• Pesci di nebbia

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~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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I racconti di Grazia

03 martedì Mag 2016

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I racconti di Grazia Giordani (Pelle di ramarro, Il Cerchio) sono brevi lampi letterari che della letteratura conoscono a fondo la lezione: il valore della parola accuratamente scelta, il ritmo che non indugia, il dosaggio misurato e controllato delle situazioni e dei dialoghi, la seduzione degli incipit.
Sono racconti capaci di suggerire atmosfere, in una sinestesia continua fra elementi visivi e uditivi, per cui le voci, in Dissolvenza, sono luminose, “brillano nel buio” secondo fasci di diversa intensità, per poi disfarsi in opalescenze, fino a diventare ‘interiori’, in diretta comunicazione con il sentire.
C’è una tale corrispondenza fra il dentro e il fuori dei personaggi che basta all’autrice intagliarne con pochi tratti carattere e fisicità per farli continuare a vivere nei pensieri di chi legge.
A questo scopo la scrittrice ne consente addirittura brevi fuoriuscite surreali, perché abbiano vita al di fuori dei romanzi, da lei precedentemente scritti, ed entrino nei suoi racconti. E’ quanto succede a Ginevra, protagonista del romanzo Signora a una piazza, che rivendica una libertà d’azione fuori dai confini del libro in cui è nata per animare anche uno dei racconti più imprevedibili, Frenesia.
Basta questo esempio per capire che i racconti di Grazia non sono mai la cronaca che ripercorre semplicemente un accaduto, non hanno l’azione al centro della trama, ma, di volta in volta, racchiudono un gioco di wit, un guizzo di ingegno creativo, di invenzione letteraria che spiazza il lettore con una svolta improvvisa della narrazione: a volte è un paradosso (come un amore che resta nelle chiose ai margini di una pagina, o come una seduzione affidata ad una fotografia o a una voce), a volte è l’intreccio  metafisico dei sentimenti, metafisico proprio perché va oltre i limiti della realtà, ne intacca la solidità, e lascia intravvedere una dimensione che si alimenta di ricordi, di relazioni postume e di affinità elettive.
A volte è un incontro, predestinato o casuale, sempre un colpo d’ala del destino che  non diviene banalmente motore di una felicità, ma di un rovesciamento, di un cambiamento che segna: una tangenza che non necessariamente si prolunga in storia, ma in cui qualcosa di entrambi i soggetti resta reciprocamente impresso nell’altro, in forma ora di nostalgia, ora di rimorso, ora di inquietudine irrisolta.
L’incontro non è soltanto un motivo ricorrente: è la sintesi, tradotta in elemento tematico, di un modo di leggere il flusso delle cose; ci dice quanto la vita sia uno sfiorarsi casuale di esistenze, dentro a un caleidoscopio di combinazioni  continuamente in movimento.
I racconti di Grazia accolgono con eleganza questa imperscrutabile oscillazione e  la traducono in possibilità.
Per questo, spesso, le storie narrate valicano i limiti di una conclusione ed hanno bisogno di dilatarsi in finali diversi, in cui l’autrice riprende o continua il racconto, in armonia con la complessità della vita.
A segnalare quanto, in essa, tutto possa svolgersi in più modi, alterni e divergenti, seguendo le strade dell’ amore e  del disamore, della realtà e del sogno, dell’essenza e dell’apparenza, della fine e dell’inizio.

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Per Gezim Hajdari

26 sabato Mar 2016

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Dovessi scegliere una sola parola per dire cosa significhi per me la poesia di Gezim Hajdari, albanese della Darsìa, esule in Italia dal 1992 per aver denunciato i crimini e la corruzione sia del regime di Hoxha sia della fase post-comunista, non avrei dubbi: sceglierei besa.
Besa in albanese significa parola, in senso etico ed epico: è parola data, e dunque parola d’onore, è impegno e patto di vita, è marca dell’essere uomo, ovvero segnale di virtus.
E besa nell’opera di Gezim è anche la poesia, che ne conserva e esalta tutta la gamma di valori.

E se Poesia è besa, come tale richiede una dedizione assoluta e pretende dall’uomo e dal poeta la prova più difficile: quella della congruenza, che è qualcosa in più della coerenza.
La coerenza è la continuità del senso, è la tenuta di un filo logico, pensiero o comportamento che sia, la congruenza invece è l’allineamento/corrispondenza di tutti i livelli dell’io: il pensare, il sentire, il credere, il fare, il dire… Vuol dire “camminare sulle (proprie) parole” e quindi confermare con i fatti quello che si pensa, si sente, si crede e si dice, senza scollamenti e sfasature.
E’ talmente forte la congruenza di Gezim che la sua parola poetica non è solo detta o scritta, ma è agìta e capace di far agire, è l’incarnazione della majakovskiana agit-azione, vissuta in totale compenetrazione con la vita: è assunzione di una responsabilità civile e morale.
Per questo la Poesia diventa, di volta in volta, urlo, grido, eresia, denuncia degli orrori della storia, ora preghiera tutta laica, ora bestemmia o ingiuria contro i responsabili delle ingiustizie, voce altisonante e potente delle ragioni cui si affida la vita, eppure canto sussurrato, d’amore e di nostalgia.

Quando la Poesia si fa besa carica le spalle del poeta di un’ulteriore responsabilità: quella di essere manifestamente pubblico.
Espone perché non si può nascondere, la Poesia, né è capace di nascondere, quando è autentica, e allora la conseguenza può diventare invivibilità della propria patria, esilio, “errante e indifeso”.

Esilio è parola chiave della vita e della poesia di Gezim, che prima è esule, dentro la sua nazione perché si oppone al regime che la governa, e poi è esule, al di fuori delle sue montagne, delle sue capre, dei suoi siliquastri.
Esilio significa strappo, distacco da una patria amata e odiata con la stessa potenza, perché madre e matrigna, Medea che “impietosamente divora i propri figli”, e, a sua volta, insanguinata e abbattuta.
Esilio significa approdo in terra straniera, lontananza fisica e vicinanza di pensiero, solitudine e sentimenti di estraneità.

