I freddi non sono tutti uguali.
Ad andare in bicicletta si riconoscono bene, nelle gambe nude.
C’è quello del mattino di settembre che formicola nell’aria: cerca la pelle, per il gusto di sentirla fresca, ma basta il riparo di una strada a imbuto fra le case. Si stempera ed è ancora sole.
Poi ad ottobre c’è quello frizzantino che conosce le rotte del vento: batte insinuante a media altezza, giusto per infilarsi nelle maniche. Prende in giro i bottoni (che non difendono) e li umilia. Si ferma sulla schiena, come una placca d’argento. O una mano d’acqua di Po.
Ma quando sale dal basso, a novembre, e sembra un fiato di terra e di buio, allora il freddo punge gli occhi e porta li putini, lacrime bambine, amiche di magoni (mai risolti in pianto) e raffreddori, trucioli di lucciconi che non scendono, non scorrono, ma si arricciano ai bordi. Vetrini frantumati a orlare gli occhi.

Oggi è tempo di putini. Lo si aspettava, doveroso.
In casa, con un cielo tisico prostrato nelle pozzanghere, saluto il freddo con un bottiglione di mosto: uva americana, preparato a settembre e tenuto a parte per le occasioni grandi.

E’ bello il mosto rosso: è l’anima calda dell’uva. Ora c’è da decidere…
Accoglierà la farina e lo zucchero per cuocere piano? Sarà dunque un sugolo di breve vita, dolce scacciamali, scacciapensieri, scacciadolori solo per stasera?
O si innamorerà del fuoco, resterà ore a stringersi nel rame per essere saba che aspetta la neve, vincotto che sa di secco e di umido, di radice e di corteccia, giulebbe capace di perdurare?

Chi vuol esser lieto sia.
Il sugolo scotterà, oggi, nelle ciotole blu.