(divagazioni infantili)

È stata una serata difficile.
Richiedeva esperienza e vocazione all’avventura.
Intraprendenza, anche.
E sprezzo del pericolo.
Pure quella sfumatura di durezza che è bene allertare in certe situazioni.
Bachtin diceva che il destino passa sempre per le scale, tipo folata del vento dell’Est…
Non so da quale direzione provenisse, ma certo è che il caso ha colpito, su gradini di marmo bianco e sinistramente scivolosi: cognata, ruzzolone, ospedale.
Lasciato mio marito come presidio ospedaliero a vigilare su anche ginocchia e caviglie (è l’unico che in famiglia sappia riconoscere un osso qualsiasi), ho intrapreso la difficile carriera di baby sitter addetta alla nutrizione della piccolina di mon frère: nove mesi rosei, a piegoline e risolini. Bellissima.
Io, dei bambini piccoli piccoli non so niente. No, non poco: proprio niente. Sono sintonizzata sull’adolescenza, c’è poco da fare.
Ho cambiato un bambino una sola volta nella mia vita e si era in tre, anche se il bambino, per altro russo e precocemente iperattivo, avrebbe richiesto un plotone (non proprio di esecuzione: un plotone e basta).
E soprattutto non ho mai imboccato un bambino.
Ci troviamo io e mon frère che, in genere, con dodici parole l’anno ritiene esaurita la sua missione comunicativa. In cucina, a preparare una robina giallastra; mi si dice trattarsi di una pappetta che in sé unisce carote prosciutto e formaggio: un piatto unico.
L’entusiasmo con cui mio fratello accetta la mia proposta di dar da mangiare alla piccolina ha un chè di vagamente inquietante. L’accoglie con un sospiro liberatorio e sparisce, lasciando un “vedrai” velocissimo nell’aria.
Mi ritrovo con un piattino a ventosa con doppio fondo di acqua calda anti-raffreddamento, in una mano, e un cucchiaino morbido nell’altra.
“Canta”- dice il fratello.
La bambina, bocca sigillata ed occhioni dilatati, mi fissa un tantino beffarda, mi pare.
Nell’ordine canto:
1) Siam tre piccoli porcellin (nella memoria collettiva c’è sempre un porcellino)
2) Nel bosco c’è un funghetto color color caffè.
3) Ullallà Ullallà questo è il valzer del moscerino.
E me ne sto lì col cucchiaino ergonomico a mezz’aria e il braccio anchilosato.
La bambina guarda interrogativa e non apre la bocca.
Allora smetto anch’io: signori, questa è contrattazione, duello, scontro ad armi impari.
La bambina rosea e bella, dopo un attimo di silenzio, si trasforma in una pallina rossa e urlante, con una cavità orale dall’ampiezza imbarazzante. Approfitto dell’insperata apertura per infilare un cucchiaino di pappetta.
Sì, lo so…non dovevo farlo; dovevo rispettare il suo dolore.
Io che amo vestire di nero ora sto scrivendo con pantaloni maculati, che neanche Cavalli: tanto può l’ira degli innocenti.
Per farmi perdonare, ormai indifferente al pensiero dei vicini, canto a squarciagola:
1) un passerotto dal fiocco rosso,
2) Et maintenant ( adoro cantare in francese),
3) Dieci sputazze verdi, per restare in tema.
Nel frattempo tento disperatamente di approfittare di un sorrisino, mi lascio mettere le dita negli occhi e anche morsicare il naso.
Mentre la mia sciarpina di seta e velluto è ormai a bagnomaria nella pappetta, nel tentativo di inscenare una danza odalisca alternativa, ho un moto di disperazione: è passata un’ora, la pupa ha mangiato in tutto dieci cucchiai di schifezza e non ne vuol più sapere.
La tengo un po’ in braccio, giusto per distrarla e farla digerire, con risultati discutibili.
Si riaffaccia in cucina il suo papà: gli sento la voce più tenera del mondo, una voce sconosciuta… “dai vieni qui sifolina…”, la prende in braccio, la pupa gli fa l’occhio di triglia, sbava un dèdèdèdè molto convincente e sfodera il sorriso della beatitudine celeste…
Loro due stanno in un cerchio magico, ora, mentre io cerco di riportare la cucina a sembianze umane.
Spariscono in bagno per il cambio: vedo un ex fratello burbero e cartavetrata, ora  dolce, alle prese con la Colonia degli Orsetti spray e la Pasta Fissan: “è sempre la migliore”, dice, da intenditore, passando poi a imborotalcare me, se stesso, la pupa, il fasciatoio e il pavimento.
E così ritorniamo bambini insieme, quando  versavamo l’intero barattolo di “Se non è Robert’s non è borotalco” sul pavimento del bagno, prendevamo la rincorsa e scivolavamo: ebbrezza della velocità.
È bello cambiare senza cambiare del tutto.
“Glielo farai provare il brivido del borotalco, neh? Mi facevi sedere e mi tiravi a slitta…”-mi dice.
Sì, bisogna provarle le corse nel borotalco, ma non stasera.
Fra qualche anno.
Che cresca, che cresca, intanto.
Senza pappette, però.
E senza fretta.