• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: ottobre 2008

Orti

28 martedì Ott 2008

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 44 commenti

Che l’orto di casa fosse lasciato a sé, senza una mano a squadrare cordoli e a drizzare paletti, era un dispiacere per tutti.
Uno spazio così grande, che pure confinava con la caserma dei finanzieri.

Con vista sulla ferrovia morta.
La Rosa miamamma ci pativa abbastanza.

Specie se guardava l’orto della vicina, che spolverava anche i fiori delle zucchine.
La Dina mianonna aveva un’idea poetica dell’orto e se l’era tenuto come un giardino: una fila di dalie e un rettangolo di insalata, una fila di astri e un rettangolo di radicchio rosso e così via, fino ad arrivare alle fragole in fondo in fondo, un po’ fuori mano, ma solo ad evitare tentazioni e cedimenti. Complice d’estro creativo era il vecchio Nèlo, un po’ giardiniere un po’ ortolano, che la seguiva con la carriola, cantando, curvilineo, “la vita è beeeella e me la voglio godeeeer”.
Fazzoletto rosso su collo in tinta.

Ora  che la Dina non c’era più, coi suoi sacchetti di semi attaccati alla trave del rustico e i suoi traffici di tuberi da fiore, sparito anche il Nèlo, nessuno qui aveva l’inclinazione.
Al massimo la cura del giardino davanti, di ortensie peonie e fior di vetro. Al massimo.

Dopo un periodo di entusiasmo per le anatre mute, progressive colonizzatrici di spazi assegnati alla lattuga,  sfacciatissimi pennuti cui non si aveva il coraggio di tirare il collo, la terra era rimasta improduttiva.
Una terra con le erbe crescenti e dure, con la vite che faceva quel che poteva e le prugne di Santa Rosa, che rifiutavano di maturare. Scendevano solo se oltraggiate da un verme, che schifavano sputando una resina giallina, in segno di rifiuto.

Quando le erbe diventarono così alte che andò persa la tartaruga, si decise che bisognava far qualcosa.
Mio padre partì per primo, col sacro fuoco del badile: partì alla lontana, per risalire alla causa prima, al motore immobile di tanto degrado.
Individuata la gramigna del cortiletto come colpevole in primis, iniziò da quell’incerta area di frontiera.

Andò a finire che, sistemati per bene i sassi, cacciata la gramigna e rifatti i dentelli di mattoni alle aiuole, per l’orto non ci fu più né fiato né fantasia.
Germogliarono spontaneamente le zucche con scenari fiabeschi e sembrò un segno del destino.

Si presentò la vecchia del latte, una mattina.
Lo vendeva nella casa alla curva della strada, in bocca all’argine.
E c’era da andarlo a prendere nel pentolino di alluminio col coperchio, perché sembrava uno sgarbo fatto alla vecchia prendere quello nella bottiglia.
Uno sgarbo grande.
Anche se era scomodo  tornare col pentolino pieno: non si poteva correre e neanche cantare né tanto meno ballare. C’era da camminare dritti e far finta di essere su una passerella.

“Ci si pensa noi all’orto – disse- e si fa a metà”.
La Rosa miamamma mica ebbe cuore di chiedere chi abitava quel “noi”.

La vecchia del latte venne il giorno dopo, accompagnata dal marito col bastone bianco e la voce buona, la mano sempre appoggiata sulla sua spalla.

Era bello vederli lavorare, vicini vicini, sulla stessa linea di terra da liberare. Un sacco sotto le ginocchia. Il vecchio riconosceva toccando erbe e foglie e sentendo l’odore sulle mani… E la vecchia gli diceva che sì, quella era menta matta da levare o un pissalet senza importanza.

Non si poteva stare nella poltrona a leggere e sapere che nell’orto si lavorava anche con gli occhi chiusi; non si poteva giocare e far finta di niente; neppure cucire alla macchina.

Con miamamma e il bambino, si usciva ad aiutare e ad ascoltare il vecchio che sapeva tutto e parlava quieto, spiegando le cose.
Ascoltava la radio. E la riaccendeva con la sua voce, fra malva e piantine di sedano.
Era la politica in dialetto.
Era sicuro che il mondo sarebbe cambiato, una volta o l’altra. Perché lui guardava avanti anche senza vedere. E che lo ripetessimo  anche a mio padre, la sera, quel che lui aveva sentito, alla radio.

