• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi della categoria: passaggi

Piccola protesta stagionale

01 mercoledì Lug 2015

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Sono reduce da un pomeriggio di sole eccessivo.
Presente il caldo grigio?
Non quello che passa a sbuffo, s’accende e si spegne a seconda del traversare la piazza o del costeggiare un muro.
No, quello che invece grava con le ‘a’ tutte aperte, a zampe divaricate, nell’indifferenza dell’ombra.
Limaccioso e lento: si addormenta  sulle antenne e cola. Predilige le ringhiere di ferro, per renderle incandescenti.
Ogni fessura è buona per entrare: la piega del gomito, il soffio fra due pagine, l’intervallo di un respiro.
E poi i buchi dei pensieri.
Li forza, li slarga e li allenta. Gli orli si arricciano e non collimano più.
I pensieri restano aperti, con le idee che svaporano o si snervano, a penzoloni.

Non si vede, il caldo, e io soffro la pesantezza delle cose che non si vedono.
Soffro la pesantezza del caldo e le sue dispersioni opache.
Il freddo stringe, tiene e fa tenere.
Il caldo è ottuso come un silenzio di stoffa.
Non sa legare.

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Via del centro

12 venerdì Set 2014

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 10 commenti

C’è una strada, qui: curva dolce e cuore scuro in un androne.
Ha un nome alto e libertario, ma ora basta uno sguardo e te la prendi tutta.
Le han fatto il pavimento nuovo. Piccole selci, irregolari come pestate di bambini.
A camminarci, senti la polvere dura che trattiene un po’ la suola.
Ci fosse gente, sarebbero altri i rumori.
Ma la gente… Si accrocchia al caffè (quel che resta di anziani mediatori coi numeri in testa e le donne negli occhi). O tira dritto, veloce: c’è poco da comprare, ormai.
L’anima dei negozi non ha retto al centro commerciale: qualche bagliore di vetrina qua e là, poi pannelli, a chiudere gli occhi alle finestre, o porte nuove.
Se qui non si vende più, meglio abitarci: tende e tendoni aggraziano buchi di serrande.
Io lo percorro piano, quest’ adesso’, insipido e ridotto, e mi resta il senso del vecchio cancellato.
Certi odori di cuoio e corde grosse che segavano la gola prima della pelle.
Certo umore di cipolla a fetta spessa che cuoceva unta nel pane.
Certo rumore secco di ferro sul tagliere, sul collo della tacchina grassa, la voglia di scappare perchè il sangue…, il battente di una porta semovente, così pesante per mani di bambina.
Ha un doppio, questa strada sghemba, qui, nella memoria: le voci, i segni, i gesti delle botteghe morte scorrono sottili dentro le mie età.
Sono quell’altra sponda.
Come vedere, dietro la vetrina di zeppe e sandalini, la porta in fondo, che non dà sul magazzino, ma su pezze di stoffa e giocattoli a molla.
Paradosso del vivere pensando: le due rive del tempo si guardano e si chiamano, presenti nel luogo dove ho pianto e camminato, inciampato in un sasso e sussurrato.
I ricordi sono le briciole che, per ritrovarci, abbiamo seminato.
In gara con la chioccia che becchetta alle spalle, grano dopo grano, questa vita.

Roma, le gatte e gli angeli

13 lunedì Gen 2014

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Ci sono città in cui il tempo si scioglie come un’aspirina nel bicchiere: resta attaccato al vetro, rifranto in spruzzi di lentezza.
In altre, le ore hanno il batticuore, tanto vanno di corsa: hanno bisogno di giardini e di riposo, per riprendere il fiato.
Roma lo sa e accoglie le ore a ruzzoloni alle porte del Cimitero degli Inglesi, le avvia per piccoli sentieri di bossi e di pietrisco, fra muschi e fra candori, in mezzo a nomi che raccontano di arte e poesia, nel sogno trasformato in sonno.
Si resta avvolti nella luce verde e cinerina, guidati dalle gatte, che grattano le unghie sul dorso di vecchie palme già scagliose, e dagli angeli, che attraversano le fedi, nella leggerezza del marmo tutto bianco.
Verrebbe voglia di consolare l’angelo del dolore, così abbandonato al suo lutto silenzioso, e di credere all’altro, che pensa poggiato sulla mano, e quasi sorride, guardando al cielo.
La gatta Camilla, screziata d’arancione, porta da Gramsci e si allunga placida, di schiena, ma non schiaccia le viole, lì vicino.
Ogni segno di vita, qui, ha la sua religione.

