• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: dicembre 2006

Storie

27 mercoledì Dic 2006

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 68 commenti

(racconto sul racconto)

Lo ripeteva sempre: non amava le storie complicate.
Quelle hanno bisogno di sfondi e congiunzioni, di partenze e ritorni, di colpi di scena, pure retroattivi.
Plot al sapore di saga.
Per questo soppesava i libri dall’esterno, con sguardi misuratori: smilzi, solo libri smilzi.
Magari blu.
Di dorso.

(i libri blu e stretti spariscono appiattiti contro il bordo della libreria: si stringono senza invadenza. Non possono contenere storie che s’ingarbugliano di meandri)

Nelle storie complicate accadono troppe cose, fra copertine color bordeaux.
Chi legge ha d’avere cuore in eccesso e occhio, anche.
Tanti personaggi a fare fitto nella trama.
E slarghi: le storie complicate hanno sempre una curva del destino, uno spiazzo per parcheggiare una scena grande.
E allora, allora poi tocca cercarli nella folla, i personaggi.
Collocarli è niente, è il seguirli…, ché poi si perdono di vista, fino ad averne roso il cuore.
E il curarli… Curarli è difficile.

Nelle storie complicate ci vuole del bel tempo.
Per fare cadere le cose. Le cose van preparate: c’è bisogno di quello che accade prima e di quello che accade dopo, c’è bisogno del “durante”.
Occorre tagliare e ricucire, far collimare i bordi e togliere togliere togliere.
Il personaggio va a letto la sera ed è già mattina. Settimane costipate in tre righe, punto e a capo.
Storie collezioni di sabbia.
Erosioni di pietra pomice.

(dove vanno a finire i brandelli di storia non narrata? Le notti dormite dei personaggi, le pause nella vasca e i viaggi, volante fra le mani e canzoni a pezzi nella gola? Dove vanno a finire le ore con la testa fra le mani? E le attese e i dialoghi taciuti e le maledizioni dentro gli occhi? La giacchina ben lisciata sul petto dalla contessa, prima di uscire, ore cinque…)

Pensava, il ragazzo nervoso pensava, di fronte alle copertine bordeaux, spesse di vite.
Pensava agli scampoli di storia gettati al vento, per far posto a tutto, a tutti.
Scampoli lasciati lì, a girare nell’aria in cerca di un contatto, filamenti di storie, sbattute come preghiere tibetane.
Brusii vaganti filanti silenti.
Fi-lamentosa voce delle storie a brandelli.
E personaggi dimezzati e contratti, con parole mozze e pensieri a seccare.
Nelle storie complicate, a furia di tagliare, si va a cataloghi di esistenze, si corre, diocomesicorre.
Nelle parole, pesanti del taciuto.

Lui, il ragazzo nervoso l’aveva bene in testa la storia giusta.
Giusta.
Una storia da libro blu.
Una storia in cui non accade nulla.
Solo un gesto, un unico gesto che si compie nell’immediatezza e pianta la sua differenza, foglio sottile che separa la risma.
Una storia in cui niente si trasforma se non nell’impercettibile, nell’indicibile, nell’intrattenibile: nella lentezza del mimo che allarga la bocca nel sorriso di un pianto prossimo.
Cogliere il momento in cui avviene il passaggio di una consegna o l’affidarsi segretamente ad un altro destino.
Sorprendere la vita nel cambio di turno.
La pelle che tradisce la ruga.
La mela verde che diventa rossa.
Il petalo che si aggrazia nel dolce di una curva, staccandosi dal boccio rigido.
L’attimo del grido che si spegne e diventa silenzio.

La storia di un solo, unico volto che si gira piano piano piano (lieve torsione del collo, capelli indecisi un poco sopra le spalle, ondeggiamento compatto e fluido nel gesto) e dà il suo profilo alla luce.
E il profilo, di colpo, sicuro, dentro la vita, per sempre.
Come una fenditura.

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Stelladiana

14 giovedì Dic 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 94 commenti

A saperlo, che i nomi trasportano un  destino e tirano il  viaggio di qua e di là  (più di un’armonica fra i salici, più del muschio sui pioppi), chi li darebbe mai.
Chi li darebbe mai…
A saperlo, il male di una parola regina o fata, sulla pelle di chi succhia fatica e latte…
A saperlo.
Ma tant’è.
I nomi arrivano di guizzo, come la brina.
Li provi nell’aria, li covi nel lenzuolo, poi li leggi sotto a una figura o nella marca di un cappotto e li decidi in fretta, davanti all’impiegato. Come accadde al Vittadello, che si portò in vita il peso della prima giubba, comprata bell’e fatta da suo nonno, in quel negozio grande.

