• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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Dovevo dirlo

29 giovedì Nov 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 23 commenti

Sto lavorando, proprio adesso, al mio solito tavolo che dà sulla strada.

Alzo gli occhi e tra-vedo dalla finestra il cielo, grigio polvere (giornata incerta: volgere al cupo o schiarirsi? Tra un po’, tanto, verrà buio…). In fondo, un’apertura: una strisciata gialla, quasi spalmata da un pollice immenso. E’ come se tutte le foglie dei platani e dei tigli, ancora resistenti, si fossero staccate, insieme, e si fossero appiccicate lì, a far colore. In sospensione. Adesso può anche venir sera, mi dico. Lo slargo necessario, quello che da solo dà slancio ad un pomeriggio insipido, c’è stato. Va bene così.

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Alto

26 lunedì Nov 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 16 commenti

Perché, se la città fosse stata dietro l’angolo, non sarebbe successo niente. Uno andava, contratti uffici forniture, poi tornava: prima di mezzogiorno si poteva esser già in officina, attorno a una Vespa, nello stanzone, in bocca al campanile.
Invece no. Tanto lontana la città.
Con quella strada in mezzo, mangiata dai fossati.
Le curve murate dalle case.
Non si arrivava mai.
Con la corriera vecchia, poi: ferma a ogni pisciatina di cane, paese dopo paese, col lamento dei freni e l’odore di benzina cotta.
Sul ponte di ferro, a passo d’uomo stanco.
C’era da restare inchiodati una giornata, ad andare in città.
C’era da tornar la sera, con lo stomaco a rovescio, le chiacchiere dei mediatori e la tosse degli operai.

Allora, in città si mandava chi vendeva il tempo: c’è che la distanza inventa i suoi mestieri, talvolta, e li affida a gambe buone.

Il ragazzone con la berretta di lana faceva il corriere anche per una busta sola, anche per un protesto da salvare all’ultimo momento.
Ci penso io, diceva.
E la giornata cominciava già dal finestrino, a ripassare i paesi uno a uno, il pacchetto o la cartella sempre in mano, perché un corriere ha da essere fidato e la consegna non si lascia neanche sul sedile. Si sta fermi, con il cappotto addosso, ben dritti per l’importanza del dovere.

Ma un giorno la busta non arrivò a destinazione.

Ehssì che era primavera: una mattina con la pelle chiara, sulle nebbie di una settimana. Con un cielo squarciato di stupore.
La busta era pesante: quasi una mesata di soldi, da portare di corsa alla bottega della moto, ché, si sa, i tempi delle banche….
Al negozio non si presentò nessuno.
Preoccupazione grande.
Si lasciò passare la giornata intera.

La sera, si andò alla casa del corriere.
Fu proprio lui ad aprire, un poco imbarazzato.
E i schei?, chiese l’uomo dei soldi, quello dell’officina, col pagamento a pendere.
Inghepiù,  disse l’altro, puntando con l’indice il cielo, volato tutto il giorno.
Proprio lì, al Migliaretto, non aveva resistito a quel cartello: viaggio fra i cieli £ 5000.
Tanti viaggi, per tanti cieli.
Quello sulla città rosa delle pietre vecchie e quello sui chiari d’acqua, col fiume che spalanca al lago.
Quello là in fondo sul boscone grande.
Quello sui quadretti e i cerchi delle case fitte, attorno ai serpenti delle strade.
E, in fondo, il cielo largo sul bianco della reggia e …

Ma parché?, chiese l’uomo dell’officina.
Parché l’era pran bel.

E che altro si poteva dire.
L’uomo dell’officina già sapeva.
In pianura il basso cerca l’alto.
Poi lo ama.

La bambina del freddo

19 lunedì Nov 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 18 commenti

Le notti dell’ inverno leggero erano scaldate solo dai respiri. E da certe padelline di ferro arrugginito, con le braci dentro.
Poggiate dentro una nicchia di legno, che teneva sollevate le coperte del letto, sgelavano le lenzuola, regalando un uovo di tepore, col profumo del fuoco.
Non sfacciato. Solo riflesso, nelle cose.
Ma le notti dell’inverno pesante avevano bisogno d’altro, perché la rampa delle scale succhiava il vento da fuori e lo sputava dentro, con certi mugolii nel vuoto che sembravano presenze.
Nei giorni di gelo, la notte era scaldata da una stufa a carbone.
Pettoruta e arrogante.
Posta a guardia del piano alto.
Una stufa dallo sportello a molla, rumoroso e avido di cocke a pezzi grossi.
Spandeva una circonferenza regolare di calore. Lungo il tubo marrone, i raggi si aprivano in un punto, come un ombrello che ha perso la tela.
Per i panni, perché il fuoco servisse anche ad asciugare.

