• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi della categoria: storie di seconda mano

Qui come altrove 25.

18 lunedì Giu 2012

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Qui come altrove c’è l’uomo molto grosso, col collo che si perde fra le spalle.
Fatica tenersi quella roba addosso: valigie di carne per le scale e gambe che si macchiano per niente.
All’ufficio postale è arrivato quel giorno in motoretta, un grillo sotto la sua mole.
A lettera aperta, coi numeri ben chiari, le cose sono andate quiete quiete: nel modo più semplice, conforme.
Ha cominciato con i cotechini, quelli di lingua, che sono prelibati: cotti nella carta spessa, con le verze  acide a fare compagnia. Poi s’è deciso per certi culatelli col segno della nebbia sulla pelle: a fetta un po’ sottile, chiedono l’aiuto di un buon pane, cotto di legna e di taglia lunga. E’ allora che arriva la malinconia: il pane ha un suo modo di chiamare il grana, meglio se stagionato, nella crosta nera, e la mostarda, anche, e magari una torta sfragolona…
A dimostrazione che, sì, l’eredità, è un attimo mangiarsela.

(Per C. & R. e per le storie che mi hanno raccontato ‘pettinando’ la Rodiana)

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Qui come altrove 24.

06 mercoledì Giu 2012

Posted by colfavoredellenebbie in qui come altrove, storie di seconda mano

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Qui come altrove c’è la vecchia che sente tutti i movimenti, persino quei trasalimenti che portano il respiro dritto in gola.
Nei passeri che tacciono di colpo, nei cani che cantano scongiuri e litanie, legge l’arrivo del male della terra. Lo vive nella pancia, come l’urto di un figlio che s’attarda, oppure nel tremito del corpo, nelle  braccia, slanate sotto il peso di invisibili fatiche.
E allora, se la strada fa l’onda  e i muri sono cera molle, salta sulla bicicletta, zattera per lidi senza scosse.
Quella sera è caduta in malo modo, proprio davanti alla sua casa, una casa ferita e da lasciare.
All’uomo venuto per portarla via, sull’auto grande con le luci e la sirena, ha detto che non sarebbe andata sola. La parola ‘insieme’ cocciuta come un chiodo. L’auto grande è partita dopo un poco: vicino all’albero del flebo, docile e quieta, la vecchia bicicletta.

(L’immagine della vecchia salita in autoambulanza con la sua bicicletta è un dono di Notimetolose.  A lei, con dedica, ritorna questa piccola storia, come augurio di giorni a casa, a terra ferma)

La bambina del treno

20 venerdì Mag 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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Mare.
La bambina doveva andare al mare.
Il dottore aveva detto che proprio bisognava: la tosse poteva peggiorare e le ossa chiedevano del sole, ché parevano fatte con la cera. Un sole mica di campagna, con l’umido che resta sulla pelle: un sole di vento e sale.
Bisognava, proprio bisognava.
Il posto c’era, là nella colonia: il dottore aveva insistito con le suore. Era uscito un sì di malagrazia, ma solo perché Sesto tagliava il rosaio della siepe, dopo l’inverno.
(Almeno vederla in chiesa, la bambina, qualche volta. Eh, in chiesa. Giusto ai funerali.
C’era un bel tempo per portarla in chiesa. Alle sei si era di trotto, a fare le giornate: persino a batter canapa nel macero, che non c’è fatica al mondo grossa uguale, no)

La Dilma era rabbiosa. Come quei cani che stanno alla catena e l’acqua è un po’ più in là. E non c’è verso. Neanche a tirarsi il collo.
Al mare servivano le cose: grembiuli leggeri, un costume, magari fatto a ferri, a maglie fitte fitte. La sera si poteva fare. Questo sì. Ma c’era da comprare un po’ di biancheria e cucire i numeri di dentro. E mettere la piccola sul treno, ché, gli altri, erano già partiti. Da andare fino a Ferrara.

La bambina si guardò intorno: il biglietto stretto nella mano, la valigia nella rete, sopra la sua testa, la carta dell’Italia con tutte le regioni, sul fianco del vagone. Scuro, col portellone che si chiudeva truce: uno schiaffo di ferro.
La busta dei soldi, in tasca, perché non si sa mai.
Guarda di portarli indietro tutti, aveva detto sua mamma
E la bambina, sì.

La campagna correva davanti al finestrino. Il gioco era aspettare il colpo sghembo, un nodo lì, sulla rotaia, o una curva ribalda all’improvviso, e sbattere qua e là: veniva voglia di accompagnare la scossa con i fianchi e ridere di dentro.
Però.
Il caldo, il giallo, il finestrino chiuso facevano venire una gran sete.
Passava il ragazzo con il secchio: le bottiglie ficcate dentro il ghiaccio. Aranciate con le gocce in corsa lungo il collo. Dovevano essere gelate. Lo diceva, il ragazzo, con grido modulato, ogni volta che passava in corridoio.
La bambina gli teneva dietro, con occhi innamorati di quel fresco, ma i soldi dovevano restare nella busta.

Il treno si fermò: il ragazzo lasciò il secchio lungo il corridoio, chiamato all’uscita da una voce.
La bambina fu svelta come non sapeva: la bottiglietta nascosta dritta, fra la schiena e il dorso del sedile. In un fermo egizio.

Tutto riprese, quasi come prima: tre vecchie dentro lo scompartimento, davanti a lei a parlare in italiano bello.
Forse un tribunale.
La bottiglia a fare freddo fra le ossa, e la carne, intanto, già incantata.
La sete a cementar la gola, con la parola ladra di traverso.

Il ragazzo passava e ripassava, col suo secchio e col suo grido uguale: a ogni giro, la paura rospa saliva su dal basso e si gonfiava, quasi il respiro fosse la sua pompa e, tutto il corpo, cuore.
La bambina avrebbe voluto scappar via, ma l’aranciata  si era fatta un nido di ghiaccio e di rimorsi, sulla schiena, e la teneva stretta.

Scese per ultima, dopo la vecchia che le aveva calato la valigia.
La bottiglia intatta sul sedile. L’ombra bagnata sulla schiena. La suora ad aspettarla sul binario.
Sei sudata, le disse.

