• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: gennaio 2006

Apprendistato

27 venerdì Gen 2006

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 85 commenti

(primi rudimenti della grammatica della notte, in forma di racconto)

Le notti dell’inverno leggero erano scaldate solo dai respiri.
E da certe padelline di ferro arrugginito, con le braci dentro.
Poggiate dentro una nicchia di legno, che teneva sollevate le coperte del letto, sgelavano le lenzuola, regalando un uovo di tepore, col profumo del fuoco.
Non sfacciato.
Solo riflesso, nelle cose.
Ma le notti dell’inverno pesante avevano bisogno d’altro, perché la rampa delle scale succhiava il vento da fuori e lo sputava dentro, con certi mugolii nel vuoto che sembravano presenze.
Allora la notte era scaldata da una stufa a carbone.
Pettoruta e arrogante.
Posta a guardia del piano alto.
Una stufa dallo sportello a molla, rumoroso e avido di cocke a pezzi grossi.
Spandeva una circonferenza regolare di calore e i raggi si aprivano in un punto preciso del tubo come un ombrello che ha perso la tela.
Per i panni.
Perché il fuoco servisse anche ad asciugare.
La bambina amava le notti dell’inverno pesante, fin dai riti della sera.
Si poteva chiedere il gioco delle orecchie fredde, prima di andare a dormire.
Nonno consenziente, disposto a farsi un paio di giri attorno alla casa, per portare il gelo dentro.
Bellissimo gioco quello di addormentarsi cincischiando le orecchie vecchie, raffreddate dall’aria di galaverna, fra l’indice e il medio, carezza del pollice.
Bellissimo gioco quello di inventare il respiro trattenuto e la testa  dolorante.
Si poteva chiedere posto nel letto mezzo, nella stanza grande.
Si poteva ottenere anche il gatto, in fondo ai piedi. Piangendo piano per un po’ (a singhiozzi piccolini).
Eppure, nelle notti dell’inverno pesante, il tempo cadeva strano anche nel letto mezzo: e le ore di “prima” si confondevano con le ore di un altro “prima”, e il gatto in fondo diventava una mano di osso che trascinava, trascinava giù, in basso, lungo una scala che perdeva i gradini. E la scala che perdeva i gradini diventava una strada senza sassi in discesa: la bicicletta non aveva più ruote e la voce moriva senza riuscire a chiamare.
A quale ora  la strada muta  si faceva pioggia contro le finestre o pozzo con la fiamma dentro?
La bambina era dritta nel letto, con la voce che non tornava e la stanza che si stringeva attorno, fatta a fette dal buio.
E allora vedeva.
Dallo sfiato della porta entrava la fiamma. La fiamma era un brandello di carne appesa, una spalla con il braccio, un braccio amputato, senza una mano.
Faceva paura quel corpo monco e acceso e penzolante.
“Verranno le formiche rosse, perché dove c’è la carne ci sono le formiche rosse, come attorno all’osso del cane”- pensava la bambina.
E le formiche salivano sul letto e s’infilavano sotto le lenzuola, camminavano lungo la gamba che sembrava fredda all’improvviso, mentre la carne continuava a sbattere a sbattere. In alto, all’altezza della porta.
“Verranno anche le vespe”- pensava la bambina.
E le vespe ronzavano ed erano quelle dell’orto, ora vespe d’inverno col pungiglione di gelo.
Il tempo restava un nastro nero, squarciato di rosso carne.
La bambina sentiva il peso della stanza addosso.
Tutta la stanza coricata sul letto.
Nell’unità indistinta.
Nel fermo lungo che non ha “prima” e non ha “poi”.
Solo la mattina metteva le cose a posto.
La madre toglieva dai raggi dalla stufa la camicia del padre.
Non più rossa per il riflesso della stufa.
Bianca e asciutta.
Sparivano formiche e vespe.
Il tempo tornava alle campane e si muoveva sulla sveglia.

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Premessa

23 lunedì Gen 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 42 commenti

(ad una pagina futura)

Una “grammatica della notte”, dunque.

E già la parola grammatica, assolutamente ruffiana e  ambigua, disegna recinti di regole e di eccezioni con cancelli (sempre aperti) di opzioni, circuiti formali e informali su cui  scivolano le parole, graticci di liste e combinazioni, trompe-l’-oeil lessicali…
Non gliene può importar di meno, alla parola “grammatica”, di gettare scompiglio e sconcerto: sa strisciare “fine”, a rintracciare la differenze appese ad un suffisso (i segreti dell’-oso e dell’-urno), poi si paralizza in opposizioni. Di marmo. E fa mucchietti.
A coniugarla con “notte” c’è da complicarsi la vita, appunto.
La notte, però, a grammaticalizzarsi già ci prova. Sua sponte. Fatale attrazione per le preposizioni, ad esempio.
Notte di… Eccola, subito ad allargarsi e a fare da indicatore temporale, anzi da cupola, a mettere i puntini sulle  “i” dei giorni, nelle  notti di san Lorenzo  o di san Silvestro o di Natale….
Non paga, razzola fra gli spazi: notte a, notte in, notte fra, da, su … Si accoppia ai luoghi, accumulando esperienze e usando le preposizioni come scivoli verso elenchi infiniti.
Per non parlare delle liaisons dangereuses con gli aggettivi: la notte bella di Ungaretti è tutta lì, con la sua “festa sorgiva/ di cuore a nozze”, e quelle bianche di Dostoevskij stanno ancora a contare stelle et similia, giusto per consolarsi di majakovskijani danni ad opera di tramonti macellai.
Ma la grammatica della notte è altro ancora.
Parlarne significa attraversarla, smontarla, sbloccarla, ripartirla in parole, in odori, in gesti, in colori, in tepori, in tempi e velocità, per poi ricomporla, magari sul tappeto volante di una terrazza.
(lo sanno tutti che le notti estive abitano le terrazze, mentre le notti invernali si arrotolano attorno ai camini e si intossicano di fuliggine).
Ma la grammatica della notte è altro ancora.
Parlarne significa scoprirne le leggi e le regole. Perché se alla notte è stato affidato il lato in ombra della vita, la parte del sottosuolo, il ruolo del mistero, qualcosa vorrà pur dire.
Il motivo per cui nella notte si rompe la consecutio temporum è un fatto da indagare.
Il motivo per cui le qualità e le azioni e le cose  notturne affiorano sotto forma di persone è bizzarria che urge essere spiegata, ad esempio.
Perché le analogie vi siano di casa, anche.
Per non parlare dei racconti, o, forse, proprio per parlarne.
Appena voltata la pagina di questa giornata.

