• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: Maggio 2019

Pensieri in fuga 26.

24 venerdì Mag 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

≈ 10 commenti

Ho ritrovato un cartoccio di fotografie.
Non proprio un cartoccio: una vecchia busta maltrattata, gonfia di figurine.
Dono della Rosa miamamma, come in un passaggio di consegne.
Certe sono così piccole, coi bordi dentellati, da sembrare francobolli del passato.
Altre hanno i colori degli anni settanta, lucidi.
(Andava l’arancio, anche in foto, non solo nei disegni delle tende)
Sono di tempi diversi: lei, ragazza con le amiche, occhi neri e capelli dolci, mio padre, smilzo con la sigaretta accesa, lo zio, col cappello sulle ventitré e lo sguardo che fa innamorare. Io e mio fratello, bambini. Mio fratello, noto martellatore di statuine del presepe, con l’aria angelicata della prima comunione. E guanti bianchi, molto mistici. Io imbronciata. Sorrido un po’ solo nella foto dove sfoggio una vestina a quadretti bianchi e rossi, serpentino-munita. In stile derviscio, sembro in procinto di una piroetta. Mia cugina grande ha lo stesso vestito, ma in versione più adulta: cintura in vita e maniche moderatamente a sbuffo.
Alcune foto hanno quella muffa giallina che fa da collante fra l’una e l’altra: quale sacrificare se ci si attenta a staccare? Molte sono state ritoccate da scarabocchi infantili o ritagliate o ridotte. Anche un po’ strappate.

Le ho lasciate così, solo impilate a pacchetto e legate con l’elastico, che poi si mineralizzerà e si spezzerà, sfiduciato.
Le ho infilate fra il De bello gallico e Il fiume di pietra. Tanto fra un po’ le coordinate cambieranno o me le sarò dimenticate. Di nuovo.

Io e miamamma, così diverse fra noi, abbiamo sempre avuto in comune questa strana gestione delle foto. Niente album, niente contenitori di metallo ben sigillati, neppure una scatola per le scarpe. Molto spesso neppure le cornici.

In realtà nella mia famiglia estesa ci sono due scuole di pensiero: una invita all’ordine della raccolta.Tutta la storia di affetti e vite amorevolmente custodita, cartoncino dopo cartoncino, diapositiva dopo diapositiva, con le date chiare sulle cassette.
Io ammiro questa scuola, ma appartengo all’altra, quella delle foto finite dietro i mobili, infilate in mezzo ai libri o nei ricettari di cucina, oppure lasciate nelle tasche dei cappotti, dentro le borse che non si usano più, nei cassetti fra le chiavi e le penne che non funzionano, i biglietti della spesa mai buttati e le impegnative scadute per esami non effettuati.
Così, in libertà.
Ci penso, ogni tanto, a questo non saper/voler fare ordine.
E non so dare la colpa solo alla mia pigrizia.
C’è che vivo coi ricordi a porte aperte: in circolazione nella mia giornata e dentro le cose.
Mi piace che arrivino e mi prendano senza preavviso, per essere come i cronopios di Cortazar: “quando un ricordo passa di corsa gli fanno una carezza e gli dicono affettuosi: “Non farti male, sai”, e anche:”Sta’ attento, c’è uno scalino.”
Forse spero pure in un giro d’aria, in un po’ di corrente che scompigli i tempi e non faccia dire ‘prima’, ‘poi’ oppure ‘c’è già stato’.
Un respiro che tolga immobilità.

Sono immobili solo le conclusioni.

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In effetti quello fu…

15 mercoledì Mag 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 14 commenti

In effetti quello fu l’anno dei passamontagna gialli.
L’inverno di mio padre lontano.
In Sicilia.
Io grande a metà.
Mia madre grande a metà, più un pezzettino.
Mio fratello piccolo e basta.

