testa la supplente, un corteo di formichine nere, fra ssssccchhh silenziatori e passi cadenzati. Forte la voglia di farsi sentire dalle classi escluse, nel privilegio di una passeggiata imprevista ed elettiva.
In realtà bastava attraversare la strada: la casa della maestra era a due spanne, con la finestra ad arco, il vetro un poco funerario, ruvido e increspato, come di carta pecora.
Più che una casa pareva una cappella.
La bambina, ferma nell’ingresso, insieme alle altre scolare intimidite, si guardò intorno: l’atrio era vuoto, pavimento di marmo così lustro da sembrare ghiaccio. Le porte laterali tutte chiuse e questo andava bene: si era venuti per la maestra viva, per consolarla del dolore, mica per altre cose.
A mettere soggezione era la luce: non arrivava dritta, faceva gioco col vetro smerigliato e si stampava, violetta, sui muri dell’ingresso. Lì imperava un grande crocifisso. Nell’aria, intanto, l’odore di un cesto di garofani con un nastro nero dava il raspo in gola.
Erano proprio i colori e i profumi della chiesa triste, quando il venerdì santo si andava in processione a fare la via crucis.

La supplente diede la voce e la maestra scese dalle scale, con gli occhi stanchi. Le abbracciò tutte, ad una ad una, disposte in fila indiana, in un mormorio un po’ chioccio, e tanti grazie grazieì in coda, sottovoce.
La bambina non sapeva.
Non sapeva se c’era da rispondere con slancio, magari mettere la mano sopra un braccio come una carezza, o almeno dire qualche cosa.
La Gabri, sì, aveva capito come fare: era la cocca e adesso singhiozzava sulla spalla maestra e tirava su col naso.
La bambina, quando giunse il suo turno, restò fissa impalata: neanche una lacrima arrivava, neanche una putina, una quasi goccia che si ferma fra le ciglia e resta lì, incerta se uscire o rientrare. Niente, eppure ci provava e pensava a suo nonno, che non c’era più, per farsi venire un poco di magone o almeno un’espressione addolorata.
La prima volta in un abbraccio non di casa sua, straniero. Non servì annusare la cipria di quella pelle aliena, così diversa dal volto di sua mamma.
Si ritrasse, con la paura di essere sgarbata, ma proprio in quel momento la porta più vicina si spalancò di scatto, come un occhio impaurito. Forse un colpo di vento, venuto a far l’intruso dalla finestra aperta.
La bambina non voleva fare la curiosa ma seguì l’aprirsi della porta con lo sguardo.
C’era la stessa luce livida, nella stanza, ma un raggio filtrò dall’impannata, un raggio di sole ottobrino che non accetta di spegnersi del tutto. Tagliò e illuminò, svelando.
La bambina vide non un letto, ma una tavola, lunga e scura.
Due piedi nudi e colore della liscivia spuntavano dal lenzuolo bianco e ben tirato.
Solo due piedi, e uno con un fazzoletto annodato alla caviglia.
Due piedi. O forse due zampe, come quelle dei colombi viaggiatori, che hanno gli artigli e lo spago, legato a trattenere un rotolino di parole dentro a una cartuccia.
E’ volato in cielo, dicevano a casa sua per annunciare che qualcuno si era spento.
E lei pensò che era così davvero.
Dopo, si diventa uccelli, pronti per il volo, forse con un messaggio da portare in alto.

Le Onoranze tardano a venire, si scusò la maestra, richiudendo la porta.

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Pensieri in fuga 18.

24 mercoledì Ott 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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Sto pensando ai fili che collegano i pensieri alle parole.
I pensieri vivono nel disordine della fluidità: non hanno stacchi né separazioni, si muovono con l’andamento dei sogni, ad anse lente e tangenti. Onde pigramente mobili. E sovrapposte.

Le parole hanno bisogno di distanza. Le mie, almeno, da sempre cercano la differita.
Per questo ripercorrono spesso la strada del ricordo. Per questo stanno bene nell’attesa.
Ricordo e attesa sono i due modi della distanza temporale. Le due direzioni.

I giorni del silenzio, mi dicevo una volta, hanno l’ovatta intorno: non cose, non persone, non parole. Solo pensieri, invece, a fare fitto, a prestarsi paure rasoterra, domande che s’arricciano come bruchi e brevi respiri di sollievo.
Senza distanze.

C’è solo da accoglierli.
Nell’elogio della pazienza.

La bambina dello zucchero

16 martedì Ott 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 16 commenti

La bambina non sapeva dove stare.
Sarebbe salita volentieri per quelle scale di marmo così bianco e ci sarebbe scesa, facendosele tutte col didietro, gradino per gradino: sentire il freddo liscio sulle gambe e passare la mano sui ferri di ringhiera.
Ma la casa era grande e non la conosceva.
E poi l’Armida s’era raccomandata tanto. Ferma, doveva stare ferma. E zitta. E non chiedere niente: sua mamma sposava, finalmente.