La bambina della Morgana

01 domenica Mag 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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Come cerva che assetata
brama l’acqua di un ruscello…
Entrò cantando, l’uomo coi capelli grigi. Nella bottega attaccata al forno, con le spose a fare fitto, nell’attesa del pane.
La bambina vide suo nonno diventare allegro, come quando la domenica prendeva lo sgabello e andava a predicare sul sagrato.
Fu svelto a sciogliere il grembiule e a rispondere con l’abbraccio dello stesso inno, ma appena sussurrato,
così l’anima turbata
con speranza volgo al ciel.
E ancora si abbracciarono e uscirono insieme, nel cortile: la porta del negozio spalancata e le donne  a bocca aperta. Aspettavano coppie, crocette e schiacciata.  E invece lì, a far le statuine.
Doveva ben esserci qualcosa, perché Bigìn mica era uno da prendere e andare, senza dire né come né quando.

La Matilde  sbatté la cesta sul banco, quasi i baguloss  fossero cornacchie da stornare col rumore, e poi, giù, grandinate di pane nei sacchetti e neanche una parola.

La bambina era un poco incerta se tener dietro a suo nonno oppure no. Seguirlo era avere gli occhi della vecchia piantati nel coppino, ma stare lì, a guardarla,  era perdersi il nuovo.
Allora si mise con la scopa a spazzare briciole e farina fra i piedi delle donne.
Ah, che non mi sposo più, disse la grassa con la voce in gola, e le altre a ridere a ridere.
Fuori, fece la Matilde, tutta risentita.

Era quello che voleva. La bambina infilò tre piroette e traversò il cortile fino alla porta di lato del teatro, quella che dava sull’orto: suo nonno stava dicendo sì, che andava tutto bene, che si poteva fare, che non c’era bisogno d’aspettare. Allora l’uomo coi capelli grigi, la donna ed anche una bambina cominciarono a portare le casse nel teatro, scaricate piano piano dalla pancia del carretto.

Avremo i burattini domenica, in teatro. Ci costeranno niente, disse suo nonno, a tavola.
La parola niente regalò al suo piatto un altro mestolo di riso, che sua moglie elargì di buona grazia. La bambina prese quel gesto quasi per sorriso.

Dalla  porta piccola del teatro, veniva l’odore di chiuso, un fiato  di velluto vecchio e legno umido.
E  di polvere che usciva o entrava.
Un senso di segreto rivelato, ché, a vederlo di giorno, il teatro, era come entrargli nel fianco, con una fitta di luce a tradimento, quella che  mostra  macchie e crepe.

La bambina non era ben convinta che ci fosse del bello in quella cosa: si mise a guardare.
Sul palco, un baldacchino rosso, facile come nei disegni: una finestra, sotto un tetto appena profilato e i burattini con la testa bassa, poggiati a cavallo, come asciugamani.

La donna si sedette vicino alla bambina, coi gesti indicò la gola: era senza voce e parlava come con le piume in bocca.
Poi le fece ssssh.
E fu la fisarmonica, con una musica che non si era mai sentita, una musica che diventava tutta pelle d’oca e voglia di cantare e muovere le gambe, le mani, la testa.
Come  Fagiolino che cercava la sua dama.
La bambina aveva gli occhi grandi. Tornò alle prove ogni giorno, vicino alla donna con le piume in bocca.

La domenica, la Matilde era in prima fila, inquieta, con la poltrona vuota accanto. Dov’era la bambina? Dalla Ghelfa a comprare le carrube?
Poi il buio. E la fisarmonica. E una voce sottile, quella voce sottile che conosceva bene…

La fata Morgana
Sarà a te vicino,
Nessuna tema
Mio buon Fagiolino…
Corri, vola…
La principessa t’ attende
Da te dipende
La sua libertà.
Da te dipende
La sua libertà.

La bambina del pane

21 giovedì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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Il bello dell’andare a letto presto era poi quell’alzarsi dentro il buio, chiaro, nel giorno che è sul punto di arrivare: d’inverno è nebbia e latte, col caldo è odore di promessa, di madresilvia o di peonia bianca.

La bambina scendeva per le scale e si sedeva sull’ultimo gradino: le piaceva ascoltare di nascosto suo nonno che cantava dentro al forno con un filo di voce infarinata.
Cosa cantasse non si sapeva dire: c’erano angeli, in giubilo a Betlemme, e un pastore ricco di pecore contente, c’era pure un ceppo secolare e l’antico tentator, armato di furor e inique frodi, forse dentro la forte rocca, e poi mani, mani levate al cielo.
Bellissime parole, che sembravano miracoli o magie, come le rosette, così smorte, in fila sulla pala, e poi, vicino al fuoco, eccole  gonfiarsi e tendere la crosta ( il bottone sul punto di scoppiare).  E prodigio era l’odore cotto, di panni puliti e caldi, di acqua evaporata sul muro dell’agosto.

Perché canti?, chiedeva a volte la bambina.
Per aiutare il lievito a salire, era la risposta.
La bambina lo domandava apposta, giusto per ridere con lui.
L’aveva visto su un giornale vecchio, quell’uomo col turbante: suonava un piffero un po’ strano e i serpenti si alzavano dal paniere con la testa dritta. Anche suo nonno era un po’ fachiro, fachiro di ciambelle e di rosette.

Voglio imparare anch’io, diceva a bassa voce, il pane e gli inni, tutto insieme.
E il vecchio se la prendeva in braccio,  così piccola e scura fra i sacchi di farina.
Il pane te lo insegno, ma tua nonna mica è poi contenta se tu canti  per casa le mie cose. Lei corre dietro a un altro campanino, alle sottane dei preti e delle suore…Lo sai che vuol  comprarsi il paradiso…

Sei magro, allora lei diceva per mandare via i pensieri brutti, i musi o i silenzi o le sgridate dei giorni  che la nonna era rabbiosa per la sfortuna dentro la sua casa, un figlio andato chissà dove e l’altra con la pancia ancora grossa: giusta sacrosanta punizione, da trombe del giudizio, perché mai si era sentito di due fedi sotto lo stesso tetto, due chiese e due bibbie e quelle parole matte. Ché lei era sicura di cambiarlo, per questo se l’era anche sposato, lei, vedova contesa, che portava in dote un cavallo bianco e tele sottili come l’aria. Ma lui invece, macché, sempre nel peccato col suo Valdo…

Son magro perché ogni parca cena manda in letto, e di colpo snebbiava le paure che le leggeva dentro, dai, che tua nonna è anche brava, sai,  e il suo paradiso avrà un odore buono come il mio. Forse lo stesso pane. E adesso  ti insegno a sceglier la farina.