Così si strappava l’erba, insieme. Si salvavano vecchie piante buone. Si zappettava per nuovi impianti.
E le parole del vecchio non avevano né rabbia né aceto.
Sembravano venire da un mondo dietro l’angolo, di lavoratori con la casa bella e calda, di alberi con frutti d’occhiali e libri.
Un mondo in cui nessuno sarebbe tornato a prender botte sulla testa da gente in camicia nera.
Tante botte, fino al buio.

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Le bambine dell’acqua

12 domenica Ott 2008

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

≈ 74 commenti

Aveva un che d’insinuante ortica, il freddo.
Una frusta a zig zag, nella notte che diventa mattina.
Cieli cinesi e cavi: solo infilzati dalla galaverna dei salici. E dal silenzio dell’aria pulita.
(Stelle vicine e lucidate)

Batteva ai vetri, il freddo.
Vi restava impresso con zampe di passero. E a sperderlo non bastava il palmo della mano.
Poi, unghia su lavagna, una bicicletta schiacciava i cristalli sull’asfalto. Uno sfrigolio croccante come, dopo una gelata, la voce di certi panni, scordati fuori ad asciugare.

Era a malincuore che l’Alida saliva su dal basso, dopo avere salutato il suo uomo.
Per la scala stretta del Macallé, che non era casa di ringhiera, ma formicaio di stanze e di destini, a riviera di strada.
Un’unica biscia di gradini, ripido spartivita fra sonni diseguali dietro le porte chiuse.
Le bambine dormivano in alto, sotto il tetto.
Di questo era contenta, l’Alida, quasi che il sonno venisse preservato da tossi e catarri di varia umanità, da ogni ascolto che fa pesante il mondo e toglie poesia: dai tonfi della Cuca, dallo slittare d’orinale sotto il letto, dalla macchina del sarto, che tartagliava scura per cucire la notte e rivoltarla…

Girava piano la mandata, per guardarle o prenderle così, ancora addormentate, testa contro testa. Un’occhiata d’indugio nel giro della stanza.
C’è da alzarsi per l’acqua, diceva a mezza voce.
Le bambine parevano arrivare da lontano, dal tepore del letto e del fustagno, col sonno spiegazzato sulla faccia, la treccia lasciata molle per la notte.
Non dicevano niente.
Le maglie e le calze infilate con gesti conosciuti.

La pentola d’acqua calda aspettava da basso, appena calata dal fornello.
La bicicletta in strada (asse di legno su forcella).
Il freddo prendeva gambe e mani, insieme al buio.
C’era da tenere ben ferma la bicicletta, e reggerla diritta finché la pentola non fosse sistemata.
C’era da avviarsi, poi, la bicicletta a mano: le piccole al manubrio, a portarlo d’ambo i lati come chierichetti a fianco della croce, la madre attenta all’equilibrio di quel cuore fumoso d’acqua calda.
Passi  brevi a puntare strada e cielo, in processione lenta, senza né petali né santi.

L’arco di Zaccaria era grigio: soffiava di un vento che cercava i vestiti e li vinceva.
Il camion giallo e rosso allungava il muso già scoperto, ché il padre di corsa era andato a togliere coperte e a raschiare il vetro.
Brave, avrebbe detto di certo alle sue donne, dopo avere colmato il radiatore.
Brava, che non le hai lasciate sole.
La moglie versava intanto l’acqua rimasta, nella latta: le bambine tendevano le mani sul vapore, poi la spingevano sotto la pancia del motore. E stavano chinate ad ammirare.
Quel poco d’acqua capace di svegliare un bestione incantato, scioglierne il sonno come un bacio di principe nel bosco…
Il grasso gocciolava lento e si allargava in cerchi un poco scuri.

Bicicletta poggiata contro il muro, ché sarebbe servita all’uomo, poi, la sera.
Madre e bambine tornavano a piedi, al Macallé ancora addormentato, la tosse del camion sempre più lontana.
Battevano le quattro.

Il latte nella tazza aveva la schiuma delle cose buone.
Orlo di casa, dolce.
Porto di lana, chiara.
La testa poggiata sulla tavola, a succhiare un altro po’ di sonno.

(dedicato a E., la mia amica dell’acqua)

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