Pare di poter dire che l’esilio produca in Gezim due movimenti interiori: da un lato la nostalgia che è pieno possesso della vita passata, nostalgia coniugata con i verbi del ricordare, del rammentare e del rivivere, con tutta la struggente malinconia che nasce dal desiderio di una ricongiunzione impossibile, dall’altro un bisogno di totalità che porta ad un’inarcatura ulteriore del viaggio, alla ricerca delle analogie, delle somiglianze, dei rimandi da un tempo all’altro, da un luogo all’altro, per nuove donazioni di senso.
Questo mi pare rappresenti l’ultima, potentissima raccolta di Gezim, Delta del tuo fiume, che nasce dai viaggi ed è a sua volta un viaggio dentro un tempo senza confini, dentro uno spazio senza frontiere, per vivere e sentire nel corpo e nel cuore l’Africa, il Congo, la Tanzania, il Mali, il Niger, il Marocco, il Sud Est asiatico: un viaggio ubriaco di mondi.
Si tratta di un itinerario reale e simbolico, insieme, che porta al riconoscimento continuo dell’io nell’altro, del dolore dell’io nel dolore dell’altro, perché chi soffre ha lo stesso volto e le stesse stigmate. (E come non ricordare Saba, allora …).
L’io si stempera in ogni incontro ed ogni incontro assorbe, come un sacco vuoto, sciogliendo memoria, identità, corpi e limiti, temi e semi di altre raccolte e di altri raccolti.
Il delta diventa il correlativo liquido di questa condizione: come nel fiume si confondono le acque degli affluenti, come nel mare si confondono le acque dei fiumi, così nel delta si annullano i confini e le separazioni.
E la Poesia, quest’area area dai contorni mobili, si fa delta capace di accogliere la mescolanza e celebrare la potenza dell’incontro, con l’uomo, la donna, la natura, i colori, l’io: perché è l’incontro che ci cambia e ci dona o presta qualcosa.

Cieca la notte sulle mura di Arusha,
ci avvolge col buio come una pelle di cane,
chiude i sentieri di luce per tornare verso la patria.

Ci siamo arresi alle sue frecce d’amore
senza lanciare né pietre, né gocce di veleno.

Dalla savana ci separa la linea sottile delle grida,
dal Kenya la cima innevata del Kilimangiaro
come la verità di un sogno incanutito
catturato dalla memoria dei baobab.

Parliamo dell’Africa ubriacati dal suo nero,
non lontano dalle piantagioni di caffè
e dalle mandrie di masai dimezzate dai felini.

Sull’altitudine delle sue labbra,
oro e sangue la notte di Arusha.

(Gezim Hajdari, Delta del tuo fiume, Ed. Ensemble, Roma 2015)

Di Elia

27 lunedì Ott 2014

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Ho ricevuto un dono, un testo inedito di Elia Malagò, un piccolo poema in cinque respiri: del disamore.

Dis è un prefisso potente, capace di orientare il senso. Coniugato con il sostantivo amore, costruisce un sentimento di ritorno, che naviga sotto vento, sotto traccia, fra una “rotta parola” e un “ronzio di silenzio“, direbbe Cesare Pavese. E’ un sentimento che si scopre all’improvviso: incrina la quieta superficie del non vedere, del non ascoltare, del non dire, quando ha già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate.

Elia, del sostantivo, conserva il segreto e, dal prefisso, trae la suggestione non di uno stato ma di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione.

Non dà definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, ne ripercorre, invece, la vena sotterranea: traduce in immagini l’invisibile, la sua “ragione equivoca e livorosa”, ne scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco.

Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non lascia niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.

del disamore

 I

lo scopri per ultimo e per caso

il disamore

sotto una lastra sottile di foglie
un poco macere d’acqua di riporto
o una grandinata di mezza estate
su uno sgrondo non curato

s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi
– forse metteranno manti di tigre o
magari faranno nido
in un brusìo –

al riparo svolterà il solito autunno

Lì covano fiele e arsura
il pianto raggelato e
nel fondo
deposita silenzioso
il formicaio del rancore

II

il disamore  è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo
smotta e cumula insonora
la cova
dissigilla segreti e sfarina
pulviscolo senza impronte

Poi un giorno di luce né forte né piana
un giorno di questi
bassi su meridiano polso e mediastino
un giorno ordinario che scorre sul binario
e dietro risucchia l’orma di conserva

un giorno che fa somma e non si dispiace

quel giorno lì

spalanca le fauci rapido mostra

III

Cova come tutto il resto

cova figlia e s’invola
foss’anche in cabina guardaroba a sventolo
sulle stagioni e il disordine che tanto

cchessarrammai

doppiare consonanti
abbassare le vocali

spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta

a manetta
la manetta della scarpa che morbida calza
-vedi se conta la marca – sfrega il tappeto
e tornisce duro il valgo nell’impronta

IV

e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco
un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi
ci sono e lo sai
perché gli occhi anche spinano

la vita va in pezzi piano piano come una cataratta
che si riprende le fughe del pavimento

lentamente le hai perse
fino a non cercarle più

intermittenze senza sussulto

V

tra l’una e l’altra vago il fruscìo

quello che sfonda l’uscio forse più liberato
le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta

nessun rendiconto
chè nessuno l’ha tenuto

il disamore è ragione equivoca e livorosa
trova un incaglio e depone
come il vapore sui fossi all’alba d’agosto
il deposito dell’ invisibile

come quando hai il nome nella mente
ma la linea che scorre sotto le palpebre
circumnaviga il viso ombra le labbra

e lì sul luminare lascia leggera
la striatura
della lumachella notturna
che insegue l’aura di una goccia
di sete

(Elia Malagò)

Succede questo

30 sabato Nov 2013

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ZenaRoncada-MarginiSuccede questo: i miei racconti hanno trovato ospitalità in una casa di carta e sono diventati un piccolo libro.

Lucia Saetta mi ha aiutato a sceglierli e li ha messi in ordine in stanze appropriate, con premura amorevole.

Le edizioni Pentagora hanno offerto lo spazio necessario, con l’attenzione della comprensione e la cura del bello.

Grazia Giordani li accompagnerà nella loro prima ‘uscita’ e lo farà, con il garbo e la precisione che già conosciamo, a Sermide, domenica 15 dicembre, alle ore 16, a Palazzo Castellani, nell’ambito dell’Università Aperta del nostro paese.

Ecco, volevo dirvelo, perché questa è l’altra mia casa di aria e di voci, viva grazie a voi, da tanto tempo, ormai.
Ah, il libro si  intitola ‘Margini’, storie di donne e di uomini senza storia.
Un abbraccio (e un arrivederci a Sermide, magari)

zena

Elia Malagò e il suo Orto dei Semplici

15 martedì Gen 2013

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Le parole che Elia Malagò manomette e rimette al mondo (per  scioglierle dall’opacità e restituirle all’innocenza) mi ricordano la terra quando viene rivoltata e assume, allora, il colore stupito della non usura: si espone, umida nel segno sagomato dalla lama, con la sfumatura azzurra che i metalli sottraggono al fuoco.
Liberare le parole (rendendole così esatte e calibrate, smussate o urticate, da non avere un sinonimo) è l’arte di ‘rivoltare le zolle’. E’ la capacità di scavare con onestà, fino a trovare le radici della essenzialità e gli umori del sentire.
Fare della poesia lo spazio per cercare l’esattezza del dirsi è, a sua volta, il frutto di un rigore che spiega una vita intera.
Entrambe le direzioni generano, in chi legge, la responsabilità di non disperdere il senso messo in circolo dai versi. Forse per questo convivo da un paio d’anni con la raccolta Incauta solitudine, senza trovare il coraggio di accompagnarla con la (mia) scrittura.

