• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: settembre 2019

Cronache dal terrazzo 13.

30 lunedì Set 2019

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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Il terrazzo di ottobre è il terrazzo dei ricordi.
Non ci posso fare niente.
E’ così.
E’ così e basta: ha raccolto le dolcezze di primavere ed estati, come fa il mare, per poi restituirle, nei giorni delle assenze.
Fa compagnia, il terrazzo: racconta di contemplazioni sotto voce, di corse mattutine in vestaglia, per controllare un boccio, la meraviglia della prima rosa, un battito di mani per stornare una tortora noiosa.
Sul terrazzo d’ottobre, che non ha tronfi se non di color ruggine (qualche guizzo fucsia di una Guinea recidiva), io torno alla memoria come a un paese usato, fascina di forme e nomi che si sollevano, solo a muoverla piano.
Torno alla memoria come alla vigna del padre, che conserva i grani più dolci, senza furori, solo per una carezza alle persone che si era: sogno di un fiume che non censisce le sue acque, ma le tiene a raccolta.
Nel sogno della compresenza.

 

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Che poi

25 mercoledì Set 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Che poi era facile fare confusione.
Vederlo in chiesa, prendere l’ostia dalle mani del prete, mangiarla a testa bassa e con la schiena dritta. In piedi, non al banco di mezzo, ma a destra, vicino alla madonna col serpente, il manto celeste e le stelle. A pregare l’agnello di dio che toglie i peccati del mondo, con la sua voce senza latino.
E riconoscerlo, nel corteo del primo maggio, passi pesanti, scarpe da terra dei braccianti.
Trovarlo vicino alla bandiera, nelle adunate sulla banca di Po, con la rabbia ferma nelle braccia. (Tante biciclette, poggiate ai pioppi, e gente dappertutto, fin sull’argine, come in un parlamento contadino traversato dall’aria di boschina)
Sempre il primo a fare sciopero e picchetto, a chiedere giustizia e verità: l’imponibile, almeno, per mangiare anche d’inverno. Quelle giornate promesse e filate via col fumo, lavoro che i padroni si ostinavano a negare

Facile fare confusione, a vederlo mezzo prete e mezzo rosso.
E sempre con misura.
A modo suo.
Da solo in chiesa, mai un’offerta.
Di parole scarse coi compagni, che si chiedevano il perché di tanto incenso, di questa conversione all’improvviso.
Ma era un uomo giusto e c’era da tacere. Aveva anche lui da lavorare.
La moglie e un figlio, fatto tardi.
Un figlio piccolino, con un nido di ricci per i merli e quella faccia lustra di sapone.
Piccolino e s’ammalava spesso.
Se lo portava a scuola, le mattine di pioggia. Se lo asciugava bene, se lo sedeva sopra il banco: gli toglieva le scarpe e le calze. Gli dava un bacio sulla pianta nuda. Il bambino non voleva, perché aveva anche vergogna, ma poi rideva per il solletico: in un attimo aveva calze asciutte e pantofole di panno, uscite dalle tasche di quel padre chioccia.
E poi l’uomo andava in chiesa, se era inverno.
A dire grazie.
Per il fatto di avere il suo bambino.
E la scuola lì vicino.
E un paio di calze di ricambio e un paio di pantofole di panno.
Per il suo bambino.
Che, tutto ben lisciato, senza freddo nei ricci e coi piedi al caldo, avrebbe amato la scuola, i libri, la pioggia, la terra, le strade e l’universo mondo, ‘ancor non nominato’.

L’uomo della legna

17 martedì Set 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Il cappotto era sempre troppo corto di manica, con le maglie pronte a uscire e a battere sul polso.
E la sfiancatura sempre troppo in su, a segnare il punto della vita vicino alle ascelle.

Era un uomo molto alto.
Un uomo di fumo lungo, da camino.
Camminava e parlava da solo, come per un dialogo, cominciato da lontano, a pezzi e a bocconi.
Si fermava, nei momenti di tante parole, ripetute ripetute a scatti nervosi.
E teneva la testa con le mani, allora, sfregandola forte, quasi a maltrattarla.
Cambia il tempo, dicevano i vecchi, che alla pazzia, qui, guardano quieti, come a cosa che sta dentro la vita, non maligna: solo una grinza dei pensieri.
Il paese sa e contiene.

L’uomo molto alto non aveva la grazia del poeta che saluta con le rime e cammina come l’ultimo dei tarocchi, occhi per aria, incurante dei morsi.
Non aveva neppure l’aria  severa dell’altro, in bicicletta: quello impietrito sull’argine, a contare i morti invisibili, che scendono stanchi, stagione dopo stagione, lungo il Po.

L’uomo molto alto solo aggiustava la legna.
E girava l’autunno a tenere d’occhio i cortili, a cercare cataste da sistemare nei rustici.
Chiedeva questo lavoro con tante parole, ripetute ripetute a scatti nervosi.

