• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: agosto 2006

Occhi, ovvero le storie di piazza

30 mercoledì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 31 commenti

Ci son storie fatte solo di occhi e di cenni velati.

Si consumano senza parole al Caffè della piazza.
Tavolini con l’anima di ferro e la mano aperta di fòrmica: i vecchi, padroni delle mattine, poggiano bicchieri e affilano sguardi, fingendo interesse ai giornali.
Tagliano, candidi, ogni donna che passa.

Un bel nastro, quest’ansa di strada dentro la piazza, quasi in bocca al Caffé.
Scorre veloce di biciclette, su gambe cui manca la stoffa, ma non il pudore, sussulta a falcate di imperiosa bellezza, s’increspa di suole ciabatte, a strascico di una borsa della spesa.
Un bel nastro di forme, la strada.

I vecchi approvano con occhi golosi certe fresche rotondità, certe volute di fianchi che apron le vite, scuotono la testa ricordando antichi splendori e virtù difettose.
Avevano bottega e negozio, tenevano la terra e la stalla.
Adesso seguono passaggi e passeggi, tenendo il conto di andate e ritorni.

Potrebbero raccontare di camporelle e di balli in Colomba, fra madresilvia e odore di ciance ( taglio fresco del barbiere e piega stirata dei pantaloni).
Ma non dicono.
Ché il silenzio fa viaggi di dentro, sceglie musiche e volti. E tanto è già stato detto.

La vita è tutta negli occhi, ora.

Di ogni muto “vorrei” non va persa neppure una goccia.

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La vecchia dello stallo

26 sabato Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

≈ 24 commenti

Qui da noi c’era una vecchia minuta, dai modi gentili: capelli raccolti con l’onda, incarnato di cera giallina, caviglie un po’ grosse.
Mai un tono più alto, mai una nota nervosa o una parola di troppo.
Restava padrona della casa dell’angolo e signora del muro che costeggiava la strada, con gli anelli di ferro scurito.
La pietra grigia cintava bocche scure e sterrate, tettoie aperte e antri senza porte. Un tempo il marito, lì, dentro e fuori, ospitava carrozze, cavalli e carretti. In odore di cuoio, di corda e di fieno.

Ma il tempo si mangia cose e persone.

La vecchia minuta reggeva, in deboli solitudini.
Ora, il giorno di mercato, camicetta bianca con spilla sul petto, davanti al portone apriva un banchetto: scatola di ferro, biscotti osvego, come scrigno di numeri.
Ospitava biciclette, nel vecchio stallo, senza  più carrozze, cavalli e carretti. Senza più signori e contadini col cappello.
Biciclette.
Con bella maniera, ordinata e pensosa, da guardarobiera dell’Opera, le prendeva in consegna, decideva sicura uno spazio, legava con lo spago un numero al manubrio, e in perfetto italiano diceva : consegna prima dell’una, altrimenti…e le mani disegnavano un segno imperioso, di perfetta regia.

Ché si è regine di dentro.
E i modi restano.
Anche in mezzo alle ortiche.

Comunicazione

25 venerdì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 20 commenti

Ecco, Irene, la gentile responsabile di Korovabar, mi ha comunicato la tempestiva cancellazione, dal blog di Mescalina, dei miei post, copiati e scorrettamente auto-attribuiti.

Resta il problema aperto, per noi blogger, del capire quali siano le forme migliori di tutela dei cosiddetti “prodotti di ingegno”.

Ancora un abbraccio a voi, amici, per il modo protettivo e affettuoso con cui mi siete stati vicini.

Grazie

zena

(di certa Mescalina)

24 giovedì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 44 commenti

Cari amici di blog, mi capita una cosa sgradevole, davvero sgradevole.

Per ritrovare con facilità un mio vecchio post del settembre 2003, stasera digito tre parole del suddetto e… certo che lo trovo, il vecchio post, …ma , guarda un po’, assieme a TANTI ALTRI MIEI VECCHI TESTI, pubblicato a nome di certa Mescalina.
(digitare il seguente indirizzo per crederci http://www.korovabar.it/crea/prosa.php?id=485&p=1
li riconoscerete con facilità)

In qualcuno (in altri neppure quella) compare la dicitura “Pesci di nebbia”, ma l’attribuzione è sempre riferita alla stessa “autrice” Mescalina.

Non c’è il minimo riferimento al blog da cui sono stati prelevati tout court.

Ho segnalato la cosa alla redazione del sito: redazione@korovabar.it
Dite che sia il caso di riprendere in mano il problema della protezione di quanto scriviamo?
buona notte
zena

I giorni del silenzio

22 martedì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 24 commenti

…

I giorni del silenzio hanno l’ovatta intorno.
Non chiudono, ma neppure aprono.
Arrotondano.
Premono contro la vita ma non sono la vita, come certi imballaggi preventivi, che solo tolgono aria e asprezza, in regime di parità.
Imbalsamazioni domestiche di spigoli e dolzure.