Adesso però piace uscire allo scoperto.
Per colpa di una suggestione e di un trattino.

La suggestione sta nel titolo della raccolta nuova che Elia ci consegna: L’Orto dei semplici.
L’ orto dei semplici sa di coltura e di antichi rimedi, essenziali nella loro unicità naturale, non manipolati né intrecciati né doppi. Sa di spazi vegetali conclusi e protetti, di un ‘dentro’ sottratto al consumo del ‘fuori’ e del suo tempo. Sa di cataloghi d’erbe e piante (gli hortuli) pazientemente composti all’ombra dei chiostri.
L’orto dei semplici sa di attenzione e cura, quella che lenisce e allevia.
Accostato alla poesia, fa transitare sottile queste sfumature di senso, e disegna visivamente rettangoli, cerchi e spicchi (o porte, cicli e aiuole), sui bordi dei quali disseminare i titoli dei tredici componimenti che articolano la raccolta.
Ed è il trattino l’anima di ogni titolo, un trattino che prende per mano e relaziona, moltiplica le direzioni perché, a figure e situazioni, luoghi e sentimenti,  ‘gemella’ una presenza vegetale:  timo, verbena, achillea, malva, parietaria,   rosmarino,  azulene, rovo, salvia, ortica, menta, borragine, sambuco.
Come se ogni evento o stato della vita potesse contare su un ponte, su un’inarcatura verso un correlativo vegetale, capace  di riversare all’indietro il suo potenziale immaginario e di aprire ad altri risvolti, ad altre attese, in un allacciamento che suggerisce collegamenti senza stringere né costringere, senza fingere meccaniche identità, ma solo indicando i tanti percorsi paralleli che la vita consente e la poesia realizza.

Qui sta uno dei tanti modi in cui si esplica l’intelligenza poetica: l’annodare.

Perché la poesia non si serve delle sue figure soltanto come cifra espressiva, ma come strumento di conoscenza che, pur partendo dall’esistente, lo intacca, lo traspone, lo fa germinare. Anche in un arbusto.
Forse non è un caso, allora, che i versi de L’Orto dei semplici utilizzino il terreno dell’analogia e affidino la possibilità dell’annodare al ripetersi costante dei paragoni (“come un’amazzone senza lancia e cavallo”, “come un sospiro a metà/ di una calura che senza vocali/ronza”, “come un sanguinaccio d’acqua di riporto e condensa”, “come un segreto sepolto e giurato”, “come un sussulto all’alba”, “come una canna ti pieghi”,…), che nei loro vicinati inattesi aprono l’orizzonte referenziale della poesia e moltiplicano la presenza del reale e del possibile, in forma di suono e di odore, di colore e di ombra.
A sorreggere questo slargarsi del senso (e dei sensi) è la scelta ulteriore di utilizzare un altro potente ponte grammaticale : il “tra”, che, agganciando significazioni binarie, a volte diventa marca spaziale, a volte indicatore modale, indeciso e fluttuante fra referenti.

Il  viaggio della poesia (“tra mattane e silenzi”, “tra zolle da piccone”, “tra una pietra/ e chissà che altro mattonaccio”, “tra il poco e/ il niente”, “tra mentastro/ e mazzi di ortiche”, “tra la betulla incarognita nell’incuria e i due pini”, “tra testa e tendini lunghi e striati”, “tra gengive e parola”, “tra carrubi incarcerati nel silenzio”, “tra i denti”, “tra anse di corrente”, “tra ghigni e pedaggi”)  si fa metaforicamente tutt’uno col viaggio di erbe, arbusti e piante, col  profondare delle radici nel terreno, nei cocci, negli interstizi, alla ricerca del giusto che serve a “bastarsi”.

Il “bastarsi” è il dono dell’orto e la sua legge di sopravvivenza: lo sanno le vecchie ragazze di campagna, così come sanno che  la semplicità necessaria si apprende nel mezzo delle cose, “sotto”, “dentro”, “in”, cercando quote di profondità e di appartenenza alla terra, ma anche la relazione, il legame che accompagna, magari sull’orlo rassicurante di un’amicale “tazzina di caffè”.

Carte amicali – sambuco

un po’ frustra e fuori commercio
come  una noce sotto i denti a sfida
di una vecchiaia incipriata

e poi chissà dov’è e dove andremo a stanarla
prima che si infili sotto il colletto cementando abitudini e tartaro

Questi fogli forati mi costringono a righe numerate
un pentagramma o la pista di oche esercitate a rapidi
rientri
se solo dimentico la chiave di violino

eppure resta la voglia di uscire allo scoperto
affacciarmi sul bordo
in vertigine: ma dove sei che mi pare di toccarti
l’orlo della manica
un poco lisa come le nostre bordate
tra battute e arresti pudichi

e  l’amicizia è proprio lì
tutta lì sull’orlo
della tazzina di caffè

(Elia Malagò, L’orto dei Semplici, Fascicolo editato nel 2012 dall’Associazione Culturale “La Luna”)

Appunti per Vicolo del Precipizio, di Remo Bassini

08 martedì Gen 2013

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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Remo Bassini è un narratore di storie, ma quando lo leggo mi vengono sempre in mente le parole del poeta Mario Luzi, che si rivolge alla sua poesia con un invito/imperativo categorico “Tu cantami qualcosa pari alla vita”.
Secondo me in un’osteria di Cortona, dove parcheggiano vecchi che ancora hanno occhi e chiacchiere taglienti, o in un bar di Vercelli, nebbioso e pieno di voci, Remo Bassini deve avere inoltrato una richiesta del genere, alla sua musa un po’ selvatica. Forse non le ha detto ‘cantami’, molto più probabilmente le detto ‘contami’, ma il contratto è riuscito, perché nei libri di Bassini, in tutti i libri di Bassini, c’è la ‘pienezza’ della vita, una pienezza conquistata con l’esercizio della vita stessa, con la fedeltà alla propria storia personale. Questa probabilmente era la clausola del contratto. Rispettata anche in Vicolo del Precipizio.