Bisognava pizzicarne un po’ e stringerla forte fra le dita: aveva da restare appiccicata e fare consistenza. La farina troppo sfragolona è debole, quasi non ha susta e il lievito lo sgugna: non tiene niente e non dà niente. Come il tempo speso a litigare.

Ogni sacco veniva visitato nel gioco di spizzichi e presine: il verdetto restava  sulle mani.
Era tutta  buona, la farina.

La bambina della sala

25 venerdì Feb 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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I ricci lisciati sulla tempia, con il pettinino, lasciavano scoperto un po’ l’orecchio, di orlo sottile e delicato.
Mentre metteva l’orecchino, il collo si piegava in curva dolce, i capelli calati sulla spalla.
Era così bella e giovane, sua mamma.

Tu hai da stare a letto, però le aveva detto. Stretta.
Ma come si faceva?
Da sola, in quelle stanze: la paura sapeva salire per le scale, cavalcando scricchi e cigolii, e poi picchiava al petto.
Lo sapeva, sì, che  ad arrivare era solo la vecchia età del legno, non una strega, non un qualche babau tutto imbrinato.
C’è che la paura non sente le ragioni.
Lo sapeva, sì, che in un attimo si poteva uscire: due passi ed eccola in sala, nel teatro che il nonno riscaldava con la stufa grande come il forno.
La Matilde sua nonna pure aveva detto se hai paura traversi il cortile, poi resti lì con me, alla cassa. Stacchi i biglietti tu, che il nonno sarà in chiacchiere…
Ma come si faceva, se l’altra non voleva? Era una maniera per farle litigare (porte sbattute, rinfacci per le stanze, sua mamma a piangere e a dire che non era colpa sua).

La musica arrivò come un invito, assieme ad un grattare, forse di unghie roditrici.
Fu già in piedi, allora, con il vestito buono  e i capelli tirati con le dita.

Sua nonna non le disse niente: cominciava a farsi un po’ di gente, sul filo di Amapola, dolcissima Amapola, la sfinge del mio cuore sei tu sola.
Era una festa messa su di fretta, per gentilezza d’una fisarmonica. Ché, poi, bastava un ragazzo in vena di mandòla o Clio, se dal suo violino frizzava quel suono brillantino  che metteva  ai piedi la voglia di ballare.

La bambina guardò intorno la sala: ai lati fiancate di poltrone, per fare spazio in mezzo, e le assi per terra appena impolverate.
Nascosta fra la tenda rossa, per seguire il ballo uscito dal violino. Maria La-O lasciati baciar Maria La-O tu mi fai sognar…
La vide finalmente, la sua mamma, col vestito di rasone spesso, le stelle, le rose e tante piroette.
Eppure la gente guardava e poi rideva.
Il vestito, i sandali, la zeppa … Andava tutto bene. Persino il cavaliere.
Eppure la gente guardava e poi rideva.

Quando nel ballo le giunse da vicino, vide che dietro, proprio sul fianco, anzi più giù, stava incollata una caramella, gialla e rotonda, beffarda e appiccicosa come la risata grassa della gente che ruotava intorno, e guardava e rideva guardava e rideva. Anche il violino sembrava ridere di naso e le luci e le donne poggiate alle poltrone.

La bambina sentì lo schifo in bocca, forse il caldo o la polvere. Forse la vergogna. Anche quella vecchia, di un padre che non c’era e dei silenzi in casa.
E le pareva di vederla, quella mano d’uomo, prendersi confidenza con sua mamma, toccarla per sporcarla con il gesto, un gesto sciocco di sprezzo e derisione .
Solo sperava che sua nonna non vedesse o almeno non dicesse a sua figlia quelle parole brutte, tirate dietro dure come schiaffi.
Sua mamma ballava e non sapeva nulla.
Era così bella e giovane, sua mamma.

La ragazza del banco dei segni

02 giovedì Dic 2010

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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Non le dispiaceva in fondo quel lavoro, di morbida cadenza.
Fare e disfare, sull’orlo del mattino e della sera. Come i disegni di polvere e colore.
Le scaglie del tempo su una lastra di legno, a galleggiare sopra i cavalletti: un’armata di perle  scappate chissà da quale filo, di stampe  rimaste senza muro, e poi tazzine con l’eco di altre luci. Sua Muffità di fogli e di velette. Nelle retrovie, piattini scompagnati. A fare resistenza e geometria.

Questo banco sa di poesia, le disse l’uomo, con l’aria borgesiana di chi sa vedere oltre il buio.

La ragazza lo guardò senza parlare, la stanchezza tutta concentrata nel cadere diritto dei capelli.
Già lo sapeva: i mercati sono della gente.
Le cose stanno lì per far da levatrici. Di parole e di sogni addormentati. Di ricordi e di piaceri coltivati.
Le cose tengono la brace sempre accesa dello sporgersi affamato sulla vita, quello che s’appiglia almeno a una rivista, agli auguri di una vecchia cartolina: mano d’inchiostro azzurro e innamorato. Da portare a casa, come una promessa.

Ma l’uomo no, non lo sentiva, il richiamo silenzioso delle cose: forse parlava con un suo pensiero.

Anche lei sa di poesia, aggiunse con voce un po’ più bassa, preso di sé, dentro ad un suo giro.

La luce stava per finire, gli oggetti dovevano tornare, senza confusione, ben fasciati di carta e di cartone. La ragazza sentì di doversi un po’ scoprire. Almeno il fondo di un sorriso.

Allora le dirò cos’è l’amore, continuò l’uomo, quasi chiudendo gli occhi.

La ragazza si alzò: ci sono parole che vanno assecondate come pitepitele dentro il bosco, con gesti che dicano qualcosa, ma la vecchia le porse la teiera, cosa costa , questa qui, che è  anche un po’ scheggiata…
Il tempo di volgere la testa e chiedere un attimo d’attesa, col cenno gentile della mano.
L’uomo non c’era più. Più. Solo la nebbia.