Erano arrivate la mattina presto, sul furgone di Bindo, loro due: i fagotti della dote, con la mezza dozzina di lenzuola, il paletò di nozze per la sposa e la sottana nuova, sua, col bordo di passamaneria, due giri tutt’intorno.
L’Armida era restata a casa, forse per via del suo grembiule vecchio, pensava la bambina.

Alla bambina pareva cosa bella, questa del matrimonio.
Starete in una casa vera, anche col bagno, le diceva l’Armida, che aveva un suo modo quieto di prenderle i capelli e di tirarli in treccia, assieme alle parole. E vedrai tutti i giorni tuo papà.
Ché, lei, suo papà, lo vedeva solo la sera della festa, quando veniva lì, ai Torelli, a parlare fitto con sua mamma, nella stanza chiusa. Per lei, c’era e non c’era: la prendeva in braccio qualche volta, e la guardava in faccia, come nello specchio. La metteva giù e se ne andava via: sua mamma restava col nervoso e l’Armida piangeva.
Finiva a stare male, il giorno della festa.
La vecchia a dire disgraziata come me.
La giovane a lavare i piatti e a sbatterli sul piano di graniglia, velenosa. A parlare col muro di una figlia senza nome e adesso…
Alla bambina veniva voglia di sapere chi era mai quell’altra figlia senza nome, ché, lei, il suo, ce l’aveva eccome, con la luce dentro e forse anche le lucciole, e sapeva già scriverlo per terra, con il bastone di robinia dolce. Taceva, però, e ballava intorno alla tavola, in quella casa di donne e basta. Perché questo era da fare.

Poi una volta era arrivato ai Torelli suo papà e non era festa.
E’ morto, disse, ‘st’inverno ci si sposa, prima che nasca l’altro.

Quel giorno. Tutto pareva di silenzio lustro, nella casa dov’erano arrivate: le porte con la cornice intorno, gli specchi e le finestre alte.
La bambina non sapeva dove stare.
Sua mamma di là, a puntarsi la veletta, il cappotto poggiato sul divano: neanche una parola.
Suo papà nel bagno lì vicino, a infilare la camicia bianca, e la vecchia mai vista, con la giacca in mano.
La bambina scostò la porta del servizio e provò un sorriso, piccolino.
Va’ a prendere lo zucchero, di sopra, dentro l’armadio delle scale. Per il caffè dei testimoni… disse la voce nuova.
La bambina salì le scale più presto che poteva: c’era da farsi voler bene.
Lo zucchero stava nel vaso grosso: meglio prenderlo con tutte e due le mani, a costo di far senza ringhiera.

Le scale di marmo così bianco diventano burro, all’improvviso, o lacci traditori.
Lo zucchero per terra brillava in mezzo ai vetri.
Un luccichio a punte.
Alla bambina tornò, come un sapore agro, la storia bella dell’Armida.
La contava di sera, quando il sonno tardava e il vapore fermava sul muro la forma dei mattoni.
Storia di principessa e granellini, il dono delle fate. Da non sciupare mai, da tenere più cari della vita: gli azzurri per l’acqua, i gialli per il sole, i bianchi per il bene. I bianchi per il bene.

Si mise a piangere, forte, col singhiozzo.
Lacrime di zucchero e di malinconia, di granellini scappati per le scale. Bianchi.
Tutti pensarono si fosse fatta male.

Pensieri in fuga 17.

12 venerdì Ott 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

≈ 18 commenti

‘Spinello’ è una parola che mi fa venire in mente l’odore dell’olio 31.
E allora mi metto a ridere.
Perché mi riporta alla mia capacità di essere imbranata in qualsiasi situazione: basta prenderne una a caso e so darne una interpretazione estemporanea, ma adeguata.
Io non fumo: per una questione di imprinting.
Non fumo proprio nessuna cosa: l’odore delle sigarette mi dà fastidio, il fumo mi fa venire male agli occhi, mi chiude il naso e via scocciando. Però non disturbo chi fuma: gli chiedo solo di farlo in bagno, meglio se chiuso a strati nell’armadietto Billy, o sul terrazzo sotto un sole torrido o passeggiando davanti a casa nei giorni di gelo. Solo questo.

Bene. Questa è la premessa.