E’ un romanzo a molti ingressi, Vicolo del Precipizio: entrarvi significa conoscere un personaggio complesso, che stringe con i luoghi un rapporto intenso, fino a farli diventare interlocutori della propria vita. E’ Tiziano, quarantacinquenne, single e con amori pregressi e irrisolti, scrittore interrotto, che dopo un esordio felice, si trasferisce da Cortona a Torino, e lì non trova più la motivazione/condizione necessaria per continuare in proprio. Diventa il donatore di anima e parole ai libri degli altri, si fa sarto a pagamento dei racconti altrui, quello che, in gergo editoriale, si definisce ghostwriter. E presta le ‘sue’ storie agli altri. Non per generosità, ma perché le storie, spesso, non hanno né padri né madri, come i proverbi e le frottole, ma girano per strada e possono essere di tutti.
C’è un momento, però (nell’aggancio ad un fatto di cronaca legato a un personaggio del suo paese natale) che riattiva  la sua voglia di scrivere e di chiarire le sue zone d’ombra, di sciogliere i grumi di vita fossile che non è riuscito a stemperare nel quotidiano. Continua a leggere →

Bastardo posto

05 sabato Feb 2011

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti, effetti di lettura

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Remo Bassini

E’ per una vecchia passione che ho cercato ‘bastardo’ sul dizionario etimologico: sono convinta che a sbucciare le parole escano i semi, i sensi delle storie o, almeno, le direzioni per ripercorrerle.

Fra le tante accezioni, ho rubato una suggestione forte: ‘guasto’.

Forse è questo il termine  per ripensare alcuni possibili significati suggeriti dalla lettura dell’ultima opera di Remo Bassini, Bastardo posto: un libro intenso, che non abbandona, un libro dove, in forma di romanzo scuro, si racconta, appunto, il lento guastarsi della vita, l’inquinarsi delle sue ragioni e dei suoi modi, l’ammalarsi di ogni gesto quotidiano, pubblico e privato.
Lo spazio assorbe questo tralignare, ne resta permeato: effetto o causa, non è possibile dire.
Totale coincidenza, questo sì.
Bastardo posto, dunque.

E allora bisogna pensare alla provincia e alla sua notte, ai portici che corteggiano negozi chiusi, bar e vetrine opache, bisogna pensare a un manichino convitato di pietra, cui si prestano parole mute, all’umidità nebbiosa delle città del nord, quella che intacca ogni cosa, anche i pensieri: si gonfia, come un’ossessione, o s’insinua, come una vena di malinconia capace di diventare una crepa, anzi una ragnatela di crepe.
E bisogna collocare dentro questa provincia e dentro la sua notte una geografia umana che la vita sembra incaricarsi di abbassare, con lima di grana grossa, in una degenerazione progressiva: per i personaggi il dolore si trasforma in assillo che toglie la possibilità di sopravvivere, il ricordo in veleno corrosivo, il dubbio in tarlo, l’amore in un tormento chiuso nella gelosia. La frustrazione dei desideri diventa vizio e allora il potere si fa ricatto e arroganza, il silenzio connivenza, la coscienza rimorso, il segreto sospetto e ridda sotterranea di voci, mai aperte, mai chiare, sullo sfondo di una memoria pubblica che insabbia e frena.

E’ nel flusso di questi passaggi che l’esistenza mostra tutta la sua disarmata fragilità: non è cedevolezza, capacità di modellarsi ai colpi interni o esterni delle cose, ma è destino di frantumazione, sulla scia di quelle crepe che, metaforicamente, sono l’irradiazione del racconto in segmenti secchi di storie, tante quante sono le forme dell’umana vulnerabilità.

Il sasso lanciato ad incrinare il vetro è la morte di una donna, Marina Castori: una ferita, figlia del dolore, che riapre vecchie cicatrici, scoperchia dubbi irrisolti, crea connessioni nella trasversalità del male, a toccare quanto di scabroso e di disperato può incancrenirsi sotto i perbenismi di facciata.
Ed è una ferita che, soprattutto, artiglia l’anima del protagonista, Paolo Limara, in un corto circuito dell’esistenza precedente.
Sui suoi passi, il lettore entra in un presente d’angoscia, riassunto nelle parole-goccia ‘ora’ e ‘adesso’, che martellano insistenti le prime quaranta pagine del libro e ci immettono in una fenditura di tempo senza futuro, in cui il passato arriva a dosi intermittenti: una fenditura lunga cinque notti.

Remo Bassini, Bastardo posto, PERDISA POP 

L’argine dei silenzi

14 venerdì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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Edoardo Penoncini, José Saramago

(Edoardo Penoncini, L’argine dei silenzi, Este Edition 2010)

Se i titoli contengono già l’orma di un percorso, una suggestione sotto traccia che  può accompagnare e orientare la lettura, la raccolta poetica L’argine dei silenzi sa indicare una doppia direzione: con questa scelta Edoardo Penoncini ci suggerisce sia la scheggia (o delicata metonimia) di un paesaggio preciso sia la cifra vocale della sua poesia, a siglare una ricerca e una opzione espressiva.

L’argine è figurazione mediana: non è della natura, non è della città.
Da un lato c’è il fiume,bandiera, scia filante, / due palmipedi incolori, anatranti, ci sono le rive; dall’altro, in lontananza, ci  sono i palazzi strani / figuri  che si raccontano a spicchi / tra le vetrate: l’acqua e il cotto, i vapori e i marmi, il vegetale e l’umano, due diverse dimensioni accarezzate dalla stessa nebbia e dagli stessi pensieri.

Per questo suo porsi come diaframma metaforico, l’argine diventa un margine, una linea di confine che consente di non appartenere compiutamente ai due mondi, pur permettendo di costeggiare entrambi, di guardarli, sentirli e ripensarli nella distanza della poesia.
E’ un luogo dell’anima, dunque, in cui il tempo si può ripercorrere nei due sensi del presente e del passato,  nel loro incrociarsi e prestarsi presenze: qui si può stare nell’attesa del nuovo e dei ritorni.
E’ un elemento della geografia interiore, dentro il quale, nella dislocazione temporale, si ricuce un dialogo d’amore che parte da lontano e attraversa sotterraneamente la vita come i fiumi carsici, per affiorare solo a brevi tratti: una vena d’amore spesso sognato, risorsa incompiuta, annidata nelle pieghe e nei risvolti dei giorni che schizzano veloci e delle notti graffiate dai lampioni.

Correlativo soggettivo della solitudine, l’argine incrocia la serie semantica dei silenzi, ne diventa l’arca.
E’ una frequenza costante, quella del silenzio, fra le parole di questa raccolta: appartiene all’olmo rifogliante, al fiume, al cielo pervinca, alle fioche luci.
Dice di un’assenza, di desideri taciuti, di pudore, di  segreti e di indulgenza: non conosce né lamento né invettiva.
E’ sospensione, il silenzio, non negazione.
Per questo, nei testi di Penoncini, è vivo e abitato, non è un vuoto a rendere per essere colmato.
E’ un agglomerato di non detto, di sguardi, di vissuti parziali, di tangenze e figure in differita:ripercorre  mille ricordi e rivoli di miele.

La rarefazione di suoni e rumori trova un tacito amico nelle parole di José Saramago: Il silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la tacita melodia sotto la luce solare. (1)

Il silenzio si configura, infatti, come il grembo che cova la poesia, il laboratorio delle parole che da esso affiorano a “bassa voce” per giungere in verità, in essenzialità.

