• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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Paglierine

27 giovedì Giu 2019

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Se l’era portata a casa, a mo’ di preda.
Forse da Viterbo: una gran fiera.
(Certe scorribande per vendere e comprare. Vitelli, soprattutto)
A risalire, un viaggio lungo e storto. Con il treno.
E la paura che patisse aria o sete. Il braccio torno torno, cedevole al ritmo di sbattuta.

La guardava, esile e sguarnita, e già sapeva i frutti, odor di erba tagliata: melette paglierine, del verde agro del fieno, quando ha perso ogni prepotenza.
Le aveva viste al margine di un prato, piccole da sembrare nane.
Mele d’estate, non d’autunno.
Ne aveva assaggiata una: aspra da schiuma in bocca, ma anche delicata, con lo zucchero che spunta. In fondo in fondo.
E aveva pensato alla mietitura: lavorare, sudare, poi tirarsi sotto un’ombra e sentire il fresco di una mela.

Interrò la pianta alla Contotta, ai bordi dell’aia, per infittire il brolo.
Un poco ti somiglia, disse alla sposa, perché era un uomo che aveva poesia, ma la Mabilia se ne restò zitta e arrovescia, aveva altre piantine per la testa: tener dietro alla casa, al pollaio, alle chiacchiere delle donne nella corte.

Ci fu da aspettare un paio d’anni: arrivarono i fiori un po’ rosati. Diversi frutti legarono per bene.

L’uomo guardava il verde e il picciòlo che teneva, tastava la polpa appena appena: voleva capire il tempo delle cose, trovare un segno che le legasse al resto e aggiustasse il cuore per l’attesa.
Alla calendra dei giorni di gennaio chiedeva pioggia e sole, fino a luglio.
Alla merla il passo della stagione nuova.
Col viburno aperto e bianco sentiva il maggio, prima delle rose.
Cosa avrebbero detto le mele paglierine, le mele di san giovanni?
C’era da aspettare, per vederle cambiare sotto gli occhi.

Non sono da staccare, disse a tutti, per essere ben chiaro. Han da restare lì, finché non son mature. C’è ancora tutto da capire.

Ma qualcosa andò per conto suo.
I frutti parevano malati.
Rosicchiature, ad arte. Fini fini.
Da un lato solo delle mele, quello nascosto, che dava contro il muro.
Vespe di terra? Insetti forestieri?
Non c’erano tracce che dicessero qualcosa.

Poi vide e fu come sciogliersi nel sole del primo pomeriggio.
La bimba piccolina trascinava un mattone sotto il melo, ci saliva e, in punta di piedi, tenendo un frutto con le mani, lo grattava a denti e morsichini.
Appesa senza peso.
Ad una mela.
Non sono da staccare, sorrise al padre.

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Cine

21 venerdì Giu 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Si andava il martedì, al Verdi: doppia visione.
Prima, o un drammone d’amore o un filmino alla dorisday, roba di sentimenti, insomma, e, poi, al secondo turno, l’azione: o un film di guerra o un western o un mitologico pieno di sansoni.

Si andava, comparto femminile di casa, sdegnosamente assente il nonno: amava solo ernest borgnine o e.g.robinson (perché avevano la faccia da bulldog) e se ne restava in salotto col bambino piccolo: con noi l’unica compagnia maschile del Bigio, il gatto grigio, che prendeva la scorciatoia della ferrovia, quella della stazione porto, e ci aspettava davanti al cinema.

Il Verdi era un teatrone senza gloria e senza bellezza, senza boria e senza finezza.

D’estate si sfiatava nell’estivo, sul retro: un giardino con le sedie ballerine piantate davanti al muro bianco. Il proiettore, disposto nel camerino delle gazzose, fra le mastelle piene di ghiaccio, lo animava di vita propria, con figure incrinate da rughe di crepe.
Le parole svaporavano, facendo il giro del giardino, passavano per le bocche dei portoghesi, affacciati alle finestre delle case intorno, e ritornavano sulla platea, che non stava mai zitta di suo.

