• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: agosto 2009

Tutta colpa

22 sabato Ago 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

≈ 34 commenti

Tutta colpa di quelle foderette.
Nate per cuscini gonfi, con piuma in esultanza: orlo a giorno fine di  pazienza, rado come le chiese di pianura.
Tessuto di telaio molto bello, disse la cognata, e pure sostenuto: bisogna farci dentro un gran vestito.

La Iris con l’ago faceva meraviglie ed era nota per un taglio così esatto che la veste ti nasceva addosso senza neppure una pince di salvataggio. Le spalle, poi: diritte, anche senza imbottitura. Grande perizia di conti gestativi, calcoli col lapis sulla squadra, con l’occhio ai numeri in cartella. La sagoma di carta disegnata, nell’estro perfetto del momento.
Poi, la stoffa trafitta da gessi e da spillini, docile distesa sulla tavola.
E il rumore di trancio delle forbici, sicuro come un’esecuzione.

E’ sarta diplomata, di scuola SNOB, Torino, annuivano le amiche, che in coro compitavano a rosario, di dito in dito: Signorilità, Nobiltà, Originalità, Bellezza…
Doni di un altro mondo che arrivava per posta  sotto le spoglie di un giornaletto rosa, miniera di modelli tratteggiati e di silhouettes moooolto parigine.

Dire alla Rosa facciamoci un vestito era come invitare un’oca a bere. Forse di più.
Però.
Era sposa fresca, fresca d’aprile, e aveva portato poca dote.
Già la Dina so madona era stata di sbieco a vigilare sui bauli in transito, di sopra: non era contenta, no, di vedere solo vestiti, tanti bei giacchini (pure col pelo di coniglio), ma lenzuola sotto la dozzina,  resti di mature vedovanze degli zii di casa, col giallino che chiedeva varechina.

La Rosa si faceva un po’ vergogna, in quel maggio già caldo, a sacrificare due belle foderette.
Ma la Iris in testa aveva già il vestito. Stretto in vita, dunque malizioso, ma castigato da una mantellina che si chiudeva al petto, restando un po’ discosta. Una mantellina dentellata con il filo rosso, per disperdere eccessi monacali.

Galeotto fu il dentello di viva tentazione: la Rosa disse sì e senza pentimento.

Le foderette non conobbero mai il letto, ma fasciarono vita e fianchi con gran soddisfazione, sotto lo sguardo severo della Dina, che guardava la dote assottigliarsi come la sfoglia sull’asse di cucina: le nuore in complotto modaiolo, mentre nell’acquaio i piatti chiedevano sapone.

Al mercato di Revere la Rosa andò  in corriera col suo marito nuovo e il vestito bianco coi dentelli.
Contenta di quella diversione che un poco almeno compensava un viaggio di nozze mai avvenuto.
E decisa a rimpinguare il tolto: le mance dell’ufficio a questo potevano servire, a comprare della tela buona, per la tavola ed anche per il sonno.

Non lo avesse indossato, quel vestito, mai avrebbe capito quanto le cose chiamino a gran voce, con una prepotenza che toglie ogni rigore e sa essere forte di catena.
Seppe, invece, quasi con stupore, che un filo rosso, un filo di cotone, è un laccio di colore per certi  sandalini, di pelle a strisce e pure con la zeppa. Un laccio che non ignora neppure la borsetta (una trousse, per essere precisi).

Meno male che non ho promesso niente, si diceva la Rosa, mentre guardava il trionfo fiammante dei suoi piedi e l’espressione felice del suo uomo.

 (A tutte le  donne care di casamia, proprio a tutte)

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Il bambino dei capelli biondi

11 martedì Ago 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

≈ 28 commenti

In fondo non era così strano che la natura si lasciasse andare a un gioco di colore.
(Negli occhi di una vecchia, un fragore d’azzurro a tradimento)

Così, fra pelli d’oliva un po’ terrosa e capi di passeri arruffati, quella testa bionda di bambino.
Riccia.
Come le foglie del salice, col nervo d’elastico tirato.
Orgoglio di sua mamma.

