• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: marzo 2019

Lessico, vestiti & pinces

27 mercoledì Mar 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Uno degli indizi, che il lavoro eccessivo semina per casa, è la sparizione precoce del divano.
Dalla camera da letto.
Piccolo e gentile. Blu Cina.
Sparito, sotto gli indumenti. A strati, come le ere geologiche.
Per un residuo di pudore casalingo, oggi ho cominciato a rimettere il mondo negli armadi, soprattutto per rivedere il divano, di cui, dopo un po’, sento la nostalgia.
Piegato cose su cose.
E poi una rapida realizzazione: io non possiedo vestiti.
Possiedo calzoni gonne sciarpe maglie magliette sciarpe golfini camicie sciarpe gilé sciarpe giacconi giacchette sciarpe guanti cappotti sciarpe.
E scarpe.
Ma, d’inverno e pure d’estate, io non ho quelle cose che si chiamano comunemente “vestiti”.
Cose tutte d’un pezzo.
Intere.
Grave discontinuità col passato, quando frequentavo l’università della moda nella cucina di casa mia: donne e donne che si muovevano come api attorno alla zia, sarta ufficiale di paese.
Luogo in cui tutto, dalle maniche alla raglan al plissé, ruotava attorno al vestito.
Lì si parlava una lingua contaminata e irreale, in cui le parole venivano addomesticate e non sapevi più dove finiva il dialetto e cominciava il francese, fra uciaduri e tailleur, redingote e rissaduri accomunati nella stessa pronuncia.
Lì assistevo ai sacri misteri della messa in prova e comprendevo la differenza fra ciò che si vede e ciò che non si vede: fra il sotto (un labirinto di nodi e di rinforzi o di imbottiture bugiarde) e il sopra, levigato e perfetto…
Capivo la pazienza dell’ago e del filo, che già soffrono se lavorano sul pieno, ma letteralmente impazziscono se giocano col vuoto e fanno i funamboli per inventare un’asola.
Imparavo, soprattutto, quanta elasticità ha l’abito che trucca il corpo con quell’incredibile, strumento rettificatore, nonché ri-equilabratore universale, che si chiama “pince”…
Pince.
Pieghetta truffaldina che finge gonfiori, pienezze inesistenti o sottolinea quel che c’è, magari tentando di contenerne l’esuberanza.
Pince che si apre e si stringe, nasconde o fa sbocciare, accompagnando il respiro.
Pince, ovvero medicina magica che risolve ogni problema di tecnica e di armonia, ogni errore umano… “Qui facciamo una bella pince”, ho sentito ripetere mille volte come un apriti sesamo capace di rimettere a posto ogni cosa, ogni difetto umano o di natura.

Ecco, io non possiedo un vestito.
L’unica cosa che indosso, tutta intera, ogni giorno, per tutto il giorno, è la vita.
La scuoto un attimo, la mattina. La tolgo, la notte. La re-infilo, il giorno dopo.
E non ha neanche una pince. A sistemare le cose.
Cavolo.

:)

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Cronache dal terrazzo 8.

21 giovedì Mar 2019

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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C’era il sole, oggi, e un respiro di vento, il primo a suggerire semine e trapianti.
Ho interrato un bulbo di giacinto, piano, per non sciupare le radici sottili e molli: quasi una peluria.
Sono vitali i filamenti che chiedono la terra: hanno il colore del latte e dell’infanzia.
Piace metterli a dimora e pensare che si srotoleranno, al chiuso.
Sempre, piantare un bulbo è ricordare la storia dei tre luoghi, di Liscano:
quello della “luce che vola” e s’abbaglia nell’altezza delle cime;
quello del cielo buio, al fondo, cavo-pieno di vene e fenditure;
quello della “terra degli uomini”, verde di grano o capelvenere, pelle di confine.

Basta sbucciare la pelle per trovare l’altrove, succhiarne il soffio e aspirare alle cime.
Il bulbo comincia a camminare, ora…
Ciclici ritorni.

Pensieri in fuga 22.

11 lunedì Mar 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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La strada di mezzo costeggia il Tartaro, ora non grasso di rane né di lenticchie d’acqua, così ramarre nei giorni di sole.
E’ spirituale, il Tartaro, per via di certi aironi lividi alle sponde, perfetto aplomb in ogni stagione, indifferenti ora a nuvole moschine ora all’erba che ghiaccia.

Sembrano gigli di terra povera, gli aironi, esili di zampa e nobili di becchi pistillo.
A vederli spiegati, ti chiedi come tanta ampiezza, come tanta grazia possa restare incollata e silenziosa, quasi appuntata al corpo, prima del volo. Trattenuta dallo spillone del collo, ad arpa.
Movimento covato nel chiuso.
O inceppato.
Poi, questo venir fuori improvviso.
Aperti, gli aironi sono il volo largo. Modulazioni d’aria.
Il collo perde piano la curva dolce e si tende, come dietro a una musica.
Lenti aironi in lenti cieli, senza superbia.
Facile pensare a quante cose, a quante idee, ferme in terra, diventino vaporose e mobili, in alto.
Srotolate e libere, come il fumo.
In espansione.
Hanno bisogno di aria le cose idee, anche se è un’aria color carta da forno. Densa e insonnolita.
E pure, e pure… sai così doloroso il riplanare, tanto conosci la ferita del richiudersi che, dell’alto, conservi intatto il sogno non speso.
Resta imploso, il tuo volo: intalpato nel ripiegamento noto di ogni giorno, mentre a fanali accesi stai nella strada di mezzo, che non è terra e non è acqua e neppure cielo.
Fino al prossimo airone.