A settembre il Verdi ritornava in casa.

A noi piaceva andare al cinema nelle prime sere fresche, quando si usciva col golfino, e si entrava nel tepore del teatro, senza preoccupazioni sulla durata: tanto le scuole mica erano cominciate e la Diana aveva già dato i suoi esami. Pure quelli senza gloria e senza bellezza, senza infamia e senza lode, predicava mianonna, che usava i “senza” per spiegare ogni cosa, in un mondo raccontato per continue sottrazioni.

Mianonna camminava lenta, sottobraccio alle nuore, a cui non pareva vero di uscire la sera.
Dietro, io e la Diana.
La Diana tutta garrula, perché sicuramente avrebbe visto i suoi belli, qualche fila più sotto. Io con la sensazione che qualcosa doveva pure accadere.

“E tu ce li hai i morosi?” – mi chiedeva piano, miacugina.
Certo che li avevo, solo non avevo ancora capito che “moroso” è una parola reciproca e non richiede solo un’andata, ma anche il ritorno.
Piena di morosi a una sola andata, ero.
Alla Diana, niente, non dicevo proprio niente. Però ridevo, perché era più semplice ridere, in quel tratto breve fra la casa e il Verdi, coi pensieri già al cine doppio, alla gente, alla disposizione dei posti, ai beni di conforto.

Sì, perché non si dà cine senza beni di conforto.

All’ingresso del cine stavano i due baluardi dei beni di conforto, a cui si riservavano le monete della settimana: uno piccolo e uno grande, uno chiacchierone l’altro muto, uno compagno l’altro democristiano, uno a sinistra del Verdi l’altro a destra, uno venditore di brustoline secche e d’un sapore di legno bruciato e l’altro venditore di ceci lessi, tristemente pallidi, spesso freddini e un poco umido-collosi in superficie.

Per motivi politico-gustativi si optava per le brustoline, con qualche ripensamento, qualche vacillamento di fede, quando le si trovava così salate, ma così salate: piccoli semi di zucca incrostati di cristalli, tiepidi tiepidi, che – e fu scoperta poco digeribile – covavano sempre al caldo, nell’ultimo sportellino in basso della cucina economica, in cartocci di carta da giornale, assieme alle pantofole.

Con le tasche piene di brustoline, ogni film, col sottofondo di un sommesso crocchiare anti-chiacchiera, diventava bellissimo, anche se il cinemascope usciva dallo schermo e si imprimeva su mattoni larghi.

Era bello vedere i baci, sbiecando di sottecchi miamamma per sapere se mi osservava mentre li guardavo, era bello ascoltare le parole d’amore, mentre le donne di casa tiravano su col naso, era bello sentire il calore della sala che pareva una carezza col sospiro.

Si usciva un po’ intorpidite, strette, così ci si faceva tepore, a chiacchierare fitto di nomi storpiati e costellati di “et vist…”

La Diana era muta, persa in chissà quali sogni.

Il Bigio andava avanti e indietro, a intrappolarsi fra le gambe.

Io mi passavo un dito sulle labbra….Un bacio avrebbe fatto quell’effetto lì?
Forse, chissà, sotto la luna.

La birichina del duce

16 domenica Giu 2019

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Di lei si ricordano le mani: due copie di pane, coi tagli nei bordi.
E la faccia scivolata in basso: di bello neanche gli occhi o la pelle, scura nel naso e attorno alla bocca.
E la parlata, svelta svelta.
E la fretta.
Sempre andare, sempre fare, anche se non c’era famiglia da accudire, né pentola da mettere sul fuoco: solo chiacchiere e gerani, da scambiare.
In giro, bicicletta e un brio scattante nel collo, anche vecchia, quasi in risposta a un’interna fanfara.
Perché, lei, ragazza, era stata benemerita massaia rurale.
La più benemerita.
Con l’attestato.
E nell’adunata in città, quando aspettava e sperava, sfilando e cantando davanti a Benito, con orgoglio aveva teso le braccia e mostrato il grembiule e le spighe e le spillette di merito.
A lui, al duce.
E quello, preso da tanto giovanile e campestre ardore, l’aveva carezzata sulla testa.
“Birichiiina…”, le aveva ripetuto, due volte due, accostandosi vicino vicino, benevolo e un poco marpione.