I giorni del silenzio proteggono un segreto o filano una paura.
Si arrendono ai pensieri rampicanti, che salgono lungo le certezze, bussano alle finestre, battono ai ricordi, complice il vento, poi si allontanano, all’invito di una ringhiera.

I giorni del silenzio fanno nido in altri giorni, come il cuculo.
Corrono avanti, cancellano il già stato, mettono in croce coscienza e speranza, in parti uguali, poi scuotono il grigio e tornano al presente, in nebulose chiare.

Restano sospesi.
Nella timidezza del racconto.

Bronco selvaggio e bollicine

17 giovedì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 48 commenti

Io mi ammalo all’improvviso e nei momenti meno propizi.
Per le festività importanti, ad esempio.
Tutti a divertirsi e io in pigiama, sguardo fisso sulla tisana e intermittenti occhiate meste a chi mi vive accanto.
A cena indetta o ad appuntamento atteso e prefissato.
Telefonate vergognose per disdire, sempre in odore di scusa menzognera.

Adesso ho la bronchite. Fuori stagione. Ad organetto. Con accompagnamento musicale del raffreddore e del tamburo – testa vuota.
La tosse sale da profondità ingombre, che non riconosco: che abbiano aperto un pub fumoso nel mio bronco sinistro? La vedo già l’insegna: “Al bronco di Z.”
È un dubbio che viene, nella notte.
La voce, di suo, non collabora: si è arroccata su toni cupi e alquanto sinistri. Per illudermi, l’infama, ogni tanto parte quasi normale, poi tracolla e si affloscia: mi lascia così, senza fiato.
Mon mari mi suggerisce un interessato “Riposala, riposala… Riposati”.

Ma io…
Io ho imparato una ginnastica per alveoli.
Me l’ha insegnata un’amica, un’amica che mi cura spesso con creme al cavolo, con tè balsamici, bagnoschiuma, simili a inalazioni boschive, e caramelle buonissime.

Io mi farei sempre curare così.
Anche con le erbe magiche di un altro bon ami lontano.

Allora ho preso un bicchiere alto, molto alto e l’ho ragionevolmente riempito di acqua.
Ho immerso una cannuccia (lilla, per la precisione).
Ho cominciato a soffiare piano piano e in modo prolungato.
Non so se ho respirato meglio.
Forse sì.
Certo hanno respirato meglio i miei pensieri, ipnotizzati dalle bollicine in gorgoglìo.
Tutte diverse, tutte in corsa centrifuga.
Alcune a botte e a mongolfiera, cupole e campanili…
Certe piccoline e brulicanti in forma di mora, attorno a uno spruzzo a cattedrale, verso l’alto.
Una bolla a balena, un’altra a delfino…
E, ancora, a cloclò, come certe stoffette leggere dell’infanzia.

E io a soffiare, come una bambina.
A sorridere anche (e con fatica), perché ogni cosa insegna e dice.
Ad uno stesso stimolo risposte differenti, pari lo spazio ed il momento.
Scoperte da bicchiere.
Diamanti d’acqua e di respiro: morbidi e curvi, a prestito lento di pressione.
Stupore della varietà e della differenza.
Bollicine.
Pronte a svanire, come pesci di nebbia.
Quando tace il respiro.
E le cose tornano ad essere solo cose.

La Stelìna

11 venerdì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 34 commenti

Occorre pazienza con la lana da cardare, perché è tutta costipata e infittita.
Stoppa.
Come la coda di un cane spinone che ha preso la pioggia e ne ferma anche l’odore. Ma, aperta e ben pettinata, fiorisce bianca, in mano, e svapora; tiene dell’aria e del cielo, non della terra, non della terra e neppure dei suoi nodi duri.

La Stelìna, quella che abitava alla Stazione Porto, giù dall’argine, cardava la lana per i materassi e per le trapunte, sul marciapiede della stanza dietro.
Lavorava fuori, finché si poteva, perché la lana fa polvere, tosse e anche pidocchi, del caso.
Sotto una pergola di clinto che maturava strizzando la saliva e macchiando le mani e la bocca.
Lì stavano bene anche le ortensie.
La lana aspettava in sacchi imbioccolati e leggeri, poggiati contro il muro, con le ombre di verderame, che sa consolare le crepe delle case vecchie e le viti, in un solo colore.