La Tioga

08 giovedì Ago 2013

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Il mondo bello cominciava all’altezza dello stallo, col muro che svoltava all’improvviso e la strada che piegava alla salita.
Perché la piazza partiva lì, dal basso, quando potevi pensarne le vetrine.
Bastava giungere alla Posta per sentire un’aria quasi cittadina: il battito serrato della timbratura tampone-pacco-tampone-pacco, e la voce staccata della Menta che, nello sgabuzzo appena un poco oltre, ripeteva il suo pronto centralino.
Già quel nome dolce era promessa del mondo della piazza, della signora che vendeva confetti di zucchero pressato al vago sapore di anisetta, certe pastiglie a forma di bottone, croccanti sotto i denti: presa confidenza col palato, poi si scioglievano in briciole dolci e durature.
Piazza voleva anche dire ‘ferramenta’, antro un po’ oscuro che riservava tesori di ottoni e di argentati, in forma di chiodi e viti e ganci, nei cassetti di legno scoperchiati (piaceva vederli volare verso il ferro a calamita e scommettere su numeri e prelievi).
Piazza significava il tempio delle stoffe, che, ad un tocco del polso di Cleante, si spargevano in laghi di bellezza sul tavolo di legno.

Soprattutto piaceva la bottega piccola dei fiori, con la vetrina che faceva aiuola: solo garofani bianchi rossi e screziati, a costellare battesimi, compleanni e funerali.
La signora non aveva età, la pelle un poco scura, color di sigaretta, i capelli bianchi e la grazia di mani ballerine che componevano veloci (felci e velo di sposa a dare leggerezza a mazzolini tondi).
Si chiamava Tioga ed era piccola quanto la bottega, che tracimava al primo cliente in sosta.
Mentre sceglieva con cura fiori e bigliettini, da nascondere nel mazzo o nel cestino, la fioraia sempre raccontava di sua figlia, nel delta ad insegnare.
E pareva di vederla, la ragazza, partire di mattina, dentro a  uno stormo di anatre in fila, per quel luogo di ignota geografia, spostato più in là dalla narrazione. La si pensava in una scuola pigolante di bambini d’acqua, nel mezzo di un canneto o a filo dell’argine maestro.

Quasi sembrava di fare torto a cercare di uscire un po’ di fretta, perché la Tioga aveva bisogno di stupire con le meraviglie della figlia, così bella e brava, che aveva cresciuto lei, vedova di guerra, con quel botteghino.
Si guardava oltre la vetrina, sorridendo e cercando il saluto del commiato, ma senza impazienza, con la rassegnazione delle cose giuste.
La strada di piazza finiva così, nell’odore pepato dei garofani, con sensi accennati di cannella.

Pervinche

02 giovedì Mag 2013

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Sul terrazzo sono fiorite le pervinche, sui cordoni lunghi.
Sono tenaci e silenziose, le pervinche.
Navigano dietro le fioriere, viaggiano nelle crepe dei muri e non si fermano di fronte ai vasi già presi.
Poi, quando, ormai all’esasperazione, decidi di sfoltirle, perché sono spettinate e invadenti, fioriscono.
Fioriscono di colpo, senza preavviso.
E allora non c’è azzurro più intenso: forse solo quello della lobelia può andargli vicino, se decide di lasciare il cobalto e si sfuma di porcellana.

Non ho il cuore di togliere le pervinche.
Le lascio fare razza e mi vergogno del mio non saper tagliare.
Sarà il sogno del tenere tutto.
Sarà che anche i pioppi mi sembrano azzurri, quando marcano l’orizzonte, dietro gli argini.
Sarà che ho voglia di colori, ma pure una pervinca mi sembra una rete a strascico, che prende, dentro il suo giro, parole nuove.