Mai abusate, anzi dosate, centellinate, quando riescono a fuggire dall’inespresso sanno arrivare senza bugia: … è vero l’amore detto.
Sono preziose, perché cercate in fondali ignorati, in pagine letterarie che non vivono il tempo come abiura, preziose perché ricondotte al loro valore profondo, a significati desueti (sguancio, spiombo…).

Ne risulta una poesia che nasce nel segno della scelta e della selezione, che restringe il suo ambito, senza concessioni alle mode, in cambio della ricerca della intensità:

Ho dato poco voce
fuor del mio orto
e anche quando imperversava
il fuoco alto
scelti erano i volti a cui mi volgevo
forse solo così
sopravvivo ai richiami insulsi
di quel che si spande intorno.

In questa volontaria contrazione/concentrazione, le parole trovano la loro intimità con i pensieri: di essi si alimentano, sullo sfondo del silenzio, da essi traggono la loro capacità di “trasvolare”, di annodare immagini in rapidi, funambolici vicinati.

Ne è esempio questa poesia ‘imaginale’

I pensieri sono svelti miracoli,
capaci a tutto, rapaci, voraci,
duri, malleabili, volubili
pirati, sempre di fretta, furtivi,
luminosi, vagabondi, iracondi,
ladri, ipocondriaci ubriaconi …

I pensieri, macine tritatutto,
sono strani, fornaci fumiganti
che rubano al mare acqua sabbia e rocce,
contorsionisti da facile pubblico,
illusionisti, maghi sopraffini,
fate Morgan/Melusine, sirene …

D’improvviso si manifestano cupi,
gai appaiono come una magia,
stella cadente, filante nel cielo,
mutano lievi lievi in forme semplici:
parole d’incanto, sanno donarsi
freschi al suono di un bisillabo: ti amo.

(1) J. Saramago, Di questo mondo e degli altri, Einaudi, Torino 2007

Mele rosse

29 giovedì Gen 2009

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Se ad una raccolta di versi si affida un grano di poetica, una domanda, un modo di avvertirsi e di vedere, una prova di voce e di parola, credo che MELE ROSSE sia un contenitore denso di sensi, di rotte e di suoni, battello prezioso che approda ai Feaci in un passaggio dalla carta (Kepos edizioni, Roma 2004) al web.

Sulla soglia del titolo, Luigi Manzi (poeta che da sempre interpella la funzione vitale della scrittura, “il più bravo fra noi”, dice Elia Malagò, alludendo ai giovani di Quinta Generazione), invita alla sua poesia sul filo di una suggestione cromatica e corposa, quasi a rincorrere dei frutti rotolanti, scivolati dalle pagine di una delle sue prime opere:
Una donna solitaria sale sopra l’erta / col suo cesto di mele in cima al capo. (da Malusanza, Una strana luce)
Sono mele-versi che, nelle interne sezioni della raccolta, scendono da Colline e Alture, forse da Astri; conoscono i Fuorivia, fra l’Afa e il Salto, fra pause e scarti, fra guizzi e ombre, prima di giungere In vista del mare.
E non si tratta di un viaggio di superficie.
La poesia, fedele alla fibra/ erratica del cuore, è un andare a sentire e a toccare, un lasciarsi calare nelle cose, che diventano stazioni di sosta e di osservazione:
Percorro la linea, mi fermo / in ciascun nodo, finchè trovo / lo spiraglio.
E’ un sondare tutte le direzioni, tutte le intermittenze del buio e della luce (Scrivo del sereno e del notturno), cogliendole dall’esterno e ascoltandole dall’interno, sulla muriccia dell’io profondo:
…Ascolto dal centro / e, lungo il sentiero, punto dopo punto, / discendo facile e leggero.

In questo percorso, la poesia guadagna un’aderenza etica alla vita e ne diviene intelligenza: capace di intus-legere e di inter-legere, ne è conoscenza affidata a sensi lunghi e ne è coscienza, mai esonerata dalla ricerca.

Si fa poesia che accoglie le domande e che ha la forza vitale di formulare, anche solo  per montaliane categorie negative, risposte, schegge di verità a ‘bassissima definizione’:
Dunque tu dammi una ragione / per restare sopra questa / terra lunare di massi / e di tufi, calva ovunque. / Forse mi conforta l’ombra / disseccata che getto: /  non sono nebbia né nuvola.
Si tratta di brevi rivelazioni che sono le cose a liberare,  al buio  o  quando/sono meno illuminate.
Sono spesso lampi, balzi argentini di lepre, che deformano la percezione del reale o danno sgomento, come quando, sul nero precipizio /restiamo per un attimo sospesi, / scampati alla furia.
O come quando, ancora, dalla sommità di un ponte che si apre, l’incauto guarda verso il basso sospeso al suo istante. E, in questo sguardo incerto e inquieto, diviene la figurazione metaforica di chi, solo per poco,/ tocca nel fondo/ la verità che emerge.
Sono contatti di conoscenza che sovvertono la logica successione degli eventi: capovolgono e lasciano capovolti, sospingono sul terreno e nello sguardo della donnola persa e sbigottita nel blu dei fari.
Consentono il salto da una dimensione all’altra: la corsa a perdifiato / dal chiuso all’infinito, sollecitata, nell’acquario del dormiveglia, da un fruscio di stoffa, da una porta appena disfiorata.
Sono attimi: quelli del destarsi in un tempo estraneo o dell’assistere all’eclissi, momenti in cui, con un soffio brevissimo, un tempo primordiale/ versa il buio nelle ossa e mineralizza l’osservatore.

Piace pensare che questi lampi (o ‘crepure’ o momentanee disgiunzioni dell’assetto formale del reale) siano il regalo di una poesia capace di artigliare la schiena  / irremovibile del mondo.
L’artiglio non lascia solo traccia o segno: penetra e cava sangue, interrompe, apre e scompone.
Se il mondo è irremovibile nell’ordine intrinseco e necessario delle cose (poiché ogni cosa ha un luogo proprio, / un trono), la poesia ne incide profondamente la configurazione: lo restituisce mosso e brulicante di figure e di gesti, di colori e di presenze, reali e simboliche, come a disaggregare, nella apparente compattezza di un tessuto, la singolarità delle fibre e dei movimenti che lo producono.
Ogni aspetto (umano o animale, vegetale o atmosferico), ogni età si accende, pulsa e fiorisce, nella brevità di linee d’azione che operano fianco a fianco, nel lavoro e nelle anse del paesaggio: e così, se gli operai dilavano marmi, / piantano aste per lampade nuove, / si muovono come funamboli, il sauro trotta, facendo sobbalzare le limpide sfere dei meloni, le donne  si affacciano, i ragazzi corrono e si tuffano e sguazzano nell’acqua, le tortore gorgogliano, le lepri cercano la fuga, la lucertola squama e un ginepro si scuoia, mentre una voce offre / pesche sanguinose e albicocche.