La Stelìna lavorava seduta ai pettini coi denti di ferro, la schiena che dava al muro, così guardava i fiori.
Dalie, soprattutto.
Perché più in là, per uno strano gioco del sole  e dell’argine, c’era una luna di luce gialla giusta per le dalie: due file curve di bulbi che a settembre davano il meglio, barattati e impinguati d’inverno e messi a covare nella torba.
La Stelìna era la vecchia delle dalie.
Le davano burro e vino per il bulbo della dalia rossa che si stingeva ai bordi, quasi il colore non le bastasse per arrivare più lontano. Nel viale, lì vicino, tante avrebbero voluto i bulbi delle dalie arancio a nido d’ape, fitte come mammelle, o almeno quelli delle dalie rosa rosa che stellavano e tenevano una punta di giallo intorno al bottone.
A chiederle non diceva né sì né no, ma gorgogliava in gola una risatina di soddisfazione, che si perdeva in un pi pi pi di vecchio tacchino inorgoglito. E cardava di braccio svelto, dopo, quasi dovesse capitozzare un fiore appassito con un tocco adunco.

Dentro casa,  la luce era verdina come la banca dell’argine, con certe traversate di chiaro malfermo.
Non che avesse altre stanze, la Stelìna.
La camera interrata, che dava sul cortile, era la sua casa, dentro quella grande della donna giovane, malata.
Una credenza attaccata al letto e la finestra rugginosa, a scaglie piccoline.
Una fetta di casa in basso, intonacata all’argine, con tre radicchi.

La bambina della donna malata stava del bel tempo lì con lei.
A imparare il pastone per le faraone, il verso dei pulcini, il gioco a inferno e paradiso (carta a cappuccio sulle dita), mentre sua madre moriva, nella stanza davanti, al piano alto, per certe non volute simmetrie che il destino chiama a separar le sorti.
Il marito della donna giovane a far da fabbro sul davanti della casa, vicino alla cucina vuota.
La Stelìna a cardare la lana, dietro.
La moglie a morire di sopra.
La bambina a infilzare i luoghi, con la corsa. Porte spalancate e improvvise.
L’alto, il basso, il davanti, il dietro.
E i pensieri cucivano le diagonali, dentro il quadrato, salivano su per le scale, socchiudevano le finestre, cacciavano una mosca, guardavano la bambina e i pomodori, portavano un odore e un bicchiere d’acqua, piangevano, a volte. Piangevano.

Bastava allora far parlare il pettine con voce più alta, sul dietro, e tirare tirare con forza  i denti di ferro.
Bastava quello per non sentire i lamenti dell’alto e far cantare la canzone della lana che viene fuori leggera come le corna di una lumaca. E rotola per terra senza fare rumore.
Bastava  artigliare i biocchi di lana, graffiarli, scorticarli con la rabbia nelle braccia. Ferirli, stesi sull’asse coi denti in su, con gesti che scendevano e salivano, uguali e contrari.
Quasi fossero la malattia.

Ci sono giorni d’estate che le cose sembrano sagome di cartone col piede ripiegato.
Ferme ad aspettare che una palla di stracci le butti giù.
O un respiro.
E allora un verso di cornacchia o il fischio della bettolina in Po sono un sasso che gratta il silenzio.
Ché la vita o il suo doppio ha un modo di farsi sentire, aspro di susina verde e punta di ago.

Il grido arrivò breve nel silenzio seguendo la squadra delle scale: si fermò sotto il pergolato e lo abitò un momento. Disse delle cose.
Non erano ancora fiorite le dalie, neppure quella screziata di giallo, neppure quella rosa e basta.
E non era più tempo d’ortensie.

Bisognò insegnare alla bambina il gioco dei fiori di lana cardata.
Lì fuori.
La lana già pettinata, stemperata con le mani e premuta.
Così docile.
Dischi trasparenti e ovali.
E cordoni senza spine.
A fingere rose.
Rose rampicanti, per salire al piano di sopra.
Tiepidi fiori di mani lente a diventare un vestito, sul vestito che non cambia più.
Per salutare, non per trattenere.

Si sa.
Che la vita è una tela tesa su quattro paletti e, se un paletto non tiene, c’è niente da fare.
Se un paletto non tiene la tela torna indietro, si arrotola sugli altri.
E, in questo tornare, cosa resti dentro, appiattito e nascosto, non è dato sapere.
Ombelico segreto o grumo vivo, moscerino o bambina, poco importa.
Si sa che è da proteggere.

Occorre pazienza con la lana da cardare.
Un fiore di pazienza.

È la prima stesura di un racconto (‘A fiori’) comparso, a suo tempo, su Sacripante!
La Stelìna continuò a tenere la bambina, come fosse sua.
Perché la cura non è uno sforzo: viene da dentro e non conosce altra strada.