Un giro di lenzuolo

18 lunedì Mar 2013

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 33 commenti

Chi mi conosce sa il mio amore per le mele vizze, concentrati di dolcezza e di imperfezione: piccole, rotolanti mele di salvataggio.
Piacerebbe, ora, averne una scorta sotto il letto, a fare tappeto e odore di verde, come accadeva nella stanza fredda e vuota della casa grande.
Sono pensieri che vengono, leggeri, mentre, al piano di sopra, i muratori stanno scrostando i muri, inserendo tiranti e mettendo a nudo tutte le crepe e i danni.
Il terremoto è sparito dai giornali, ma è rimasto tutto nei muri delle case.
Ci sarebbe bisogno di una vita di mano gentile, adesso, ma è itinerante la sua dolcezza.
Si raggruma sul fianco d’una mela, in una speranza messa a norma, in una pausa breve, barattata, poi si distende come un tessuto liso. Si sfilaccia e si perde via. Occorre aspettare che riaffiori e fare bastare quanto ha già dato.
Così, in certe ore della notte, quando pensieri tempi e cose diventano colonne alte, fa bene credere che, lente e flosce, cederanno al sonno e perderanno peso: magari basterà una piuma a sgranare i mattoni della torre.
Chissà.
Dolcezza diventa allora un giro di lenzuolo, a coprire bene le spalle.

Colombi

04 lunedì Feb 2013

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 26 commenti

Sì è usciti, a mezzogiorno, per tentare il sole.
Sulla strada che va di là da Po, vivaio di poiane arcigne al palo e di aironi piantati a bordo fosso.
A guardare le case che muoiono d’inverno.
(La linea del tetto che si ammolla, quasi il tempo picchiasse sopra il collo. La trama che cede in crolli silenziosi. Caverne d’aria scoperte di mattina, senza testimoni)
Case vecchie e vuote, forse sorrette da geni solitari, come certi altarini campagnoli con l’ulivo scampato ad ogni fiato.
Tutte uguali.

Eppure, sui coppi che resistono nella corte lunga, un’apparizione.
Non macchie di umido fiorito, neppure  muschi affumicati.
Un biancore a placche: discreto e palpitante. Spalmato sopra il tetto. A partire proprio dal crinale.

Colombi. Una colonia di colombi.
Gonfi e accartocciati.
A sorbire quel filo di sole inesistente.
A godere di quel tetto senza crolli.

Come certi pensieri del mattino, rotolati dal buio e dalle notti inquiete.
Cercano la luce, sul tetto della nostra parvente realtà.

La prima sera

07 lunedì Nov 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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C’è un odore bruciato, stasera, dopo la pioggia: un odore di scorza d’albero, che scopri di castagna, invece. Caldarrosta, su mezzi di fortuna.
Un bidone riconvertito, forse per vocazione, e dita che si scottano.
Le voci dei ragazzi arrivano dritte, non smerigliate dal vapore.

Ci sarebbe bisogno di un’armonica.

E poi.
Poi questo stupore di confini ben stagliati: matita a punta fina, il freddo.
E le ombre lì, riconciliate, con lo scatto vivo di chi ha ritrovato il posto, dopo un viaggio lungo.

Le ombre son venute a ripassare la forma delle cose.
Si erano perse, nella nebbia.

Riprendersi l’ombra, dice la Elia.
Come un credito di vita.

Ritrovarsi nell’orma.
E andare.
Questione di memoria e di fiducia nel flauto della strada.

Sul far della sera il fico
ricordò l’animale 
sentì la sua grinzosa scorza 
pelle di pachiderma 
memorizzò alcune lente orme 
e cominciò ad andare. 

(Liscano, Fondazioni)

“Come un lupo”

25 martedì Ott 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 21 commenti

Si è alzato un vento strano, stanotte.
Perdura con folate calde e schiaffi freddi. Sposta le righe della pioggia, in spartiti sonori che si sciolgono e ricompongono.
Porta e trattiene, come gli slanci che non hai il coraggio di seguire.
Nelle implosioni del tuo silenzio  aspetti che la sua voce si acquieti.
Tornino a coincidere gesti e pensieri, quotidianità e abitudini, nei cassetti lasciati aperti.

Terracqua

07 venerdì Ott 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 15 commenti

L’acqua è rimasta su, per ore, tenuta a bada da un cielo tortorino: gli si leggeva in faccia un rancore accumulato, da sospensione imposta e non voluta.
Poi, di colpo, il livore s’è disfatto: giù, gocce a corona, sul vetro, quasi un po’ ingiuriose.
E un senso lieve d’interna soluzione.