In uno dei miei primi anni di insegnamento (decisamente diverso tempo fa, quindi), capito in un Liceo di città, la stessa in cui mio padre, da pendolare come me, riveste una carica molto esposta.
Una sera di gennaio avanzato, la riunione a scuola finisce tardissimo: sessanta chilometri di nebbia fitta, e pure sul ghiaccio, spaventano anche i coyote. Da fare in macchina: impossibile. E non ci sono più treni.
Sono con un’amica cara, del mio paese, con me nella stessa scuola.
E con un altro gruppetto di prof. pendolari e stanche.
E con la nebbia a parete, cui si può appoggiare una bicicletta, senza farla cadere.
Telefonata a casa.
Mio padre mi fa: si dorme lì, pensione V., dove vado sempre io. Mi conoscono, vedrai che vi trovano ‘na stanza.
Si fa così: danno a me e alla mia amica la stanza di mio padre.
Alle altre due colleghe una contigua.
Si va a mangiare una pizza, si ride come si può ridere solo dopo un collegio docenti, quando la vita ha il sapore di un’evasione e tutto ti pare leggero leggero, anche se c’è la nebbia.
Si va in camera: pensioncina piccolina, stanze con muri di vetro: quella dei padroni sullo stesso piano.
Dopo cinque minuti dalla buonanotte collettiva, bussano alla porta della stanza: sono le altre due colleghe che ridono e ridono, entrando con fare furtivo.
Ci fumiamo uno spinello: dicono. In compagnia.
Spinello?
Mai visto da vicino, io.
Molta letteratura in proposito, avanzata e improntata ad un sano antiproibizionismo, ma nessun desiderio di presentazioni ravvicinate. Né contatti.
Sotto sotto, però, mi lavora per bene la vergogna di parere una di campagna e pure bacchettona, una di strapaese, mai stata in treno, mai vista una credenza.
Le due fumano.
Tranquillamente e odorosamente.
Non gliene può importare di meno se noi non si condivide.
Nella stanza c’è l’odore che immagino appartenere ad una fumeria d’oppio. È dolce e appiccicoso.
Naufrago nell’imbarazzo, che mica è legato alla fumatina in sé, ma a quella fumatina nella MIA stanza, che poi è la stanza di MIO padre, nella pensioncina di MIO padre, nella città di MIO padre, in cui MIO padre può fare una brutta figura.
Mio padre comincia a sembrarmi gigantesco.
Potrebbe uscire dall’armadio e dirmi… belle cose che fai in giro e io non mi stupirei. Anzi sarei felice se lo facesse subito, almeno mi tolgo il pensiero.
Mio padre comincia a sembrarmi un gigantesco aspirapolvere che può sentire l’odore spinelloso stando a casa sua.
A sessanta chilometri.
Ancora di più lo potrebbero sentire i proprietari della pensioncina.
Allora geniale intuizione: spalanco le finestre e mi metto, con l’amica che mi conosce a memoria e ha la mia stessa disinvoltura di marmo, al davanzale.
Come le sorelle Materassi.
E facciamo anche finta di avere caldo: pertanto ci facciamo vento.
La gente passa sotto le finestre e guarda in su un tantino perplessa: due ragazze alla finestra di un alberghetto che si sventagliano a mano aperta.
Realizziamo che forse non è un gran bel vedere.
Le due finiscono e se ne vanno, ridanciane e spensierate. Noi restiamo pensierose e col mal di testa, lì, a spolverare l’aria e a versare ovunque gocce di olio 31.
La stanza sembra la succursale di una caramella svizzera.
E noi ora ridiamo come cretine.
Uno spinello all’olio 31.
Altroché.

Pensieri in fuga 16.

03 mercoledì Ott 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

≈ 22 commenti

Mi si è scolorita la tastiera.
Mi sono morte lentamente la ‘n’, la ‘m’ e la ‘l’.

Questo getta ombre sinistre sulla mia scrittura (vagamente sbiancante: toglie colore? scioglie le lettere, specie quelle liquide, effetto candeggina?).
Vero è che la faccenda mette in cattiva luce anche le tastiere.
Ne parlavo per lettera a un amico, tempo fa: le tastiere, bisogna avere il coraggio di dirlo, hanno cattivo carattere.
Abituate a stare in basso (rispetto al monitor), secondo me coltivano complessi di inferiorità che le rendono vendicative.

Le tastiere più altezzose sono legnose e accompagnano il movimento delle mani con un ticchettìo lievemente tedesco. Ne escono scritture segaligne, che sembrano aver fatto le scuole in certi austeri collegi nordici.

Le tastiere più sensibili schizzano subito: silenziose e operose, sembrano pattini. Vuoi scrivere una ‘g’? In rapida successione fanno fitto sul monitor anche una ‘f’ e una ‘h’ . I tasti si muovono con la forza dei pensieri. Ne escono scritture ubertose, coi pampini e le foglie, docili alle idee.

Le tastiere più bugiarde, invece, hanno i tasti falsamente morbidi e retrattili, in realtà affondano solo per prendere la spinta sufficiente a creare un molleggio terribile, che assomiglia al beccheggio di certe imbarcazioni, portatore di mal di mare. Ne escono scritture vibratili ed emotive, dal sapore tremulo e ottocentesco.

Un caso a parte sono le tastiere come la mia: hanno dei momenti di auto-esaltazione che alternano ad altri di depressione.
Premi un tasto e quello si rigenera: batte le ciglia e scrive tre, quattro volte la stessa lettera, come se dicesse “visto che efficienza?”. Poi si sgonfia come una vescica e ti lascia intendere che è esaurito: si blocca perché si sente un tasto doloroso della tua vita. Lo premi a vuoto, lo senti chiuso nel suo incanto. Tasto autistico.
Tu gli sussurri… “dai, su … vero niente, nel tuo genere sei anche un bel tasto”: se si riprende c’è qualche speranza, altrimenti bisogna pensare ad una protesi…
Il risultato è comunque una scrittura diseguale: a volte un po’ ripetitiva, a volte muta come certe acque troppo quiete.

E ora?
Che scrittura uscirà dai tasti bianchi?
La pagina crepita a nuovi spazi d’indecisione

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