Risucchiata dall’alto, la parte dormitorio di casa si era ripianata nelle stanze di sopra, così come doveva essere, mentre la tavola grande e i divani erano tornati a fare il soggiorno. Il falegname sembrava averli lustrati col fiato, sfregando la manica del grembiule.

Sopra, però, restava il freddo delle case in cui non si abita da un po’, con l’odore dell’umido, che va via solo a primavera, insieme alla naftalina sbriciolata.
Molto freddo.

Per questo, la sera, la Rosa miamamma fingeva il gioco delle partenze.
Si doveva comunque andare a letto e la rampa di scale diventava lo spartiacque fra la casa da giorno, tiepida e lucida ora, sempre con la stufa a lingua di cane, e la casa da notte, gelida di spifferi, calda solo sotto le coperte, dove la padellina con le braci, dentro a una nicchia di legno, scottava le lenzuola e le cuoceva di un odore di pane.
Mica si poteva rischiare la traversata delle scale al freddo.
No no.
E poi il bambino aveva una cera da schifo, pallido e con la tosse.

Allora miamamma metteva al bambino un passamontagna di lana gialla e, per vincere le sue resistenze, lo metteva pure lei.
Io no: meglio la morte. Meglio assiderata coi ghiaccioli. Meglio la brina sui capelli.
Il passamontagna mai.
Però mi divertivo, sadica, a vedere la coppia in partenza per i piani alti: brutti tutti e due, con quelle testine da uovo sodo.
Alla fine si rideva insieme, perché non si può stare seri se si calza un passamontagna giallo per andare a letto, e si finiva per cantare “La mooontanaaaaraaaaa ueeeeeeeeeee….” salendo le scale con gran rumore, tre bambini nella casa grande.

L’inverno mollò un attimo.
Fu allora che la fase creativa della Rosa miamamma conobbe una sola parola: cretonne.
Inquietante stoffetta fiorita.
Con la furia delle sue decisioni rapide, con l’istinto del tappezziere, la Rosa rivestì le testiere dei letti e ricoprì gli sgabelli e le poltrone, pure aggredì le ante degli armadi con certe tendine arricciate…niente imbottitura con le puntine a capocchia, no, quella richiedeva una precisione geometrica, estranea a casa mia: solo tendine arricciate.
Senza il mio aiuto, naturalmente, perché i giri del pomeriggio mi tenevano fuori casa, ormai, sospesa come un galleggiante di sughero in un’acqua nuova.
Lontana anni luce dalla fatica della Rosa, insofferente del bambino.
Io avevo i ragazzi da guardare e incantamenti da consumare, poi, da sola nella stanza bomboniera, dove mi imbucavo come una cartolina, appena potevo, a mettere ordine nei nomi e nei volti della giornata, a rivedere a moviola le scene belle, a cercare nelle poesie le parole che avrei voluto.
Dire e Ascoltare.
Adesso ero io, mica la Diana, ad essere accompagnata a casa con certi corteggiamenti di manubrio, magiche impennate sulla ruota davanti …e “domani cosa fai”,“ non verresti domenica al carnevale” e “in gita ti siedi con me…”.
C’era da essere sempre fuori.
In casa c’era solo da provare, davanti allo specchio del bagno, risposte e capelli.
La casa non aveva più muri sirena.
Meglio il giardino, se proprio proprio, dove si poteva chiacchierare fitto, sotto il pruno rosa, con le ragazze, e pure scrivere lettere collettive di risposta ai primi biglietti d’amore…. quando cominciare con “Caro Marco” faceva troppo banale, “Marco caro” troppo innamorato, alla Grand Hotel, “Marco tesoro” troppo peccaminoso…, meglio “Marco, ciao…”, sì, molto meglio…

Mio padre tornò e trovò la casa imbozzolata di cretonne, la Rosa miamamma con gli occhi fieri, il bambino cresciuto e, al mio posto, un tema dove parlavo di un’amica del cuore….
“Coi pantaloni” – disse mio padre, leggendolo.