Mille volte la storia fu raccontata e mille volte la distanza fra l’augusto labbro e il trepido orecchio fu accorciata.
Tanto tintinnò quel birichiiina che il nome della donna andò smarrito: nell’erba di qualche cavedagna, in qualche spiffero di madia, in qualche pietra di mulino.
E col nome si perse anche la vita.
Non ci furono nozze né mani d’uomo, nel sogno di un niente mai accaduto.
La benemerita massaia rurale rimase per tutti, sempre e soltanto, la birichina del duce.

Ché le formule acchiappano le cose per metterle in gabbia.
O in croce.

Cronachette all’improvviso 5.

14 venerdì Giu 2019

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C’è una gigantesca giraffa azzurra, e chiara chiara chiara, dietro le sagome delle case.
La vedo attraverso la finestra che ne inquadra solo il collo.
Certo che non la vedo intera!
Ma si sa che i presentimenti valgono tanto quanto le visioni, quindi so con assoluta certezza che trattasi di giraffa.
Azzurra e chiara chiara chiara.
Perché tanta sicurezza?
Ma perché ne vedo le chiazze!
Irregolari.
Irregolari e rosa come i fiocchi che annunciano la nascita delle bambine.
Un rosa pallido e dolce, da confetto che quasi pare candito
Ecco: questo è il cielo di stasera.
Giraffuto.

La Maria mistica

12 mercoledì Giu 2019

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La Maria mistica si riconosceva da lontano: sbucava dalla piazza della torre e andava verso il viale, da certe cugine centenarie.
Soprabito grigio che pareva taffetas, se c’era fresco e se c’era caldo.
Colletto largo col bottone grosso.
Camminava, poi si fermava a interne tappe, in risposta ad un fiato pellegrino.
Aveva tante parole in arretrato: a pubblico sparito, se le contava lei da sola; per spiegarsi bene, interrompeva il passo, all’ombra di robinie al suo servizio.
Fermava i capelli con la fascia a nodo: meno di un turbante, più d’un cerchio d’osso.
E, da attrice, li teneva lunghi al collo, aperti e spampanati, vecchie chiome gialline che, persa la memoria di ricci e permanenti, s’erano fatte stoppa.

Con sé aveva sempre la bibbia, con la croce incisa.
Dentro la borsa a rete: quella giusta per le cipolle, che prendon aria e poi non gettano.
Dentro la sporta di bottega, vicino al libretto per i debiti del mese.
Dentro la busta di pelle, tenuta sotto il braccio, buona per la messa, ché non è d’ostacolo al bastone e prende poco posto.

– L’è la me Banca, la bibbia,– amava dire, mostrando il libro, con la croce e tutto, ai sospettati di dimenticanza – la Banca del… (col dito puntato ad ammiccare al cielo, dubbi non c’eran più: banca di angeli in coro, banca beata di celesti, fra rose e nuvole santissime)
Perché lei, la Maria mistica, era donna di miracoli: sentiva la mano buona sulla testa, la carezza di tutti i santi proprio lì.
signur signur signur, era giusto sapere…
C’erano stati i ladri, ladri zingari – lei giurava e spergiurava- zingari, perché niente d’argento, che porta dolore, niente di perle, che son tutte lacrime, avevano portato via.
signur signur signur, era giusto sapere…
Nella casa rovesciata, dove l’oro già se n’era andato per patria ed altro, i ladri zingari avevano cercato e ricercato solo il denaro: nei cassetti con la lingua fuori, nelle tasche dei vestiti, nelle pentole della cucina…
ma, signur signur signur, mica avevano aperto la bibbia.
Eh, la bibbia.
Ché i soldi eran tutti tutti lì: ripiegati in ordine stirato, tanti bei fogli da dieci, larghi e rosa.
Quel che c’era: per la bottega da pagare, per la legna da bruciare, per le tombe da pulire, per il calzare e il vestire…
Miracolo celeste e generoso.