Verrebbe voglia di censire queste presenze, catalogarle in  bestiari e in verdi erbari, in elenchi di gesti, di sfumature e di sonorità.
Sembrano tutte scie centrifughe, ma in realtà riconducono ad uno sguardo che coglie e accompagna, quello di un io poeta  (di carne sui bordi/e dentro vegetale) che, dislocato in punti diversi dello spazio, osserva, disegna, col dito intinto nel cielo, annusa, assapora e dalla confidenza con la natura ricava la lezione del tempo (dal fiore vorrò conoscere il futuro) e del declino : benedetto è il declivio/ dove la forza degrada più lenta / e con grazia. / Tale è la legge scritta nel cuore/ di ciascun fiore e frutto.

La restituzione è in forma di notizia, di parola data, ospite d’infiniti transiti di significato eppure esatta; parola che perde l’opacità dell’uso per dare identità e si affida al nome perché il nome ha la forza etica della distinzione: insegna a riconoscere, a fermare un referente annidandosi anche nel grembo mobile del verbo, fra colli che s’ingigliano e gru che vanno aquilonando.

(z.r.)

 

NEL SALISCENDI

Nel saliscendi di tortore
sopra i gravi piloni del fiume
fluttua il pallone verde,
sciolto dal polso del bimbo.

Lancia verticale il berretto
il marinaio sul molo,
ma neppure lo sfiora
tanto è salito nell’aria:
è già un acino, un punto.

Poi più nulla oltre il dito
dell’uomo, intinto nel cielo,
e il volto oscuro del bimbo
a braccia larghe.

                            (Luigi Manzi)

pita pitela e i Feaci

19 sabato Lug 2008

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pita pitela, di Elia Malagò, uscì per la prima volta nel 1982, copertina nera e fregio verde a fare da cornice. Per i tipi di Forum/Quinta Generazione, nella Collana Poesia 80, diretta da Giampaolo Piccari.

Ora i Feaci ne accolgono un nuovo approdo, in forma del tutto rispettosa del testo originale, accompagnato da una nota di lettura di Gino Baratta.

Si vorrebbe avere una voce potente, quella dei fuochi che bruciano e schioccano d’estate sulle spiagge di Po, per salutare questo attracco, capace com’è di incrinare, per un attimo, la coltivata vocazione alla riservatezza dell’autrice, e di ospitare, nei possibili transiti della sua poesia, il regalo di un indugio (o di una tangenza).

Non di fermarlo.

Perché questo compete al testo poetico: l’inarrestabilità dei passaggi, la persistenza della mobilità.

Non si torna alla poesia, quasi fosse un grumo immobile, inchiodato.

È la poesia a raggiungerci e a toccarci nel suo percorso circolare lungo i tempi e i luoghi, con il valore aggiunto di tutte le sue traversate, di tutti i suoi viaggi.
La poesia non sta ferma ad aspettare.
Arriva col suo corpo tatuato di parole (perché soprattutto il tempo sa diventare corpo), parole che altre hanno chiamato, strato su strato.
La poesia le tiene sulla pelle, assieme ai fatti e agli sterpi, alle spine e ai cicloni assorbiti nel percorso, a fare rotolo e spessore: lumaca di acqua / casa sulle spalle…
Con questo carico, parla alla nostra capacità di leggere e sentire: senza scadenze e senza date, ricca della sua attualità atemporale.

La poesia che giunge sul filo di pita pitela, conta o filastrocca a guidare passi vagabondi con l’aiuto di uno zufolo di salice e rubilia, non traversa “l’alte/nebulose”, così care a Montale.
Arriva sottovento, da spazi, movimenti e modi che sono solo suoi.
Da occidente, forse, o dal ventre, o dal buco pesto, o dalla sacca buia, o dai sotterranei/ sotto le trappole del bosco o da sotto il cuore,  dove si scavano le crepe, dal budello di rive, da melme e paludi, da letti d’acqua verdi a/ macerare, dove è facile affondare e sentire la paura di perdere la voce, di  non averne il coraggio.

Arriva col moto lento di un andare che batte entrambe le direzioni, lo stesso andare della vita, incerta fra il trattenere e l’allontanare, fra l’amare e il cancellare, il partire e il restare, l’uscire e il tornare dentro. E allora non sceglie né cerca armonie, ma solo compresenze di opposti, che sono mescolanza e reciproca contaminazione.
Chiede (vuole, tocca) terra, la poesia, come il nascere. E acqua. Terracqua.
(Re)sta nell’orizzontale e a questa linea mossa e schiacciata tutto riporta e lega: anche per nascere si scivola e si scende.
Su questa linea ci sono le stazioni e le storie, le tracce e le trappole.
Su questa linea si addomesticano i miti e si abbassano: si sporcano ulisse canaglia (uomo di riporto e delatore infedele) e il padreterno, argo e la storia dei grandi, i riti e l’avventura.
E più si abbassa l’alto, meno spazio resta per un qualsiasi gioco d’illusione o di speranza; anche la distanza non ha proiezioni verticali: si spalma fra uomini e cose, si distende e diventa solitudine, mia luna feroce che arrivi/vagabonda, fatica di portare il peso del cielo.

La poesia accade dunque sulla soglia del dolore, dove incontra il dio dei gemiti e “sdipana” lacrime dai lombi. Ed è prova e misura di voce, asciugata e indocile fra lamine di pause.

Passi le mani sul dolore e dici: in questo gesto, che sa di corpo, di sangue ma anche di carezza, e in questo dire, che ne fuori-esce a gorgo o a tornante, penso abiti un frammento della “riserva di senso” di pita pitela: una “riserva di senso”, che Elia Malagò, nel corso di una conferenza, ha attribuito ai classici e che piace, ora, maternamente ricondurre alla sua poesia.
Appoggio qui un frammento (Di antiche paludi)

Prologo

1.

Il gelo abbrevia anche le giornate

e conta poco essere qui o nei salti

bruschi del tempo

possibile inventare ricordi

                   infanzia sommersa

     germogli tra cataste

di neve dura sotto ombre sottili

 

Il cortile fatto corteccia di ghiaccio

per sentieri di fiaba quasi un bosco

incantato in giochi soltanto suggeriti

 

sedimentate conchiglie (questa mia memoria

di fuochi spenti le pareti di una fantasia mai

avuta

presto orecchio a modulate sirene

    il mare

              quanto è lontano

il colore del mare onde di delfini sul filo d’orizzonte)

 

nettamente distinguo la mia voce:

– ma se mi prendi sono morta

la mia ombra

l’ombra mama mi insegue

segue me sotto la neve

mama portami via o mi prende per

                                      sempre –

      e ancora temo la mia ombra

come mai il terrore adesso

in questi ricordi d’accatto anche i colori

sono dure lame

 

inverno

lastra spessa traspare solo a tratti

la ghiaia del selciato

lontana per l’infinita distanza

che mi separa dalla mia ombra

  senza rimedio

 

E’ la testa a scoppiare nei segreti

in vetrina

nulla più da coprire una

donna

senza infanzie d’amore



Alberi

21 mercoledì Mag 2008

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Me l’ha scritto Giulia, fra i commenti, qualche giorno fa.
La sua bambina  vede un albero sulla fronte della mamma.
Una nuvola scura, un pensiero a grinze, una piega improvvisa mettono radici e rami, agli occhi di chi sa guardare.