Piace la pioggia che si dice: non centellina e neppure dilaziona.
Se ha da arrivare, arrivi: i giochi sono svelati.
C’è nulla, ormai, più da volere, se non questo sfuggire ad una obliquità.
Un trovarsi a chiedere catastrofi  nel piccolo, rido fra me, obolo pagato al pendere precario.
La pioggia, il freddo vero, non truccato da un po’ di umidità, il buio alla sua ora…
Se han da arrivare, arrivino.

Si è tornati per l’argine, a salutare l’acqua con altr’acqua ancora.
E a riveder lavati certi borghi di costa, ai margini dei pioppi.
Con la pioggia, l’azzurro di vecchi  caseifici, crosta di verderame e calce, è  turchino vivo, da cartoccio di  zucchero d’un tempo.

Si alzano, ai lati della strada, castelli d’acqua alta, che appassiscono scroscianti in un momento.
Pure la pioggia ha le sue morgane.

Fioritura seconda

01 giovedì Set 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Guardavo, sul terrazzo, la seconda fioritura della rosa che amo, qui.
E’ una vecchia rosa inglese, che ha perfezionato l’arte della grazia. Si curva con mollezza sempre stanca e lo fa con l’opulenza dell’eccesso, non per privazione.
Ha il colore delle pelli sottili e delicate, non pallide e malate di grigio, ma luminose nella trasparenza. Non è facile capire dove l’avorio sa diventare carne: certo è che giunge al bordo col rossore di un compito finito con passione.

Pensavo alla seconda fioritura.

Non ha lo stupore della prima, quell’incedere malcerto di modestia e di timore, che fa spiare il boccio con ansia materna.
(Si schiuderà, scioglierà domani il suo riserbo? E la lentezza della prima rosa già disegna il vigore finale, compenso e promessa di un perdurare)
Questa avanza rapida e impudìca: si apre al caldo, quasi sapesse di essere così breve, così breve.
(Non ci sarà un’altra fioritura, forse neppure la certezza di un ritorno)
Cerca il lato tenero della vita e deborda ampia, a succhiare il suo sole.
Bella a scadenza, eppure quieta.
Bella ora, paga della sua seconda volta.

Assomiglia a certe età piene, la seconda fioritura.
Con la luce dentro.
A stornare malinconie, basta abitare il punto, a strati, in compagnia di tutte le età accarezzate.

Qui da noi

14 giovedì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Qui da noi i giorni si fanno a volte un poco strani.
Partono come fiori di tarassaco, gialli e robusti, così densi  di sole da poter scaldare. Poi, di colpo, diventano soffioni, di ore fragili: basta un attimo malfermo, una frusta volubile di  tempovento per  far tremare geometrie perfette.
(gli attimi in circolo, per aria, a dissestarsi in tante direzioni)

Ci vuole la pazienza dell’indugio: fermarsi, le mani calme per dare al respiro il ritmo buono.
Incanto del decanto.

A Genova

09 mercoledì Mar 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 57 commenti

A Genova si va, quando si può, per sentirsi bene: ci sono cose da fare e amici, soprattutto amici, vecchi e nuovi; se non si può vederli, se ne percorrono gli indizi nei carugi del porto vecchio, per piste sul filo degli affetti, magari per salutare ancora la chiesa sparsa fra più case, ché, tanto, basta la colla del colore.

Bella, Genova. Per me.

Piace per via del nome, anche: lì mi sento chiamare dappertutto, perché Genova suona Zena in dialetto, con quella zeta defilata, comune ai suoni della mia parlata. Più a casa di così, certo non si può.

Piace, ‘sta città,  per il suo cuore a grinze di strade e di stradine, che si aprono e si stringono: quelle grandi hanno segni di ricchezze appena un po’ sgualcite e le piccole tengono tracce di mestieri antichi, di tutti i mestieri, pure di quelli che richiedono l’attesa, il muro alle spalle per appoggio.
E piace, Genova, per la pelle rosa che prende verso sera, quando c’è il sole (se la liscia sul collo delle case alte, in faccia al mare). Mi piace persino per il brutto: la strada per aria che la sega, ma pure l’attorciglia con la vita, lavoro&fatica, la stessa che ritrovi giù, al porto, nella mezza luna dei portici (odore di ferro, di cani e di panissa).