E bastava restare al sole, provare una fionda contro un nido, svirgolare un sasso a filo d’acqua, a Po: i capelli parevano sbiancare, quasi stoppa, quella avvitata ai tubi, golosa di ogni goccia.

Il bambino non li voleva più, quei capelli che scendevano giù, fino alle spalle.

Maschio maschio, mica ‘na bambina, bisognava sempre dire sul mercato, quando le donne allungavano carezze con un beeella da scheggia sotto l’unghia.
Avrebbe fatto vedere qualche cosa, se non fosse arrivato lo strattone della Nellj, frettolosa.

Il bambino non li voleva proprio più, quei femmini capelli.

Allora vatteli a tagliare, disse la madre asciutta, una mattina.

C’è che, con i soldi in mano, uno si sente re.
E il barbiere stava proprio in piazza, a una svolta forse di destino.
E prima, prima c’era la Ghelfa, con la sua bottega e con la sua vetrina, una vetrina con la carta traforata, senza cacche di mosche e moscerini: galletti di zucchero a fischietto, disoccupati di nera liquirizia, confetti appena un po’ appannati e un angelo, appeso per le ali, intento a custodire tanto ben di dio.

I soldi non c’erano già più.

Per guadagnare casa, poi, si camminava piano, un po’ cercando i sassi con la punta per sentirne il male sotto il piede e sfondare la suola compromessa, un po’ sedendo sul muretto a mangiarsi ben la cioccolata, che andava leccata fin sulla cartina, bianca di dentro e fuori di stagnola.
Perché la cioccolata questo regalava: l’odore intorno, a benedizione, morbidezza di lingua e di palato, e il gioco di scrostare con due dita la pelle d’argento dalla carta, fino a trovarsi una lamina croccante di tesoro. Da stendere con gran soddisfazione, cancellando le rughe dal nitore, col piacere dell’appiccichino che restava a lungo sulle mani, a memoria del gusto e del profumo.

Arrivò in casa con unghie lunghe di stagnola, a mo’ di confessione.
Ai capelli pensò la madre, giustiziera: due colpi di forbici arrabbiate, tre scopaccioni in basso,  per via dell’equilibrio, i riccioli in pugno da buttare subito, visto che.

La strada dell’esilio offeso  passava per la porta.
Il bambino uscì col collo rosso, vuoto all’improvviso e con stupore, come il suo orgoglio ora un po’ scheggiato.

Nessuno lo vide a mezzogiorno. E pure c’era la pasta con il tonno.

A sera la madre andò a chiamarlo in brolo, a cercarlo nella mezza luce.
Lo trovò che piangeva, tutti i singhiozzi in gola, sui suoi capelli tronchi, sparsi fra bucce di cipolle e fondi di radicchio mollo.
In tetto al letamaio: biondo trofeo e berlina casalinga.
Fra piccoli bagliori.
Con tocco di poeta, aveva sparso strichetti di stagnola, farfalline d’argento, fra riccio e riccio.
Briciole di funerale, al sapor di cioccolato.

Il Leo

04 martedì Ago 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 17 commenti

Erano così quiete le giornate di luglio, impastate di lentezze infinite.
Le cose, nel pomeriggio, sembravano figure di cartone col piede ripiegato, in attesa che una palla di stracci le buttasse giù.
Niente corpo. Leggere di colori, nella loro immobilità.
E se da strada un urlo lungo di cornacchia o di bimbo di colpo batteva la stanza, solo allora l’attesa sussultava, ferita.
Tutto tornava carne.
La vita, puntuta, ha il suo modo di farsi sentire, aspro d’amarena o ago di suono.
L’aria che avvolge i pensieri scoppia e non c’è più la confidenza sonnolenta fra il dentro e il fuori; il dentro si ritrae, impaurito.

