La bambina non sapeva.
Non sapeva se essere contenta o un poco triste.
Per essere tristi, il motivo, a ben vedere, c’era: la supplente, con la veletta nera in testa, era entrata in classe trafelata.
La mamma della vostra maestra non c’è più, poverina. Non aprite neanche le cartelle, si va in visita. L’ha detto il direttore.
Ma anche il bello stava proprio qui.
Niente quaderni, niente esercizi e neanche operazioni. Una mattina a gambe all’aria, con l’intervallo raddoppiato dall’uscita.
In giro, per l’aula, sguardi d’intesa dietro quel pensiero e facce d’occasione, un po’ contrite.
A serpeggiare era un senso di sollievo clandestino, quello che arriva quando ci si sveglia la mattina nel silenzio della neve alta: la scuola sprofonda a mille miglia di distanza, irraggiungibile nel freddo, così si torna a letto, fra le lenzuola calde che sanno di vacanza.
Lungo le scale e il corridoio, in testa la supplente, un corteo di formichine nere, fra ssssccchhh silenziatori e passi cadenzati. Forte la voglia di farsi sentire dalle classi escluse, nel privilegio di una passeggiata imprevista ed elettiva.
In realtà bastava attraversare la strada: la casa della maestra era a due spanne, con la finestra ad arco, il vetro un poco funerario, ruvido e increspato, come di carta pecora.
Più che una casa pareva una cappella.
La bambina, ferma nell’ingresso, insieme alle altre scolare intimidite, si guardò intorno: l’atrio era vuoto, pavimento di marmo così lustro da sembrare ghiaccio. Le porte laterali tutte chiuse e questo andava bene: si era venuti per la maestra viva, per consolarla del dolore, mica per altre cose.
A mettere soggezione era la luce: non arrivava dritta, faceva gioco col vetro smerigliato e si stampava, violetta, sui muri dell’ingresso. Lì imperava un grande crocifisso. Nell’aria, intanto, l’odore di un cesto di garofani con un nastro nero dava il raspo in gola.
Erano proprio i colori e i profumi della chiesa triste, quando il venerdì santo si andava in processione a fare la via crucis.
La supplente diede la voce e la maestra scese dalle scale, con gli occhi stanchi. Le abbracciò tutte, ad una ad una, disposte in fila indiana, in un mormorio un po’ chioccio, e tanti grazie grazieì in coda, sottovoce.
La bambina non sapeva.
Non sapeva se c’era da rispondere con slancio, magari mettere la mano sopra un braccio come una carezza, o almeno dire qualche cosa.
La Gabri, sì, aveva capito come fare: era la cocca e adesso singhiozzava sulla spalla maestra e tirava su col naso.
La bambina, quando giunse il suo turno, restò fissa impalata: neanche una lacrima arrivava, neanche una putina, una quasi goccia che si ferma fra le ciglia e resta lì, incerta se uscire o rientrare. Niente, eppure ci provava e pensava a suo nonno, che non c’era più, per farsi venire un poco di magone o almeno un’espressione addolorata.
La prima volta in un abbraccio non di casa sua, straniero. Non servì annusare la cipria di quella pelle aliena, così diversa dal volto di sua mamma.
Si ritrasse, con la paura di essere sgarbata, ma proprio in quel momento la porta più vicina si spalancò di scatto, come un occhio impaurito. Forse un colpo di vento, venuto a far l’intruso dalla finestra aperta.
La bambina non voleva fare la curiosa ma seguì l’aprirsi della porta con lo sguardo.
C’era la stessa luce livida, nella stanza, ma un raggio filtrò dall’impannata, un raggio di sole ottobrino che non accetta di spegnersi del tutto. Tagliò e illuminò, svelando.
La bambina vide non un letto, ma una tavola, lunga e scura.
Due piedi nudi e colore della liscivia spuntavano dal lenzuolo bianco e ben tirato.
Solo due piedi, e uno con un fazzoletto annodato alla caviglia.
Due piedi. O forse due zampe, come quelle dei colombi viaggiatori, che hanno gli artigli e lo spago, legato a trattenere un rotolino di parole dentro a una cartuccia.
E’ volato in cielo, dicevano a casa sua per annunciare che qualcuno si era spento.
E lei pensò che era così davvero.
Dopo, si diventa uccelli, pronti per il volo, forse con un messaggio da portare in alto.
Le Onoranze tardano a venire, si scusò la maestra, richiudendo la porta.