Non le dispiaceva in fondo quel lavoro, di morbida cadenza.
Fare e disfare, sull’orlo del mattino e della sera.
Come i disegni di polvere e colore.
Le scaglie del tempo su una lastra di legno, a galleggiare sopra i cavalletti: un’armata di perle scappate chissà da quale filo, di stampe rimaste senza muro, e poi tazzine con l’eco di altre luci. Sua Muffità di fogli e di velette.
Nelle retrovie, piattini scompagnati. A fare resistenza e geometria.

Questo banco sa di poesia, le disse l’uomo, con l’aria borgesiana di chi sa vedere oltre il buio.

La ragazza lo guardò senza parlare, la stanchezza tutta concentrata nel cadere diritto dei capelli. Già lo sapeva: i mercati sono della gente.
Le cose stanno lì per far da levatrici. Di parole e di sogni addormentati. Di ricordi e di piaceri coltivati.
Le cose tengono la brace sempre accesa dello sporgersi affamato sulla vita, quello che s’appiglia almeno a una rivista, agli auguri di una vecchia cartolina: mano d’inchiostro azzurro e innamorato. Da portare a casa, come una promessa. Ma l’uomo no, non la sentiva, la voce delle cose: forse parlava con un suo pensiero.

Anche lei sa di poesia, aggiunse con voce un po’ più bassa, preso di sé, dentro ad un suo giro. La luce, intanto, stava per finire, gli oggetti dovevano tornare, senza confusione, ben fasciati di carta e di cartone. La ragazza sentì di doversi un po’ scoprire. Almeno il fondo di un sorriso.

Allora le dirò cos’è l’amore, continuò l’uomo, quasi chiudendo gli occhi.

La ragazza si alzò: ci sono parole che vanno assecondate come pitepitele dentro il bosco, con gesti che dicano qualcosa, ma la vecchia le porse la teiera, cosa costa qui che è un po’ scheggiata…
Il tempo di volgere la testa e chiedere un attimo d’attesa, col cenno gentile della mano.
L’uomo non c’era più. Più. Solo la nebbia.