Ma è la Genova delle storie che, ogni volta, io mi porto a casa.

E’ la Genova di Pino, che mi racconta del Paciugo e la Paciuga e della barca triste senza più ritorno, e dei bambini che si attaccano ai camion con un salto, per fare vendemmia di quanto è necessario (la frutta che rotola in sveltezza, a consolare la fame della guerra).

E’ la Genova dell’orgoglio di chi ha fatto la guerra partigiana e pure ha nascosto qualcosa di “pesante” dietro muri bugiardi, perché non si sa mai. Non si sa mai.

Pino racconta con gli occhi e con le mani, con le parole del porto e della strada e con pause di belin a fare fitto: racconta di navi e di tatami, di viaggi per mare e per materassina…

Bello vederlo con l’età dei padri infilare cuore mente e corpo dentro a una cintura, rossa e bianca: per loro, per i ragazzi ‘altri’, che non portano dote di coppe e di trofei, ma il senso di un fare rinnovato, di un’energia che trova le sue strade e annoda, tiene insieme, passa consegne senza delegare.

Stavolta mi porto a casa Federico che urla di gioia, sul tatami: sente il suo corpo che sente, e si lascia toccare. Quasi dimentica di coprire la faccia con la mano e ride, ride col corpo che non ha vergogna e ha trovato, in mezzo a tanti muri, una finestra sua, per quanto piccolina.

Stavolta mi porto a casa Pino e tutti i suoi ragazzi. E le sue alte scuole. 

I verbi della memoria

27 giovedì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Gesualdo Bufalino

“Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro, che l’uomo sia nessuno senza memoria”, dice Gesualdo Bufalino.

Avere memoria per esserci, insomma.

Per darsi contenuti che accostino o differenzino, che segnino distanze e vicinanze rispetto a fatti e idee.

Per scrivere chi si è e chi non si sarà, né oggi né domani.

Per questo amo tutti i verbi della memoria e credo occorra praticarli assiduamente, specie in giorni offesi.

I verbi della memoria rimandano alla grande molecola degli atti necessari alla vita: ripensare, risentire, ricordare, rammentare, rivisitare, rivedere, rivivere…

Atti della ‘seconda volta’, che sollecitano ogni parte dell’intero, sensi corpo mente cuore, perché qualsiasi ritorno memoriale attraversa tutta la mappa dell’uomo.

Fra i tanti, amo il rimembrare, volto com’è a ricompattare in schema corporeo frammenti sciolti, schegge di ricordo in libera evaporazione.

Mi piace pensare alla memoria come allo spazio in cui nulla si perde, in cui il singolo non solo si riconosce ma può collocare il suo segno.

Memoria melagrana.

Facciamola rotolare in avanti, dentro il nostro presente, perché dica la rotta, nutra vecchie speranze e faccia cadere i nuovi, sciocchi birilli che impediscono di guardare oltre.

Nidi, ancora

27 lunedì Dic 2010

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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C’è il sole.
A scadenza, ma intanto c’è. Dà una luce fra il giallo e il grigio, come certe crete toscane.
Dopo tanta pioggia, fango su fango, gocciolanti le siepi (un mondo gonfio), si è andati dove riposa una  gran parte di noi.
Piace.
È un luogo fra prati, cimitero di campagna, senza bellezza senza paura. Da piccola scappavo lì, per dare l’argento alle catenelle: c’era Sesto il buono a insegnarmi come fare, con la pazienza della sua mitezza.
Adesso torno, abbastanza spesso, per un bisogno mio di saluti e di sorrisi.

Oggi, approfittando di una tregua temporale, occorreva tagliare ciò che resta delle peonie, dallo zio.
Fiorite, sono impenetrabili, poi lasciano che il verde conservi memoria del loro segreto.
L’inverno ne fa impietosa giustizia: i bastoni fradici tutti in evidenza.

Si tagliava, dunque, con le forbici grandi.
Abbiamo trovato un nido, un pugno di nido. Con le pareti fasciate d’erba secca, basso, nascosto quasi fra le radici.
Forse di pettirosso, che ha voce sottile e chiede così poco.
Passaggio d’ali, dunque, e fruscii proprio qui, all’ombra di una tomba.
Segno che la vita può attecchire ovunque.

Tornata a casa contenta.
Questo lo devo scrivere, mi sono detta.

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