Report per un ritorno

03 giovedì Ago 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 44 commenti

I ritorni svuotano un poco.
E danno un senso di estraneità precaria, per qualche giorno.
Come se la casa ti riprendesse malvolentieri.
Sarà stata bene in tua assenza? Avrà respirato di sollievo? Tra scricchiolii notturni e dialoghi incontrastati fra polvere e divani…

Ora, calda fin nei muri, con l’ordine rassettato e frettoloso che le consegni alla partenza, chiede finestre aperte e la ripresa di un ritmo concordato. Non il tuo, non il suo. Un fare con pause, a fronte del ricatto di valigie colme.
Le pause van bene per lasciare che ‘l’appena stato’ salga in superficie, si fermi e dica.
Decompressioni.

È stato un viaggio bello.
In cerca di frescura, presentimenti di nebbie e grigi sfumati.
Si è trovato il sole, invece; il senso del sole fresco sulla pelle. E si è respirato il mare.

Ho visto tanto azzurro, fra i fiordi.
Un azzurro mai fermo, attratto ai bordi di altri colori: lucidi o smorzati.
Un azzurro che vuol dire luce: liquida nel mare, infeltrita nelle ombre delle colline, nel percorso lento verso il buio che non è mai buio, e poi, poi stupita e trasparente in cielo.
Un mare ragazzo, questo di Norvegia, poderoso ed energico, con gli occhi chiari, un cielo bambino, come lo immagini se l’aria gioca in purezza, colline materne e arrotondate, generose di abbracci.

Ho visto tanto verde.
Specchiato nei laghi a fare nero, come un’ onice mossa, acido (quasi dorso di raganella) in certi prati giovani, amico dei Troll nei boschi scuri, spalmato sui tetti delle case vecchie come vernice fresca: perché ancora, alcuni, sono di erba e di fiori, lì, su strati di corteccia di betulla.
Dormire sotto un tetto di ranuncoli e gramigna…Squittio di radici nella notte, srotolamenti lievi e risatine di fate. Avrei barattato un giorno per un’ora di sogni sotto il tetto…

Ho visto tanto bianco.
Ballare sulla punta delle schiume e degli schizzi, star fermo nei ghiacci, fiondarsi come sasso rimbalzìno nelle cascate che ruotano corrono saltano spruzzano e poi sciolgono la furia verticale nell’aprirsi piano del mare o del lago. Ha vita, il bianco, qui: è resistenza antica della neve che, sulla riva, non vuole cedere al mare e, sulla cima, non vuole cedere al sole; è irruenza giovane dell’acqua, lungo le pareti, fra rocce e massi. Per questo le valanghe hanno nome, e le cascate un’anima. Ci sono Sette Sorelle che scendono vicine nell’antro del fiordo di Geiranger, in nuvole d’acqua a velo di sposa, e un Pretendente solitario, che le chiama ad una congiunzione, dall’altra parte, inascoltato.
Gli elementi sono abitanti non censiti. Presenze e figure moltiplicate dai colori.

Ho visto tante isole, legate fra loro da strade di uccelli e di onde.
I pianeti del Piccolo Principe caduti in mare, per raccontare di un altrove, dove le case sono bianche e accrocchiate in alto per il Re, lunghe e basse per i rotoli del Geografo, con le luci accese per il Lampionaio, rosate e lucidate per far da specchio al Vanitoso, a volte un po’ scrostate e spente per l’Ubriacone…
Ora galleggianti, già pensi le isole incastrate nel ghiaccio dell’inverno, fra  spire concentriche. E di quel lungo buio senza sole capisci il silenzio.

Ho visto tante finestre, per il teatro della luce.
Con tendine a paralume, rigide e spostabili, per rapidi togli e metti.
Con gatti di legno, corna d’alce, lampade, bottiglie, sassi, fiori, conchiglie, barche in miniatura, libri, barattoli, cuscini, vasi di vetro, piantine in sospensione, affidate a giochi di corde, teiere di porcellana… Finestre bazar, a strati: fette di torta alta con la panna in cima.
Come se alla luce si offrisse il meglio della casa, si presentassero ospiti ed  amici: accoglienza profumata di cannella.

Ho visto tanta gente.
Era tutta al mercato del pesce di Bergen.
Tutta la gente di Norvegia.
Massaie e marinai, portuali e balenieri, boscaioli e falegnami, perdigiorno e banchieri.
Si era data appuntamento lì, fra pelli di lupo e salami di balena, fra gli odori del mare sottovuoto e delle spezie, fra insegne vecchie di legno e una confusione di famiglia.
Era in cerca di sapori e voci.
Si rosolava al sole e lo succhiava con gli occhi e con la pelle. Per conservarlo, come un tatuaggio.
L’ho salutata tutta, la gente del mercato, con un sorriso.

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