Ma chiamarsi, per dote, Stelladiana, e aver la pelle fresca e i piedi scalzi, essere belli che la metà bastava, pure coi panni smessi, non era un bel regalo.
A questo non aveva pensato, il padre.
Il nome, il nome se l’era tenuto stretto fino all’ufficio dell’anagrafe, detto neanche alla moglie.
Perché lui, coi nomi, ci sognava.
Il primo era cascato giù da un libro, che il prete aveva chiuso in fretta (rosa di carni forti).
Ed era andata male: chè il Rubens, il figlio ragazzo, era finito a capofitto in un mulinello di Po. In quei bagni sirena che d’estate intrappolano le gambe e picchiano lo stomaco. E non c’è verso di venirne fuori.
Per la bambina nuova ci voleva un nome altro, che fosse via dall’acqua, via via via.
Che se poi c’era dentro un po’ di cielo, meglio ancora.
Il cielo d’estate sta all’asciutto.

E la Stelladiana bene lo sapeva: il suo era un nome luccicoso.
Stava d’incanto coi suoi occhi neri e stava di schifo con i panni da strizzare e stendere sopra il medicaio. Stava di schifo con la fatica del mese che allungava il conto, giù in bottega.
Era un nome che diceva “Vai!”: c’era ben da tenergli dietro, in qualche modo.

La Stelladiana andò con l’uomo che custodiva il treno.
L’uomo aveva un buon lavoro, ma era selvatico come le anatre di passo, chiuso di malinconia gelosa, che scioglieva nel vino, all’osteria. Non nel petto della sua sposa bella.
Sposa di fretta, neanche con il velo.
Sposa che nessuno aveva da vedere, sposa da nascondere, poi, fra cime di granturco e siepi di ricino, nella stazione morta di campagna, senza persone intorno.
Sposa bambina da chiudere con la mandata doppia, a sera.
Sposa da spegnere coi grembiuli, perché neanche lo specchio avesse da goderne.
Con parole grosse.

Per lunghi anni la Stelladiana sembrò dormire nel suo torpore grigio; solo guardava il treno che passava: una fermata una, il giorno del mercato grande, lì vicino.

Fu svelta e silenziosa a salire sul vagone, quel mattino.
La bellezza se n’era andata via, ma il nome aveva detto ancora “Vai!”.
Le scarpe del marito nella borsa, buttate più in là dal finestrino.

Esoneri

04 lunedì Dic 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 61 commenti

Ci si lascia convincere, qualche volta, a brevi incursioni fuori territorio.
Dagli amici.

Fra certe colline vicine, basse e piallate, per via delle vigne.
Colline indecise fra il restare a terra o prendere un po’ di slancio.
Con macchie di ruggine a mezz’aria.
Quest’ inverno, che non viene, consente indugi di sole falso e foglie d’ottone. Son rimaste quelle delle querce, fra i vapori. I pioppi se le son giocate al vento.

L’aria è dolce, come quando si dice ‘è l’estate di san martino’.
Anche l’iperico inganna.
Col suo giallo lucido, di ranuncolo cresciuto.

È fra curve e vecchie corti coi muri, il posto.

La stanza è alta, travi scortecciate.
Assorbe chiacchiere, parlate e rumori di stoviglie: li porta su con becco di cicogna, poi non li tiene.
Sui tavoli cade a onde questo gorgogliare diffuso e ineguale, che sa di vino cabernet, di ossa di maiale, che appannano i vassoi, e di rosario: portate in fila indiana e tiritera recitata dalla cameriera.
Non si sceglierebbe, pur di stare a sentire e rimanere ostaggi di questo tepore parlottato.
Intorno, in alto, ovunque è cadenza di morbido dialetto  in cantilena: è nuvola di bombici. Non greve, non greve. Solo qualche schizzo acuto di risata, ogni tanto.

Il pensiero è in esonero totale.
‘Vivere vorrei addormentato/ entro il dolce rumore della vita ’ suggerisce il poeta.
Così è. Un cedevole galleggiamento.

“Ghe darìa un baseto”, mi dice un signore anziano, coi capelli bianchi, al tavolo vicino alla porta.
Sarebbe sicuramente un bacio a elevato tasso alcolico.
Sorrido, mentre un braccio protettivo mi orienta verso l’uscita.

Si sta bene.

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