E appoggiò al muro il ramo di mandarini che aveva portato per me, in treno, da Catania.

Volando

10 venerdì Mag 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 14 commenti

La torre ha grosse aquile arcigne, sulla facciata, ma ha la testa piena di piccioni.
Non quelli che si danno dell’aria, con le zampe a stivale di piuma, mosse a scatti nervosi.
Neanche quelli gozzuti e dondolanti, lunghi di collo a corolla, nella stagione degli amori.
I piccioni torraioli nemmeno ricordano la gentilezza di certe colombine bianche bianche che indugiano sui loro passi per guardarsi intorno. Son piccioni quasi di terra, loro, con colori d’autunno e di nebbia.
Le zampe storte.
Camminano come i vecchi: avessero le braccia, le terrebbero dietro la schiena; portassero un maglione, l’avrebbero col collo alto e ghignoso, che stringe e fa tirare la testa a tartaruga, per via del soffoco.

Ci stavano Volando e sua moglie, sulla torre, insieme con gli uccelli, amici e scorta per l’inverno.
Alto e sornione, lui: le mani in tasca e certi occhi chiari…
Piccola e tonda, lei: grembiule pronto ad ogni cosa.
Due piccioni, con carriola al traino: piccole fascine di Po, a bruciare su, in alto.

Nel giro dalla piazza al fiume, in fila indiana, uno davanti, la seconda dietro, in compagnia della ligéra, che è l’arte del vivere con poco, di un orto preso in prestito a stagione.

Sulla torre, più vicini al vento, lei riparava ombrelli, lui, con l’ago, passava filo in un chicco di granturco: collane di esche per piccioni, sui merli della torre.
Sapeva aspettare che il grano viaggiasse nello stomaco, per tirare piano: “Ci vuole occhio” – diceva. “E pasiensa”- aggiungeva lei.

D’inverno, con la stufa intubata verso una finestra, tagliavano la latta raccolta nell’estate, quella delle scatole grandi dei pomodori. Ne uscivano stelle e galline, mobili su bastoncini: girandole da vento, per chiamare la primavera.

E nessuno ricorda bene chi volò via per primo.

Pensieri in fuga 25.

03 venerdì Mag 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

≈ 11 commenti

A volte il tempo è una specie di bozzolo avvolgente: te lo senti addosso, con il suo ronzio, e ne indovini lo spessore di ovatta.
Non sembra scandito in giorni e ore, o in fili ordinati come le frange di un tappeto, che si possono contare così bene.
No, è una matassa che tiene insieme Il Tempo Perso, Ieri, Il Tempo Che C’E’ Da Qui A Là (beeello, quello: sembra lunghissimo), Il Tempo Che Ti Rubano Gli Altri, Oggi, Il Tempo Che Ti Rubi Tu, Il Tempo Per Restauri Alla Vita, Domani…

Nella matassa mica c’è separazione: il tempo è tutti i tempi e ciò non è male. Sta lì attorno come una nebulosa placida, come una grossa goccia o un mattone trasparente.

Il male c’è quando ti rincorre, quando le lancette sembrano mettersi d’accordo per diventare spadine, quando fa rumore e balla al passo di tachicardia, con quei suoi piedini ticchettanti.
Allora i minuti fanno la ronda, ad ogni giro d’ora si fanno sentire. Dalla mia cucina cantano con la voce del picchio, del cuculo, e pure dall’allocco, e di ora in ora mi pare che l’intervallo si abbrevi, che i minuti abbiano imparato a procedere a coppie. Vardali lì: persino a piramide, gli esibizionisti, sulla bicicletta. Passati in trentacinque…

Ecco, io sono in questa fase: coi minuti che mi fanno lo sberleffo mentre passano e le spadine e i piedini ticchettanti. Tutto quanto.
Insomma, la mia pigrizia sta subendo un durissimo colpo.
Sogno il bozzolo, la matassa, spero che i minuti cadano dalla bicicletta e che inciampino.

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