La bambina della bottega del sellaio

26 martedì Ott 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

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Qui da noi c’era un uomo che vendeva le sue selle quando i cavalli non c’erano già più.
Nella bottega col tavolo a traverso, come un ponte di legno fra due vuoti: solo un orlo polveroso di borse e di valigie a fare da riva alla vetrina, larga finestra che prendeva strada, senza impannate e senza imposte.
Tutte le cose stavano nell’aria: appollaiate in alto, con tralci di briglie, di basti e di collane.
In groppa alle travi, le selle erano schierate, in ordine di prezzo e di grandezza: lasciavano che il cuoio gravasse col suo odore, forte, quasi di fieno maturo o di grasso dimenticato al sole. Messaggio di un mondo superiore.
Intanto le staffe pendule dicevano il metallo e i cordami cadevano gentili, in nodi e volute mai uguali: gocciavano giusto sulla testa, sospesi in indicibile verdetto.

La bambina diceva con permesso e si fermava proprio al centro della terra, a controllare che la polvere non fosse andata via, che tutto fosse rimasto come prima. E sperava che il sellaio tardasse di un respiro: un giorno o l’altro sarebbe entrato un colpo di vento galeotto a suonare quell’orchestra in sospensione e a farne un’armonia al galoppo.

Invece non succedeva niente.
La bambina chiedeva un po’ di corda, perché nell’orto bisognava legare i tegolini.

Più che i paletti, la corda legava le parole: il vecchio prendeva a raccontare del tempo che non c’erano i landini, che s’andava a cavallo sull’argine e nei luoghi e l’erba viaggiava nei carretti, fra  sponde e catenacci.
Dovevano essere gagliardi, i finimenti, per convincere le bestie a lavorare, ma senza friggere la pelle né di caldo né di brutte sfregature: andare a cavallo è tutta una regia, di voce e di forza nelle braccia, di segnali di sella e di ginocchio.

La bambina restava seduta ad ascoltare: il solaio si sarebbe animato di scalpiti e nitriti, le corde avrebbero portato alle campane, l’erba sarebbe spuntata dal soffitto. Regali di un alto che tutto doveva contenere, svegliato soltanto dalla parlata modenese: un apriti sesamo nato lì in pianura.

Invece non succedeva niente.
Ma sarebbe servita altra corda, di lì a poco.

Bigio

12 lunedì Apr 2010

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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(seconda parte)

Furono tante le estati di musica e pedali, di caldo e di stelle per compagne, così vive da durare nei racconti dell’autunno, all’osteria, e da  tirare inverno, fra una partita a carte e qualche uovo sodo.
Fu proprio all’osteria,  in una sera di sagra novembrina, che l’amico di caccia  più  fidato gli diede la notizia letta sul giornale:  davano la Traviata, a Parma,  di lì a poco.
C’era da andare,  anche se il freddo cambiava la vita e le giornate, e la galaverna picchiava contro  i vetri la mattina.
Anche se gli anni  continuavano  a fioccare.
L’amico capì che forse non doveva dire: il lievito hanno le passioni. Per un poco covano zitte e quiete, poi si gonfiano e straripano. Sono così piene di furore. Sciocco chi cerca negli anni la saggezza: fra  loro, gli anni, si dicono bugie, giocano a nascondere e  a dimenticare. Tant’è che al BigioParma non sembrava poi tanto  lontana, se la bicicletta consolava le mani con i manicotti bianchi di coniglio.
Piuttosto, il Regio aveva le poltrone rosse, persino  di velluto, e fregi di oro matto, tutt’intorno.
Per entrare si poteva entrare, la maniera di non pagare c’era,  ma  stavolta ci vuole la cravatta, aveva detto Gino, e anche la  giacchetta.

La sera di santa lucia l’amico tornò a casa in busto di camicia, senza dire in famiglia neanche bao: la  moglie e le nuore intorno, a chiedere con gli occhi.
La Dina era anche abituata a tacere sulle cose strane, ma  alle giovani  pareva una gran cosa che sparisse una giacca nuova nuova, col taglio così fino dell’Alonso, e senza neppure una  parola.
Torna,  lui disse  a tavola,  poi, alla nuora,  sarebbe bello  che domani la bambina  non andasse  a   scuola.
Alle  otto  del mattino il campanello rivelò  un  Bigio tutto  intirizzito,  sul braccio un fagotto ben disteso.
Compermesso, disse alla Dina, che cominciava  già a capire e versava svelta nei bicchieri caffé forte e bollente e un po’ di ferrochina.
L’odore  buono e il caldo sciolsero  tutta  la Traviata.
Tornò,  raccontata col dialetto, con tanti alorale’ e aloralu’:  il Bigio nella stessa stanza era padre  e servetta, Violetta  ed anche Alfredo, che rinnovava  l’oltraggio dei denari, gettati a terra, nel mezzo del brindiamo, in segno di scherno e di disprezzo.
E si commuoveva a cantar l’amami Alfredo, con le donne  a tirare su col naso e a dire ancora.
La bambina forse non capiva, ma seguiva con il cuore preso, seduta  sulla poltrona grande. Puntava il dito spesso  e diceva uomo, donna, nel rapido passaggio delle parti, sbirciando il consenso muto di suamamma.
Non volle  fermarsi a mezzogiorno, il Bigio, anche se sapeva sincero e benvoluto l’invito ai  cappelletti nel brodo di gallina.
Sembrava un po’ più piccolo e come rinsecchito dentro  il tabarro scuro: stanco del parto di tanti personaggi.
L’amico lo compagnò sull’uscio, quasi a volerlo trattenere:  il freddo, un’altra  pedalata, quell’aria un po’ stupita e rarefatta che promette neve.
Ma il Bigio era uomo di no che non vogliono insistenze, nemmeno trattative.
Solo tornò  indietro a cercare la bambina, che chiedeva alla nonna altri racconti, pescando nel brodo il  più grosso degli ovini di gallina.
Ho da dirti un segreto.
La bambina fece gli occhi grandi  e porse anche l’orecchio, come accadeva per gioco con suo nonno, quando per lei inventava parole tutte strane, da usare al momento del bisogno, per tenere lontane le paure.
Arrivò la gran rivelazione, che aveva il  sapore della prova e diceva di affetto e vicinanza, di  viaggi premiati col  ristoro di una umana, acquistata  confidenza.
La Toti dal Monte la gà ‘na pana sota la lasena. A destra.