La bambina della mimosa

08 venerdì Mar 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Come sempre, in casa il sette marzo si avvertiva nell’apprensione delle donne. Sguardi impazienti agli orologi, la cena sbrigativa.
Alle venti e trenta, con l’ultima corriera della sera, arrivava un grosso involto, legato con lo spago e assiepato dentro un cannicciato un po’ scomposto.
La Iris andava in bicicletta a riceverlo e lo portava a casa in equilibrio incerto sul manubrio. Poggiato sul divano dell’ingresso, non si poteva aprire, solo guardare con curiosità, già pregustando il dopo.
La Dina sparecchiava in un baleno (il nonno avviato alla poltrona del salotto, Gigi già fuori a qualche riunione), una tovaglia incerata ben distesa e la tavola diventava un campo sgombro, da lavoro.
La Rosa intanto ripassava con uno straccio umido i cesti ad anfora intrecciati, quelli col manico curvo da infilare al braccio, lasciati a dormire giù in cantina fin dall’anno prima.
Ma ancora bisognava aspettare le ragazze, per officiare il rito: le amiche della mamma e della zia.

La bambina fece mille giri, dalla porta al cancello, per avvistarle alla svolta del viale.
Era la prima volta che restava alzata: il giorno dopo era domenica e anche lei sarebbe andata con sua mamma e con la zia.
C’era del batticuore in giro.
Le donne arrivarono, salutarono il nonno con rispetto e s’imbucarono dentro la cucina, svelte svelte.
Allora la Dina sciolse il pacco sulla tavola e ne uscì una luce gialla e un po’ ammaccata, come la lama del sole che s’infila nella stanza buia, quando d’estate socchiudi una finestra. Un raggio che formicola nel buio, al profumo di verde e di spezie limonate.
Luce piumosa.
C’era da risvegliarla, ora, la mimosa, dopo il suo lungo viaggio da Sanremo, rianimarla con mani leggere, aprirne i rametti e ripercorrerne le foglie seghettate e chiuse, aprendole fra l’indice e il pollice, per pettinarle bene. Scuoterla con delicatezza, per togliere ogni ammaccatura, poi dividerla e ricomporla in piccoli mazzetti, stretti da un nastro, ad arte. Per il giorno dopo.
La bambina non sapeva cosa fare, se non sbucare fra i gomiti delle donne in chiacchiere e lavoro. Sbirciare.
Guarda e impara, le aveva detto la sua nonna e lei cercava di capire la misura: un ramo proprio bello e due così così, per un criterio di giustizia universale, un fiocco, infine, a compensare gli ammanchi di bellezza.
Erano veloci le donne, non gli si stava dietro: meglio giocare con le buste di cellophane, allora, soffiare fra i due lembi, facendo imbuto con le mani a cerchio, fino a farne un palloncino quadro, passarsi i tralci scartati sulle guance, come lo spolverino della cipria, nella scatola della toeletta. Le piaceva raccogliere con cura i grani sparsi, per farne coralli di collana, in fila sul mobile bianco lì vicino.
Era tutta una cosa d’allegria.

A notte i cesti furono pronti, sfolgoranti per la distribuzione.
Le donne si divisero le strade.
La nonna la prese da una parte, prima di andare a letto.
Hai capito bene?, chiese alla bambina, che fece sì con la testa, ma la Dina mica si fidò. Si offre un fiore per dire ‘siamo donne’, senza aver vergogna. Tu sorridi e basta. Non restarci male se qualcuno non accetta. Voi tre andate anche dal prete, poi fate tutto il viale grande.
La mattina seguente le donne, a due a due, partirono coi cestini ad anfora, fioriti.
La bambina per mano a mamma e zia.

La villa chiara aveva il cancello alto di ferro, con le lance. E un giardino che già prometteva le bergenie, con la ghiaia rosa e le pietre in fila, a contorno delle aiuole di giaggioli.
La cagna, coricata sul primo gradino della scala, solo si scostò per lasciar passare la padrona, che arrivò al cancello, tutta profumata.
Che strano, non le fece entrare.
La Rosa porse un mazzolino di mimosa fra le sbarre robuste della cancellata.
È l’8 marzo, buona festa delle donne, disse sorridendo.
La signora aveva mani belle, con le unghie a mandorla, dipinte.
Se le mise in tasca.
Non posso, è roba rossa, troppo rossa, e la voce era bassa ma decisa.
Ma la mimosa è gialla!!!, disse la bambina.
La mamma le mise una mano sulla bocca.

Pensieri in fuga 21.

05 martedì Mar 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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Si era in giro, a mezzogiorno.
Sulla strada che va oltre il Po, vivaio di poiane arcigne al palo e di aironi piantati a bordo fosso.
Guardavo le case che muoiono d’inverno.
(La linea del tetto che si ammolla, quasi il tempo picchiasse sopra il collo. La trama che cede in crolli silenziosi. Caverne d’aria scoperte di mattina, senza testimoni)
Case vecchie e vuote, forse sorrette da geni solitari, come certi altarini campagnoli con l’ulivo scampato ad ogni fiato.
Tutte uguali.

Eppure, sui coppi che resistono nella corte lunga, un’apparizione.
Non macchie di umido fiorito, neppure muschi affumicati.
Un biancore a placche: discreto e palpitante. Spalmato sopra il tetto. A partire proprio dal crinale.
Colombi. Una colonia di colombi.
Gonfi e accartocciati.
A sorbire quel filo di sole inesistente, vendetta sulla nebbia del mattino.
A godere di quel tetto senza crolli.

Come certi pensieri del mattino, rotolati dal buio e dalle notti inquiete.
Cercano la luce, sul tetto della nostra parvente realtà.

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