La bambina amava le notti dell’inverno pesante, fin dai riti della sera.
Si poteva chiedere il gioco delle orecchie fredde, prima di andare a dormire.
Nonno consenziente, disposto a farsi un paio di giri attorno alla casa, per portare il gelo dentro. Bellissimo gioco quello di addormentarsi cincischiando le orecchie raffreddate dall’aria di galaverna, fra l’indice e il medio, con la carezza del pollice.
Bellissimo gioco quello di inventare il respiro trattenuto e la testa dolorante.
Si poteva chiedere posto nel letto mezzo, nella stanza grande.
Si poteva ottenere anche il gatto, in fondo ai piedi. Piangendo piano per un po’ (a singhiozzi appena bisbigliati).

Eppure, nelle notti dell’inverno pesante, il tempo cadeva strano anche nel letto mezzo : e le ore di ‘prima’ si confondevano con le ore di un altro ‘prima’, e il gatto in fondo diventava una mano di osso che trascinava, trascinava giù, in basso, lungo una scala che perdeva i gradini. E la scala che perdeva i gradini diventava una strada senza sassi in discesa: la bicicletta non aveva più ruote e la voce moriva senza riuscire a chiamare.
A quale ora la strada muta si faceva pioggia contro le finestre o pozzo con la fiamma dentro?
La bambina era dritta nel letto, con la voce che non tornava e la stanza che si stringeva attorno.
E allora vedeva.
Dallo sfiato della porta entrava la fiamma.
La fiamma era un brandello di carne appesa, una spalla con il braccio, un braccio amputato, senza una mano.
Faceva paura quel corpo monco e acceso e penzolante.
Verranno le formiche rosse, perché dove c’è la carne ci sono le formiche rosse, come attorno all’osso del cane, pensava la bambina.
E le formiche salivano sul letto e s’infilavano sotto le lenzuola, camminavano lungo la gamba che sembrava fredda all’improvviso, mentre la carne continuava a sbattere a sbattere. In alto, all’altezza della porta.
Verranno anche le vespe, pensava la bambina.
E le vespe ronzavano ed erano quelle dell’orto, ora vespe d’inverno col pungiglione di gelo.
Il tempo restava un nastro nero, squarciato di rosso carne.
La bambina sentiva il peso della stanza addosso.
Tutta la stanza coricata sul letto.
Nell’unità indistinta.
Nel fermo lungo che non ha ‘prima’ e non ha ‘poi’.

Solo la mattina metteva le cose a posto.
La madre toglieva dai raggi dalla stufa la camicia del padre, non più rossa per il riflesso della stufa.
Bianca e asciutta.
Sparivano formiche e vespe.
Il tempo tornava alle campane e si muoveva sulla sveglia.

Alberi

08 giovedì Nov 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 9 commenti

Di fronte alla strage di alberi di questi giorni mi è tornata alla mente una vecchia scrittura. Era nata da una conversazione con una cugina cara, che mi raccontava della sua bambina. Matilde, un giorno, le dice ” hai un albero sulla fronte”,   un albero di piccole rughe, forse una nuvola scura, un pensiero a grinze, una piega improvvisa …

Mi ha intenerito questa immagine vegetale che ferma, diventandone stampo, uno stato d’animo di passaggio.
Ho pensato, allora, a quante volte alberi, maternità e infanzia percorrano insieme un tratto di significato e stringano un patto.
Così, senza preavviso, è risalita in superficie una poesia, che se ne stava annidata a far granaio da qualche parte.
E’ di Sergei Esenin.
Là dove il sole sorgendo innaffia
con acqua rossa le aiuole di cavoli,
un minuscolo acero succhia
la verde poppa della madre.
C’è un acero minuscolo “là”, in un punto senza nome e senza estensione, un punto che riassume l’orizzonte e annoda cielo e terra, due “maxima” spaziali, senza soffocare ciò che è infinitamente piccolo ed esile.
Compendiati in un unico ciclo vitale, tornano tutti gli elementi della natura, che rinuncia all’abito da festa per essere soltanto campagna, orto di cavoli, luogo-casa di cura e nutrizione.
E qualcosa accade, infatti.
Arrivano i colori, a rafforzare il senso delle cose.
Il sole presta il suo rosso, ovvero la sua luce.
La terra presta il suo verde, e quindi la morbidezza dell’erba.
Delicati, amorevoli transiti.
Nel dono il sole diventa acqua, la terra diventa madre.
Il “minuscolo acero” entra nel gioco e si fa lattante che succhia dalla “verde poppa” questo fluido passaggio delle qualità, questo cedevole trasmutare degli aspetti.
Assorbono la scioltezza del cambiare, gli alberi.
Sanno essere crocevia di mondi e di scambi.
Come i bambini.
Per questo da loro si lasciano riconoscere, anche su una fronte.

Sono tante cose gli alberi: non si ricostruiscono. Quanta maternità si perde, insieme a loro…

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