A questo pensava ancora la bambina, il giorno dopo a scuola, a quel neo che faceva  nobile l’ascella.
La maestra intanto leggeva sul quaderno la  giustificazione che il nonno aveva  con cura compitato: Bambina assente per  opera lirica. Buon giorno.

Bigio

06 martedì Apr 2010

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

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(prima parte)

Un bicchiere di clinto, che la Gemma gli segnò in conto del prossimo fagiano o di un gobbo da mettere nel forno.
Uno schiocco di soddisfazione, per tenere  più forte il sapore di fragola  e  di  uva.
Una manata sul cappello, perché restasse ben calcato, lungo il viaggio.
E via. Verso Verona.
La schiena dritta, come da seduto,  per ingannare gli anni almeno un  poco,  l’asciugamano fra il collo e la camicia bianca, il Bigio partiva anche quel giorno, prima di bassora, con la bicicletta dal manubrio largo: da Carbonarola, fin dove si poteva, cercava l’argine maestro.
Per rendere il tragitto più tranquillo e per  guardare, intanto.
C’era la riva di Po, che si grinza nei rovi e nei sambuchi  e dopo si sfilaccia, lunga, con le barene di sabbia chiara.
E c’era la terra: larga e piatta, coi quadri di stoppie stropicciate e di medica già al secondo taglio, spartiti dalle cavedagne di polvere battuta.
Pensa te al sudore che c’è dentro, si diceva ogni volta, pedalando.
Tutta fatica nostra. Tutta fatica vecchia. Rigulada zo.
E gli pareva  di vederla scivolare giù, fra le crepe, in basso, insieme all’acqua e ai vermi.
Come la pioggia rossa, densa di calore.
Poca ne torna su, spiga o pannocchia, dritta come un fuso.

Lui lo sapeva che a volte resta al fondo, la fatica.
Addormentata dentro a una corteccia o presa in mezzo alle radici. Anche insabbiata, lungo Po. Castagna dolce d’acqua. La vita delle piante che si è fatta nera, carbone da bruciare se non c’è la legna. O trifola, che sa di fungo e nebbia.
Il Bigio lo intendeva, questo, perché aveva la pazienza del cercare, del chiedere soltanto a terra e a riva: tutto per un vivere selvatico, senza padroni e senza monsignori, fra gente con  i nomi  brevi  e parole poche. Un vivere di sponda, di vita mai asciugata, come la battellina  nera, ora sulla  spiaggia, ora sotto riva a snidare la tinca nella melma  e  certo sanguinello, tenero all’intreccio.
Nella casa giù nella golena, magazzino e officina delle mani, con l’acqua che rigava i pioppi e soffiava nei giorni della piena.
Caccia, pesca, più spesso perizia  di raccolta.
A quel suo vivere di sponda  doveva pochi amici e un grande amore: non le malizie della vedova in cerca di radicchio, neanche la storia vecchia con la Jone (se una ci ha anche un mulino, crede che pure un uomo sia farina da comprare).
Un altro amore.
Con la casa vuota, senza mai una donna, senza dei bambini, neanche il cane che impreca alla catena, si sente bene il lamento dei fagiani, che si sgraziano al fondo della macchia, e il secco percuotere dei picchi, fra merli in chioccolìo o cince che  fischiano dal  basso.
Arriva il fragore  d’ansa in sottofondo che succhia  rauca l’acqua in gorghi e mulinelli e poi la  fa girare  e la  sbatte contro i tronchi di golena.
Arriva la voce di pioppo e quella di rubilia, di salice che sfronda e frusta, di gelso a  foglia larga che scartella.
Si sente ogni cosa, a favore di vento.
Passava delle sere ad ascoltare, il Bigio, con lo stare bene che non ha parole e neppure si riesce a  raccontare: solo fischiava all’aria e al suo toscano,  per stare dentro all’armonia.
Poi venne il Bindo.
Bindo col furgone, delle cose da vendere e comprare.
Il Bigio aveva   fra   le mani un tartufo che faceva gola, scovato al bivio dello stradello vecchio.
Dallo a me, che ti do una  cosa, disse Bindo.
Lasciò  un grammofono e qualche vecchio disco.
Esplose dentro la golena  la voce di una donna: di vetro e di catena, alta su nidi e  pioppi, alta sopra le anatre di passo.
E dentro c’era tutto: il vento e il ghiaccio, il fuoco e le stagioni, i mondi di margine e di fiume.
Con una forza che non è d’accetta: l’accetta attacca, spacca e squarcia con un colpo netto, come la falce. E neppure è quella del ramo che resiste, che tiene al vento e al frutto, nella sua pazienza.
Era la forza che scioglie la fatica  nel lento risveglio delle vene, che accoglie la voglia  di piangere del mondo e la ferma  nell’angolo dell’occhio, in lacrime putine. La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro.
Tutto in una voce di vetro  e di  catena, e nelle altre che arrivarono fra i pioppi, all’appuntamento amoroso di ogni sera, barattato con cavagne di salice e canestri di mele campanine: arie di  opera e romanze, con rane e grilli a raspare sotto. O soltanto nebbia.
Nuova felicità di compagnia.