Torri di legno verde e sottile.
Fascine di salice, con l’odore di Po, disposte con la grazia di nidi selvatici.
Rocche basse, di legna forte e asciugata.
Opus intextum di rara eleganza.

L’uomo molto alto lavorava fitto per ore e tornava a vedere nei giorni le creature di legna, pronto a sgridare le donne arruffone e a puntellare le sue geometrie.

Dalla vedova in carne lasciò un castello di legna, coi pezzi a lisca di pesce, come ciottoli fini.
Tornava spesso, perché un bicchiere di vino ogni tanto che male può fare.
Bussava ed entrava.
E ringraziava con tante parole, ripetute ripetute a scatti nervosi.

Ma un giorno la porta non si aprì.
L’uomo molto alto aspettò.
Aspettò anche il giorno dopo e altri ancora.

La legna fu tutta in strada, un mattino: come spazzata via dal rustico durante la notte, da un vento cattivo.

Pensieri in fuga 29.

06 venerdì Set 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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E’ una sera liquida.
Gronda umidità.
Non si fa goccia né forma, quest’acqua diffusa.
La vedi obliqua e spezzata, nell’aria, senza compiersi.
Picchia sulla spalla, come un avvertimento, poi si dilata e si sfibra, a mezza quota.
Svapora e si perde.
Misteri che accadono in quella terra di nessuno, troppo bassa per gli uccelli, troppo alta per i fiori, indifferente agli uomini, che nulla fanno all’altezza del petto se non ascoltare il cuore.
Resta l’asfalto umido, fra bordi irregolari e opachi.
Un lucore immotivato, neppure richiesto da questo buio senza luna.

E’ così che la vita raddoppia.
Specchiata.
Uomini fanti su una carta da gioco.
Fari che sgocciolano.
Due versi, due capi, una stessa svolta.
La riga, che separa la cosa e il suo doppio, trema e vacilla.

A quale mondo apparterranno mai i pensieri?

Armando e Nerone

03 martedì Set 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Bastava un’imposta da fermare o uno sfiato d’aria da implorare al sonno, per aprire una finestra e vederli camminare: Armando e Nerone, presi in eterni conversari e impennate di pause teatrali. Nel buio che si lascia attraversare da brevi fenditure d’arancione: la brace di una sigaretta, un fiammifero di luce repentina…

Cosa avessero da andare e riandare, parlando tutta notte, restò uno dei misteri della Bassa.
Su e giù per i sentieri a pettine dell’argine, fino alla golena.
Su e giù per la via grande e per la piazza, per poi finire al cospetto dei Due Mori, quando pure gli ultimi nottambuli chiudevano giornata: le biciclette incerte, nel pensiero del vino di domani.

Allora le voci dei due amici picchiavano nell’oscurità come le campane.

A ben sentire, la voce era una sola, tale quale il tocco che diceva l’ora.
Alta e massiccia, sempre sopra il palco, a cercare la luce del lampione e il sì sì di Nerone, unico pubblico e unico applauso.

Anche una biscia sarebbe uscita rotta a costeggiare il lungo discorso dell’Armando, che prendeva nel suo giro ogni muro, ogni siepe, ogni biolca di terra del paese.
Qui c’è bisogno di una strada vera, diceva al suo compagno, una strada che si faccia corta e larga, per arrivare svelta. C’è da tagliare giù per la campagna, stringere la corte, quella a squadra, e poi andare dritti, oltre il loghino…
Le braccia si aprivano nel gesto per spiegare meglio il suo pensiero.
Le  mani disegnavano le mappe, carte notturne di transiti nuovi, per passi di sogno e di leone.

C’è che le idee nascevano al mattino, nel caseificio o nella porcilaia, ma solo la notte si scioglievano in parole, che l’Armando allargava, tirava per la giacca e portava dove voleva lui.
In città, soprattutto.
Perché quella era la meta della strada: la città coricata di pianura, morbida e lenta. Coi negozi di pantaloni bianchi e panama con la tesa larga, i tavolini messi sulla piazza, col vermouth fermo nei bicchieri: discorsi e quiete chiacchierate sotto i portici con la pietra vecchia, fra i mediatori di tutta la provincia.

Ma ogni città sarebbe andata bene, coi suoi odori di macchina e petrolio…
La città era fedele morgana di ogni giorno, il senso del pane e del lavoro.
Di notte sembrava più vicina: come un amore da cercare e vivere dal nome.

Le donne coi nomi di città son sempre le più belle, e le censiva, con l’aiuto di Nerone, sotto il fico fiorone dell’Ernesto: la Roma, l’Ancona, la Ginevra, la Parisina…

Forse pensando alla sua Zara, chiara come una piazza sotto il sole, l’Armando salutava il suo compagno con un A n’in parlarem, che galleggiava in aria, promessa di altro tempo, parlato e vagabondo: inarcatura lasciata alle parole.
Un po’ come la frutta raccolta verso sera, acconto e speranza della conserva buona.
Quella di un giorno che ha proprio da venire, fedele a questo pegno.

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