Mi ha intenerito questa immagine vegetale che ferma, diventandone stampo, uno stato d’animo di passaggio.

Ho pensato, allora, a quante volte alberi, maternità e infanzia percorrano insieme un tratto di significato e stringano un patto.
Così, senza preavviso, è risalita in superficie una poesia, che se ne stava annidata a far granaio da qualche parte.
E’ di Sergei Esenin.

Là dove il sole sorgendo innaffia
con acqua rossa le aiuole di cavoli,
un minuscolo acero succhia
la verde poppa della madre.

C’è un acero minuscolo “là”, in un punto senza nome e senza estensione, un punto che riassume l’orizzonte e annoda cielo e terra, due “maxima” spaziali, senza soffocare ciò che è infinitamente piccolo ed esile.
Compendiati in un unico ciclo vitale, tornano tutti gli elementi della natura, che rinuncia all’abito da festa per essere soltanto campagna, orto di cavoli, luogo-casa di cura e nutrizione.
E qualcosa accade, infatti.
Arrivano i colori, a rafforzare il senso delle cose.
Il sole presta il suo rosso, ovvero la sua luce.
La terra presta il suo verde, e quindi la morbidezza dell’erba.

Delicati, amorevoli transiti.

Nel dono il sole diventa acqua, la terra diventa madre.

Il “minuscolo acero” entra nel gioco e si fa lattante che succhia dalla “verde poppa” questo fluido passaggio delle qualità, questo cedevole trasmutare degli aspetti.

Assorbono la scioltezza del cambiare, gli alberi.
Sanno essere crocevia di mondi e di scambi.
Come i bambini.
Per questo da loro si lasciano riconoscere, anche su una fronte.

(Per Matilde, la dolce)

Fulminati

07 lunedì Apr 2008

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a proposito di un libro…

‘Chissà se i fulminati di fiume sono come quelli di mare’, dice la dedica.
Mi viene da sorridere e penso, intanto, che non so fare le dediche e che vorrei averla scritta io, questa. A dirla tutta, non so fare neppure le recensioni.
Magari percorro qualche pezzetto di strada insieme con i libri, a volte, fra la gente.
E con gli autori. Sempre con la preoccupazione di sbagliare il passo o il modo.
Facciamo così, quindi: questa non è una recensione, neanche una presentazione, ma un accompagnamento dedicato a Medicineman, amico di blog, che leggo a singhiozzo, così come leggo a singhiozzo le altre blog-scritture, in questo periodo strano in cui il tempo fa quel che gli pare ed è sempre altrove.

Il libro è Fulminati, di Antonio Musotto, appunto, che, assieme ad Elio Carreca e a Sandro La Rosa, ha pubblicato una raccoltina di racconti per i tipi di Navarra Editori: un libro sottile, di microstorie a lama, inquiete e, a loro volta, fulminanti.
Il nastro di scorrimento di queste narrazioni è la città, nel suo paesaggio umanamente confuso.
Eppure non sono i luoghi ad accamparsi, luoghi che pure si declinano in interni di uffici, studi dentistici, case, internet caffé, e ancora nei ‘loculi’ delle riunioni riservate, in capannoni di fabbriche abbandonate o in esterni che hanno il rumore del traffico e della sua bailamme infelice .
E nemmeno gli eventi: quasi sempre sotto traccia (come sanno esserlo gli appostamenti dissimulati, gli spionaggi di mestiere, gli incontri di eros&noia), o talmente laceranti da diventare esempi pirandelliani della banalità del male, della ‘coda del mostro’, da ricondurre alla alienazione,  alla vendetta rancorosa, all’esasperazione, quella che fa sparare sul branco o addormentare per sempre mammà.
Sono le esistenze ad imporsi, piuttosto. Il senso perduto delle esistenze, ferme ad un gradino, ad un ostacolo o nodo, a qualcosa che chiude, impedisce l’uscita, perché diventa orizzonte, l’unico orizzonte possibile.
Le esistenze appaiono sussistenze, deriva di vite che scoppiano non per eccesso di pienezza, ma per le mine vaganti del quotidiano, con detonazioni spesso silenziose di malessere e disagio.
Regalano la particolarità dello sguardo, lente deformante che ingigantisce o minimizza, contorce o deforma.
Lavorano d’occhi, molti personaggi.
Alcuni guardano dall’alto, da un terrazzino o da una finestra: modellano comportamenti laterali e obliqui sulla vita altrui; altri puntano su di sé e sul mondo uno sguardo lisergico e allucinato, da leccata al dorso di un rospo: uno sguardo che stravolge e non distribuisce né favole né consolazioni, ma solo conferma solitudini ab ovo, nell’inquinamento radicale e a fittone di ogni giorno.
I personaggi di Musotto affidano allo sguardo dialoghi implosi, sfioramenti, che non trovano altro punto di contatto, o tentativi di agnizione. Ma anche gli occhi sembrano aver abdicato alla loro funzione: vedono senza riconoscere il volto riflesso nello specchio, la stanza, la donna di un pomeriggio.
Ai ‘fulmini’ che snervano l’esistenza, d’altra parte, non si può chiedere di far luce: sono contingenze, declini o ossessioni, dismissioni interiori o stanchezze folgoranti che abbagliano, spezzano e richiedono patti in deroga con il mestiere di vivere.
Chi sopravvive, resta. Alla maniera della scoria, del detrito, raccolto dalle parole, con le parole, dello stesso colore della strada.

Da leggere. Fulmineamente.

Con Luzi

26 venerdì Ott 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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C’è una poesia di Mario Luzi a cui torno quando il vivere, di cui si sa il trascorrere sospeso tra oscuro / e manifesto, fuori della letizia e del dolore, mostra qualche smagliatura in più, qualche anello che non tiene, per eccesso di mobilità e di inquietudine.

E’ una poesia che va d’accordo con quei giorni in cui c’è bisogno di dar ragione alle cose e agli eventi. Alle mancanze, soprattutto. Annunciate e incombenti.
Allora sento le parole di Luzi come l’invito alla calma costruzione di un giusto, dialogante rapporto con la vita, nel suo magma.