All’Arena di Verona, andava il Bigio, in uno dei giorni più caldi dell’estate, quando le corti sono gialle per l’arsura e il clinto passa breve per la gola, poi resta  sulla pelle a luccicare.
All’Opera, con l’agitazione buona nelle gambe e la  voglia di musica nel petto.
In bicicletta, ripetendo le parole mandate a memoria senza scritto e solo mormorate sulla bocca, la musica ormai sotto la buccia, nella testa dive caste e gelide manine.
Ché un amore ha i suoi riti, impone fedeltà ed anche devozione: quattro ore, pedalate senza tregua, fra argini e contrade, quando Gino suonava nell’orchestra d’agosto e lo faceva entrare,  confuso in mezzo al coro.
Dopo c’era da  aspettare  il buio, rannicchiato sopra ad un gradone, nello sbieco di un’ombra protettiva, la polenta mangiata quasi pranzo a nozze.
E quella fu la sera  di Manon.
La sua Toti vista proprio in faccia, non solo pensata nei rami del cortile,  la  sua Toti che cantava scura e decisa come la lama della luna,  la voce tornata al corpo e ai gesti, finalmente.
E Puccini da ogni parte, a prendere come un gorgo di Po o una spira di foglie e tramontana.
Per il Bigio fu un sentire grande,  un ascoltare con il cuore a  balzi.
Fu come fasciarsi la pelle di musica e di canto: dolce quanto  lasciarsi andare all’acqua intiepidita  nella mastella di zinco, sotto il sole, per un bagno che toglie sudore e fatica, la schiena appoggiata al bordo caldo.
Allora bisognava  dire grazie, anche senza una lepre, anche senza un fagiano a  rendere meno povere le mani.
E la Toti, davanti al vecchio adoratore, l’odore  della  vita  tutto  addosso, nel camerino di cipria e borotalco, capì  che c’era  da accogliere e da dare.
Il Bigio se ne andò col suo trofeo: una  sciarpa, forse proprio un velo,  ripiegata come una reliquia  e  messa da  pettino, sotto la camicia.
Tornò  senza sentire  la fatica, senza  ascoltare  il lamento dei  pedali.
Solo con quella contentezza liscia che quasi fa paura.
Ritrovato l’argine, lasciò che la ruota cercasse il binario di un solco  amico e  chiuse un poco gli occhi  per cantare nella notte, adesso sì, a voce piena, senza paura di niente e di nessuno.

La bambina della bottega dei semi

24 domenica Gen 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

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La strada spegneva piano la sua voce.
I tonfi di mannaia calavano in sordina sul ceppo del beccaio: la vetrina li teneva dentro.
(Non urlava il grembiule  con gli schizzi rossi, se si passava in fretta, magari senza sguardi)
Due passi ancora  e tutto si taceva, perché la via cambiava ad ogni soglia.

E chi voleva un po’ di vita sfusa, la speranza di un bulbo addormentato o di un cespo dischiuso a primavera, lì poteva entrare, nella bottega scura: non le bastava il portico per l’ombra, c’era bisogno di una porta buia e del regalo fresco di un’imposta.
La bottega dei semi stava zitta, come con l’ovatta intorno: solo alterni pigolii dietro la tenda e dialogo di cocorite, sospeso nella gabbia.
Chi si fermava incerto sull’ingresso, nella penombra che tutto indistingueva, si lasciava chiamare dagli odori: dall’alito della terra grassa, dal cotto del sole in forma di granaglia, dalla foglia che si macera e si scioglie  e dal sale amaro, ruvido alla gola. Un senso di pastone da pollaio, di umore assorbito dalla crusca.

La bambina entrava senza far rumore, con la lista piegata nella tasca.
Se la signora parlava col fattore, c’era modo di infilare la mano nei sacchi con l’orlo rivoltato.
Bello muovere le dita, sentire lo scorrere dei grani e trovarsi il palmo quasi bianco: polvere di frumento che sfarina.
Bello toccare il freddo dei cristalli azzurri, lasciarsi un poco pungere, volendo: si poteva pensarne una montagna che luccicasse contro il sole o sperare d’averne uno in dono, perché  il verde rame diventa talismano  prima di arrivare sul muro della vite.
E poi guardare i semi e le sementi, tutti così fini. Nei cassetti in pila sopra gli assi, a fare da parete e da granaio. Ci dormivano anche i tuberi di dalia, in certa terra soffice e sgranata.
C’era da aspettarsi che  un chicco si rompesse con rumore o un bulbo si crepasse all’improvviso e un soffio verde, a punta o arrotolato, si snervasse fuori dal cassetto e diventasse foglia, tralcio addirittura, veloce come pisello magico da fiaba.

Cosa vuoi? disse la signora.
Dopo tante meraviglie, la vergogna di leggere misure dettate da suanonna: dieci pizzichi di semi di lattuga, dieci pizzichi d’insalata ricciolina, un cucchiaio di semi di radicchio,  una sessa minore per fave e fagiolini, una tazza di semi per le zucche e un po’ di zampe d’asparagi, se fresche…
A dosi di pozioni e sortilegi, tutto l’orto finiva e cominciava in cartocci di carta di giornale.

Non ho resto di moneta spiccia. Aspetta che ti do una cosa.
La donna sparì dietro la tenda e  tornò con un pulcino giallo.
Ti spiego come devi fare.
C’era da tenere le ali tutte ferme, strette nel pugno, senza aver paura, ma la bambina aveva mani piccole: servivano proprio tutte e due.

Ricevette il caldo del pulcino come l’oracolo nel gioco, quando in cerchio, con i palmi a conca, si aspettava l’arrivo del tesoro: l’amica lo teneva nelle mani giunte e passava in rassegna le altre mani, con un gesto quasi di preghiera. In quale conca sarebbe scivolata la biglia oppure la conchiglia? Chi avrebbe premiato nel segreto della filastrocca?
Attesa di un segno d’elezione.

La bambina restò come incantata, l’orto ficcato nelle tasche e le mani piene di bellezza. Bellezza viva. Perfetta nel becco di un pulcino che cercava un pertugio fra le dita. Perfetta nel solletico di piuma, proprio sul polso, sulla vena azzurra.

La bambina e la vecchia dei rammendi

24 martedì Nov 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

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La bambina sempre sperava andasse qualcun altro.
Col fazzoletto stretto a quattro cocche, a far  fagotto per maglie e pantaloni.

Le pareva non fosse cosa bella portare i panni a rammendare.
Aveva un po’ vergogna: quasi il libretto della spesa, le voci sopra tono nella sera, le pecche e le mancanze di tutta la sua casa si fossero annidate nella tarma di un golfino, in un vuoto di lana all’improvviso, dai bordi malcerti e già stopposi.

La bambina era in soggezione già a suonare il campanello.
La porta aveva la targhetta a specchio e un occhio, un occhio fondo e indagatore, un occhio di dio, azzurro e minaccioso come le nubi del giudizio.

La indovinava, la vecchia, dietro quel vetrino e si sapeva dentro quella lente: spiata e sospesa in un limbo di zerbino.