Ma al paradiso non si bussa due volte.
Allora, in qualche luogo segreto la scorta dei biglietti salvi.
E la bibbia con la croce, lo Scudo Universale…come la si poteva mai lasciare?
Insieme, sempre insieme.
Giorno dopo giorno.

Persino in cabina elettorale.
Scudo e croce guidavano la mano, oh, se guidavano la mano…

Luartis

08 sabato Giu 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Si cercano i luartis, germogli di luppolo, che tengono in fondo in fondo, prima di salutare, un sapore di asparago, con l’in più del selvatico.
Cambiano di nome, di terra in terra, come il Gurdulù del cavaliere inesistente. E forse anche per questo sono inafferrabili, spostati sempre un po’ più in là, nella pagina bianca, dove il ciglio dell’argine è già vuoto e diventa solo aria e cespuglio. Chiedono pericolo e graffi sulle braccia.
Amici dei rovi, abitano fra le spine delle more: il luppolo sta bene lì, coi suoi viticchi arricciolati e le sue foglie a cuore triplo.
Lì.
Lì sta bene anche la casa della Possioncella.
Vi si arriva con indolente calma sulla scia dei germogli da spuntare.
E la cerchi, nel fianco dell’argine, piccola e chiara. La casa dell’esattore in bicicletta, che entrava gentile e si fermava a parlare di reumi, caffè in mano.
Sull’argine c’è un verde che solo l’erba nuova può.
E il verde continua, dove sai la casa, ma non la trovi più: coperta, presa, stretta, dentro le braccia di rami e rampicanti.
Non abitata, la Possioncella ha chiamato edere e madresilvia e viti americane e gramigna e zucche selvatiche.
Rotto il patto con gli uomini, dorme sotto una lanugine di foglie, ora.
Non bisogna svegliarla.
Non ci appartiene più.

Ha un suo modo, la natura, di riprendersi le cose e farle proprie.
L’erba non vuole passi verso.
Ti aspetti che si apra una finestra, all’improvviso, ed esca, robusto e proprietario, un fascio di pervinca.

Ci si allontana, con i luartis a mazzetto: hanno teste serpentine di lucertola. A guardarli bene, penzolano irritati.

Cronache dal terrazzo 11.

02 domenica Giu 2019

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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I terrazzi fra muri non danno per scontati i prestiti di sole.
Si accendono anche di cieli incerti, belli di attesa, ma, quando la luce arriva e si apre come una pesca, allora è festa. I terrazzi fra muri la fermano, la stampano sulle pietre e ne accudiscono il tepore.
Torni pure il grigio, torni pure il freddo: la luce in conserva sarà cristallo, nel tempo.

I terrazzi fra muri si affezionano alle cose.
Tengono i segni, per tanto tempo: macchia d’umido o zampine di cyssus, non importa.
Lo sa l’edera, che ha radici nell’aria e tenta, sarmentosa, un’improbabile fuga.

I terrazzi fra muri abbracciano la pigrizia di certi risvegli d’estate, la domenica, quando il tempo fa come il lumino: resta lì, impaludato nella cera sciolta, a girare su se stesso.

I terrazzi fra muri accolgono colazioni e passaggi: pensieri spalmati col burro, sul pane, risatine quiete e assaggi d’uva fragola e melagrana.

I terrazzi fra muri s’incantano delle voci e dei ricordi: li nascondono fra le fessure.
Chi parte si accorge che dovrà tornare, per riprenderseli.
Non sta bene lasciare parole e memorie in giro, come corallini scappati dal filo.

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