Il “su andéma” della Dina era la scossa nervosa, che pungolava il dopo-mangiato  e rompeva i conversari svagati e un po’ intorpiditi che legavano alla tavola.
Prima del letto e del riposo stavano i piatti da rilavare e riporre.
La casa, già calda, bolliva per l’acqua che si voleva fumante e le due nuore di fretta, nello  stanzino, lavavano, finalmente d’intesa, e asciugavano i piatti.
Gli altri potevano, secondo contratti e bisogni,  usare il tempo del pomeriggio…
Ma chi poteva avere il coraggio di svenare il silenzio, che a cordoni stringeva la casa?
Il silenzio scendeva di colpo anche fuori, migrava leggero e aveva qualcosa di trattenuto: non era assenza, non era vuoto, era un esserci a bassa voce, di rimbrotti e risatine chiocce, come se dal volume dipendesse il tacito accordo del viale.
E il silenzio portava la frescura di finestre accostate, di porte con un filo di sfiato.
Niente più voci, zitte le radio sulle ultime note di Capodistria, niente più piatti e ciabatte veloci.
Un silenzio arancione.

Forse per questo, decimata dalla colonia e dalle fughe presso i parenti, la repubblica delle bambine viveva i pomeriggi di luglio come un’occhiata interminabile.
Dopo, si poteva giocare.
Ma prima…, prima si era occhi.
Quando il caldo era troppo appiccicoso perfino per leggere, quando il sole era così invadente da portare fin davanti a casa l’odore delle cipolle marce della stazione – porto, si accettava lo statuto del silenzio e sui gradini di casa o sulla scala di marmo dei veterinario si lavorava di occhi.

C’ erano soprattutto i bagnanti, da guardare, che usavano il viale come  scorciatoia per raggiungere la spiaggia di Po; sull’ora del sole caldo, scorrevano donne con sporte rigonfie, sgabelli di tela, tende e bastoni e tanti bambini, propri e affidati, pronti a rubare al fiume la parvenza di un mare povero.
Nel viale non tutti andavano a Po.
Non c’erano molti adulti consenzienti a restare sulla sabbia calda e a urlare preghiere e sgridate.
Il Po faceva paura.
E innervosiva le donne, ridacchiava mio nonno…

Noi bambine, poi, avevamo ben altro da fare.
C’erano i morosi da guardare, quelli veri e quelli pensati.
Intanto si spiava la partenza dei più grandi  per il Po, quelli che potevano andare da soli e che mai si sarebbero portati dietro i piccoli. E poi, e poi…
E poi c’era anche chi, fra i grandi, non andava a Po.
Il Leo, il più bello, si sdraiava sui tronchi scortecciati che occupavano il cortile della segheria, torace nudo e calzoni corti.
A occhi chiusi e le braccia incrociate dietro la testa.

“Come è fatto bene”- diceva piano piano la bionda, che ci guidava a passi felpati vicino alla siepe di confine, che separava il giardino del veterinario dalla segheria.
I bossi e gli ireos tagliavano l’intero, ma, fra rami e spade, lui si poteva ben vedere…
“Sembra Mercurio”- dicevo io, che non avevo molti termini recenti di paragone.
“Ma va làààà”- insorgevano le altre che fingevano di essere più documentate.
“E’ tutto Gregory Peck” – faceva la Cri, che andava sempre al cinema dal prete.
“Però ha i ricci”- diceva l’altra.
“E allora è Gregory Peck coi capelli ricci. Io l’ho visto coi capelli ricci in un film”- mentiva la Cri.

Fra sospiri e gomitate si guadagnava a turno la postazione di spionaggio.
E le ginocchia, a stare sulla ghiaia, si bucavano e assomigliavano a spugne arrossate.
Lui, il bello, succhiava il sole con tutta la pelle e si tirava, lucido, per non perderne neanche un po’.

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