Poi la porta si apriva con lo scatto e c’era il corridoio silenzioso a scacchi bianchi e neri di graniglia, in fondo la tavola, dove sciorinare strappi e sgarbi di famiglia.
La vecchia col collo di tacchino tastava stoffa e lana con mani sapienti e un po’ nervose.
Passava i panni ad uno ad uno e, dopo la rivelazione, li ripiegava con una confidenza  mesta, quasi soffrisse nel vederli già segnati.

Si proverà, diceva sospirando, dall’alto di un responso incerto, fatto di sopracciglia appena un poco alzate.

La bambina usciva come dalla confessione, senza sapere se c’era salvazione.
A giorni ci sarebbe stato il rito del ritorno, i soldi accartocciati nella tasca, il grazie da dire tante volte e la prova finale, che la vecchia preparava con gran cura, i panni ad uno ad uno, ben distesi.
Lo vedi, tu, il rammendo?
Bisognava guardare e riguardare: davvero non si vedeva niente, perché la vecchia, i fili, li tesseva con arte di magia e quasi veniva quel pensiero: che il verdetto d’andata fosse incerto per rendere più dolce poi il trionfo.

E ci fu quel giorno.
I passi nel corridoio un po’ appannati, forse di polvere, forse di aria chiusa: la vecchia più curva, davanti a fare strada.
I panni messi in fila per la ripassata, ma punti e nodi tutti in evidenza, per mano di una bimba capricciosa che arriccia e stringe e gioca con il filo.
Lo vedi, tu, il rammendo?
No, disse la bambina.
E si sentì grande, senza più vergogna: immensa, nella stanza in ombra.

Fratelli

15 domenica Nov 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

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Se le storie avessero un doppio si specchierebbero a rovescio, una in faccia all’altra, identiche e contrarie, come quelle dei due fratelli.
Stavano nella casa dei pioppi, i pioppi della neve in primavera, quella che le vecchie si filerebbero, se i piumini fossero cotone, per copertine leggere.
I pioppi a mano aperta stavano fra la campagna e la corte, fra la corte e il caseificio, quasi a mettere ordine pure nei lavori: al Barba il latte da cagliare in grana, al Vecchio la terra da guardare.
Solo che, a far formaggio, il latte si riceve all’alba, c’è da faticare anche se un uomo aiuta, ma  dopo non si sta a guardare, ci si decide a far qualcosa.
Così il  Barba, una volta in piedi, di tempo ne aveva e faceva partorire le bestie, e guardava le api, sistemava la legna, zappava l’orto e aiutava il Vecchio, perché il Vecchio, la giacca, mica la levava.
Se è per questo, neanche domandava, ma aveva un  suo modo di non chiedere così bello che arrivava a segno.
“Ah, tempo di pioggia,- diceva – se i covoni fossero fatti, tutta fortuna…”
“Se c’è da farli, si faranno”- rispondeva il Barba e prendevano la strada di campagna, il primo a testa in aria, il secondo a cercare per terra la cicoria.
“Ma quante, quante ce n’è quest’ anno, – diceva il Vecchio a guardar le spighe già tagliate – guarda guarda…se se ne accorge la mia schiena…”
“Se sono tante, si raccoglieranno,- rispondeva il Barba, che si toglieva il gilè –  Te, metti la schiena all’ombra.”
Sotto la pianta di susine, il mal di schiena stava quieto.
Il Vecchio guardava in su.
“Certo le nuvole son più svelte delle braccia…Bisognerebbe fare presto.”- sospirava.
“Se c’è da far presto, si muoveran di più ”- il Barba non s’asciugava neanche la fronte e drizzava le spighe e le legava, in gara con il cielo.
Alla prima goccia il Vecchio dava l’annuncio, perché stava attento, e , coi covoni che riposavano al sicuro, stretti  da un giro di salice,  tornavano in corte.

“Certo è fatica anche guardar sempre in alto” diceva il Barba, per dare soddisfazione al Vecchio.

E si ringraziavano, sulla porta del caseificio.

La bambina del ritorno

28 lunedì Set 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

≈ 42 commenti

La bambina scese un po’ stranita, con le orecchie incantate.
Grazie, disse all’autista, che le allungava la valigia.
Sentì la sua voce arrivare da lontano, fra pareti di lana o pannolenci.
E l’oscillare della terra, a barca: l’asfalto messo lì, un gradino sotto. Come quando ci si sveglia dopo un sonno lungo e si tocca il mondo, inaspettato, planando sopra il materasso.

Le altre della colonia erano già scese: lei era l’ultima, nella corriera vuota.
Aveva provato a fare la spaccata, tenendosi stretta a due sedili. Anche una capriola.
E aveva cantato la canzone di tutte le mattine, quando si sfilava di fianco al tavolone,  col caffelatte nelle scodelle e il pane già tagliato.
I chilometri sembravano più lunghi, così si era seduta ben davanti, dietro l’autista, per arrivare prima: silenziosa e composta, il fiocco ripassato, convinto a tener fermo il ciuffo di capelli. Come piaceva alla Iris suamamma, che li tirava indietro dalla fronte, solo lasciando un riccio per i baci. Ah, ma quella virgola adesso non la voleva più: aveva nove anni ed era stata via due mesi interi per scappare alla tosse dei bambini.

La corriera si era fermata con un sospiro a scatto e un cigolio di molle, sfiatando stanchezze e sospensioni, qualche minuto prima del previsto.

La bambina ci rimase male: alla fermata non c’era nessuno.
E nessuno neppure sul sagrato, luogo di eterne chiacchierate di vecchi tiratardi.
L’una sembrava un tempo pigro, nel paese. Solo rumori di stoviglia, a parlare di tavola e cucina.

Vero che la corriera era arrivata presto e lei chissà cosa aveva scritto a casa.
Vero che c’era solo da attraversare la strada, perché la trattoria era proprio lì, a prendersi tutte le ore giù dal campanile, la faccia in piazza, il dietro contro l’argine.
Però.