Nei versi che mi regalo c’è il disegno di un paesaggio interiore attraversato, sbattuto, scrollato dal tempo. Il tempo, col suo affanno, sa essere turbine e vertigine.
L’albero di dolore scuote i rami…
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami.
Sono parole marcate dall’obliquità del vento: appare così ‘singolare’ l’albero, così numericamente in difficoltà, da risultare unico attore nello scenario desolato di uno sciame di anni che volano via.
Eppure, nel momento stesso in cui l’individuo sembra ancorarsi ad un destino di solitudine, Luzi rovescia la prospettiva e rilegge il senso o la vocazione dell’esserci.
Vivere è un andare corale, collettivo: si va, si va con i propri vivi e con i propri morti, si va in in-fusione,
penetrando il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite.
Si va ciascuno e tutti insieme, con un unico corpo che le morti non assottigliano: eterna compresenza, che esclude appelli e bilanci e fa continuare il viaggio.
Si va filando l’amore, fino ad illimpidirlo.

Il flusso della vita non è dunque vano, sembra dirci Luzi.

Certo, in chi vive di dubbi ed incertezze, spaventato in eguale misura dal sapere e dal non sapere, le domande non tacciono: l’uomo, albero di dolore, in quale senso scuoterà la sua inquietudine? Si voterà alla caduta, alla polvere, oppure guarderà all’alto, incrocerà un qualche fuoco, purificatore?

Non giungono risposte consolatrici.

Solo il dono di due preposizioni: con e tra.
Sono fili importanti su cui caricare o scaricare la propria presa di terra.

L’albero di dolore scuote i rami …
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite
o d’amore in amore o in uno solo
dì padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedìto tra l’eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

(M. Luzi, Nell’imminenza dei quarant’anni, in Onore del vero)

Questo

18 giovedì Ott 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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“Questo stare bene. E’ così stare bene.
stare molto bene è così come ora”
(Mariangela Gualtieri, Senza polvere Senza peso)

C’è da pensare a una Bonifica del secolo scorso, allungata e specchiante, con i fregi di ghisa, di quando il liberty sapeva coniugarsi col lavoro.
Il Po è di là, nella stanza bassa e fresca. La sera se lo mangia.
Fa buio presto, ora, e le fiaccole tornano ad essere quello che sono: non decoro ma luce.
I gradini da salire sono tanti e il corrimano è gentile.

Dentro la Bonifica, una persona minuta e sottile, che fa pensare al grigio di certe perle luminose.
E alla semplicità.
Una donna.

Dentro questa donna, una forza che spunta da una mano (non grande, aperta a conchiglia), brilla negli occhi e poi fiorisce nella voce. Rauca morbida bassa vibrata. Come raschiata senza sforzo. (Un sasso, dentro?) O carnosa, forse. Al punto che tu scopri, all’improvviso, quanto sappia essere sangue, la voce.

Dentro la donna, la bambina che sa  il dolore dei grandi e dei piccoli, il grido murato, la tosse, il fallimento e il volo incerto.
E dei piccoli, nel letto dei piccoli, conserva la pietà e la fede: nei giuramenti e nei sermoni, nei sortilegi e nei gesti che salvano.

Dentro la voce, la poesia.
Una poesia che parte su file di parole formiche, poi si gonfia, lievito di pane, vola, guarda le mappe siderali, questo ‘mondìno sghembo’ e i fiori, uno scenario storto e l’ ‘orlo/ del cominciamento’.
Con l’accoglienza antica dei grembi e delle mani.
Così schiusa, la poesia s’abbassa, ad avvitarsi ai cuori: entra e rivolta come un guanto.
Per fermarsi nel lustro che si annida nell’angolo dell’occhio.

Mariangela Gualtieri.

Due ore fa, qui.

Intorno a Caproni

07 giovedì Giu 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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(accompagnamento di una metafora o due…)

Qui da noi accadono transiti vari.
A volte ci si presta un po’ di zucchero e farina, a volte una sciarpa di seta o la ricetta dell’erba luigia. Altre ancora pane e parole.

Così una delle mie amiche mi telefona e mi chiede delle metafore.
Per sua figlia maturanda e tesinanda. Metafore fresche, di giornata. Non troppo usate. Meglio se di poeta.

Ecco, uno dei principi, cui la mia vita mai è venuta meno, mi ricorda amabilmente che una metafora non si nega a nessuno.

E allora penso a Caproni lì, dietro l’angolo, con le parole giuste: “Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato”; “Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo…”; “Sei donna di marine, donna che apre riviere”… “e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare”.

Penso a Caproni, giusto per riappropriarmi di un piacere e ricordare quanto respiro viva nella sua poesia, quanto spazio aprano le sue metafore.
Non sono folgorazioni: sono percorsi di immagini, che trovano il terreno per allignare in una sintassi quasi narrativa.
Viaggiano, fra archi di enjambements, in un verso capace di smembrarsi, di farsi pianto, quando approda ai temi della solitudine, dell’impotenza dell’uomo nei confronti del nulla, della vita che cessa e svanisce nella nebbia dell’esperienza privata.
Senza desertificarsi, però.
Potere figurativo delle parole: anche nel vuoto annodano esili ponti fra cose e tempi divaricati; sanno ‘ripensare’ per immagini la realtà. Reinventarla.

Come in Triste Riva.

Sul verderame rugoso
del mare, la procellaria
esclama con brevi grida
la burrasca lontana.

Io a riva, anzi sul labbro
renoso ove schiuma
salina bava, solo
contemplo e comprendo intanto
il gusto della tua saliva.

Due periodi in sé conclusi, separati non soltanto dalla pausa ritmica del punto, ma dallo spazio bianco, aperto come una sospensione. O come un invito alla lentezza, non interrotta  neppure da un verbo di movimento…
Ecco, dentro i giochi delle assonanze  e delle allitterazioni, prende vita, ad onde larghe, una rete di metafore. Preparano una metamorfosi, per progressivi passaggi, sul filo di una umanizzazione degli elementi della natura: la ‘pelle’ orizzontale e rugosa del mare si accende della rapida apparizione di una procellaria che esclama. L’‘io’ ascolta e guarda: la riva si fa labbro, la schiuma si fa bava, dunque saliva di donna.
Il contemplare è sentire e comprendere, in una riappropriazione sincronica: il mare torna alla sua accezione di acqua e di rena, biblici elementi della donna.
Il mare si fa donna, direbbe Saba.
A sottolineare l’affinità mai interrotta fra la natura e i fantasmi dell’uomo, fra le parvenze e le proiezioni mentali, fra i sogni e i ricordi.

La metafora non è più soltanto cifra espressiva, ma strumento di conoscenza, che, pur partendo dal piano dell’esistente, lo intacca, lo traspone, lo deforma.
Lo fa germinare, per addolcire, con un bacio che viene da un altrove, la solitudine.

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