Fece i tre gradini e scostò la tenda con le serpentine che parvero dure, quasi viperine.
Una frustata sulle braccia.
I t’a scurtà la pataiiiina, le fecero il verso due clienti che aspettavano pazienti le tagliatelle della Dina.
La bambina si guardò la sottana e poi le gambe, gambe scure, lunghe e magroline: era tutto proprio come prima.
Perché?, chiese la bambina, il vestito non è mica diventato corto…
Adesso che è nata la putina, vedrai che per te c’è meno stoffa. Le donne son tutte là di sopra.

La bambina sentì una cosa dentro: un sasso tirato da lontano.
Ma come? Bastava star lontani un poco per trovare il reame tutto preso?
Per non avere nessuno che t’aspetti alla corriera?
Neanche il nonno, sempre pronto per i giri sull’argine, al mattino.
Neanche la Iris suamamma. In fondo quella nuova era solo la figlia di suazia.
Ecco, l’avevano mandata là in montagna perché non restasse a disturbare: faceva bene a non volerci andare altroché respiri l’aria buona.

Salì le scale con pensieri che sembravano cattivi come la tosse che aveva la Selene, una tosse con l’unghia, forse col becco.
Ma la bracciata poderosa, quella di sempre, quella di suo nonno, la sollevò da dietro.
Ehi, signorina Tahitù, avevi scritto che scendevi al botteghino…

La gioia prende forme strane: arriva allo stomaco o fa le gambe flosce.
Alla Diana sciolse il fiocco dei capelli ed anche il dispiacere: pianse un attimo, in piccolo, sbirciando oltre la spalla di suo nonno con occhi lunghi ed indagatori.

Nella stanza oltre le scale le donne, incuranti dei clienti in trattoria, legavano due poltrone di vimini: una contro l’altra per fare una culla, anzi quasi un nido.
Le fecero festa con abbracci e baci, ma la Diana era decisa a non dare troppa confidenza: prima doveva capire la faccenda della stoffa.
Cocca, ma vieni qui a vedere.

Era una bambina rosa. Rosa davvero, di quel rosa un po’sciocco che fa pensare ai confetti e alle cose buone e rotonde da mangiare.
La Diana mandò in giù l’ultimo singhiozzo e la toccò soltanto con un dito: era tiepida e molle e senza camicino… Tutto poteva farle male.
Poi ci fu quel gesto.
Suazia scuoteva la bottiglia di vetro con il ciuccio: il latte a schiumare tumultuoso.
Sentiamo se scotta o se va bene.
E ne fece uscire una goccia, solo una goccia, sul braccio nudo della Diana: all’interno, dove la vita è sottile e chiara.
La briciola di latte aveva quel calore quieto che fonde corazze e resistenze: trovò la sua strada sotto pelle, perché i bambini sanno la mitezza bianca dell’amore.
Sì che va bene, disse la Diana.

Dedicato a D., paziente e cara.

Tutta colpa

22 sabato Ago 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

≈ 34 commenti

Tutta colpa di quelle foderette.
Nate per cuscini gonfi, con piuma in esultanza: orlo a giorno fine di  pazienza, rado come le chiese di pianura.
Tessuto di telaio molto bello, disse la cognata, e pure sostenuto: bisogna farci dentro un gran vestito.

La Iris con l’ago faceva meraviglie ed era nota per un taglio così esatto che la veste ti nasceva addosso senza neppure una pince di salvataggio. Le spalle, poi: diritte, anche senza imbottitura. Grande perizia di conti gestativi, calcoli col lapis sulla squadra, con l’occhio ai numeri in cartella. La sagoma di carta disegnata, nell’estro perfetto del momento.
Poi, la stoffa trafitta da gessi e da spillini, docile distesa sulla tavola.
E il rumore di trancio delle forbici, sicuro come un’esecuzione.

E’ sarta diplomata, di scuola SNOB, Torino, annuivano le amiche, che in coro compitavano a rosario, di dito in dito: Signorilità, Nobiltà, Originalità, Bellezza…
Doni di un altro mondo che arrivava per posta  sotto le spoglie di un giornaletto rosa, miniera di modelli tratteggiati e di silhouettes moooolto parigine.

Dire alla Rosa facciamoci un vestito era come invitare un’oca a bere. Forse di più.
Però.
Era sposa fresca, fresca d’aprile, e aveva portato poca dote.
Già la Dina so madona era stata di sbieco a vigilare sui bauli in transito, di sopra: non era contenta, no, di vedere solo vestiti, tanti bei giacchini (pure col pelo di coniglio), ma lenzuola sotto la dozzina,  resti di mature vedovanze degli zii di casa, col giallino che chiedeva varechina.

La Rosa si faceva un po’ vergogna, in quel maggio già caldo, a sacrificare due belle foderette.
Ma la Iris in testa aveva già il vestito. Stretto in vita, dunque malizioso, ma castigato da una mantellina che si chiudeva al petto, restando un po’ discosta. Una mantellina dentellata con il filo rosso, per disperdere eccessi monacali.

Galeotto fu il dentello di viva tentazione: la Rosa disse sì e senza pentimento.

Le foderette non conobbero mai il letto, ma fasciarono vita e fianchi con gran soddisfazione, sotto lo sguardo severo della Dina, che guardava la dote assottigliarsi come la sfoglia sull’asse di cucina: le nuore in complotto modaiolo, mentre nell’acquaio i piatti chiedevano sapone.

Al mercato di Revere la Rosa andò  in corriera col suo marito nuovo e il vestito bianco coi dentelli.
Contenta di quella diversione che un poco almeno compensava un viaggio di nozze mai avvenuto.
E decisa a rimpinguare il tolto: le mance dell’ufficio a questo potevano servire, a comprare della tela buona, per la tavola ed anche per il sonno.

Non lo avesse indossato, quel vestito, mai avrebbe capito quanto le cose chiamino a gran voce, con una prepotenza che toglie ogni rigore e sa essere forte di catena.
Seppe, invece, quasi con stupore, che un filo rosso, un filo di cotone, è un laccio di colore per certi  sandalini, di pelle a strisce e pure con la zeppa. Un laccio che non ignora neppure la borsetta (una trousse, per essere precisi).

Meno male che non ho promesso niente, si diceva la Rosa, mentre guardava il trionfo fiammante dei suoi piedi e l’espressione felice del suo uomo.

 (A tutte le  donne care di casamia, proprio a tutte)

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