(Nowhereman1, in un commento al post precedente, parlava di “grammatica della notte”.
Effe invita, nel solco di questa paternità, a proseguire il gioco nella direzione suggerita.
Anch’io.)

In pigrizia

17 martedì Gen 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 74 commenti

(divagazioni orizzontali)

Devo ancora abituarmi al piacere nuovo del martedì che comincia tardi.
Alle dieci.
Per marcare la differenza, non metto su la sveglia.
Tanto, apro gli occhi alla stessa ora, con la variante dell’impigrimento possibile.
Piace.
Aprire gli occhi e tornare a chiuderli.
In quel momento lì, sotto le lenzuola di flanella, nonostante le percezioni siano incrociate e confuse, sono completamente presente a me e al mio corpo.
Anzi, i miei pensieri sono i pensieri del corpo, in un unico passaggio e prestito.
E’ tutto molto vicino, nella posizione rannicchiata.
I pensieri si appoggiano sulle braccia, restano nel giro della prossimità.
Non mi attento neppure ad allungare una gamba per paura di incrociare il freddo del disabitato: qualcuno si è già alzato.
Sto lì nel tepore e basta, in un momento di tempo lento lento lento, affrancato da ogni progetto legato al fare.
Fra un po’ si srotolerà la giornata.
Fra un po’ arriverà il caffè con le prime parole umane.
Fra un po’ emergeranno i pensieri accantonati.
Fra un po’ si guarderà l’orologio e sembrerà già tardi.
Intanto mi godo uno spazio pre-grammaticale: sbadigli, respiri grandi, fruscii, scricchiolii (contenuti) del corpo che si sveglia, stiracchiamenti per far cantare il collo. Un colpettino di tosse (gentile).
Le idee della notte sono ancora vive e fanno fitto.
Potrebbero  nascere non-storie.
Non storie un po’ svagate.
Trucioli di legno tenero.
Verrebbe voglia di provarne l’elasticità.
I racconti irregolari della notte non sono mai quelli che riconosci di giorno.
E non so se questo sia del tutto un bene.
E non so se questo sia del tutto un male.
Nel frattempo, Buon giorno :)

La Zena

07 sabato Gen 2006

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 84 commenti

La Zena era come certe viottole di campagna.
Cominciano aperte e chiare con le siepi basse ai lati, l’erba cavallina e la salcerella fiorita, poi non sai cosa succeda. La strada si stringe, piega storta e l’orizzonte non c’è più. Sparito, per colpa dei cespugli, alti all’improvviso, e fitti. Se ne indovinano i nidi, di scricciolo o di cincia, per certi chioccolii segreti: e allora viene voglia di far piano chè qualcuno potrebbe volar via, fra le ramaglie.
Ecco, i pensieri della Zena facevan presto a volare via, ad andar per aria: era difficile seguirli.
Si parlava di questo e di quello e poi, poi nessuno capiva più e c’era quasi paura di disturbarli, i suoi pensieri.

La Zena un poco metteva soggezione, per quel suo infilare, nelle chiacchiere, dei ma e dei se che sembravano sbreghi di garza, dei perché che pungevano come ferri da calza.
“La fa la ponta a tut”, dicevano in famiglia, ma la Rosina suamamma volentieri se la sarebbe tenuta in casa  quella figlia testarda che non chiedeva scusa, ‘na figlia che si era gettata in Po dietro i gattini nel fagotto, col freddo che c’era, e aveva detto “provateci ancora che mi lascio andar giù”, ‘na figlia che ti prendeva il cuore con un gesto, poi ti gelava e ti fermava la lingua solo con la mano sopra il braccio. Dolsa e brusca. E che sempre voleva sapere e andare nella scuola vera, non in quella di paese, dove la maestra scappava ad accendere sotto la pentola. Disposta ad andare con la battellina, da sola…
Bella era bella, del metallo che rivolta la terra, pallido coi lampi scuri: non è argento e non è cielo, ma se c’è lo scherzo di un po’ di luce, allora è vita. Bastava che scucisse un sorriso, la Zena. E lo faceva mentre chiedeva a suo padre come nascevano i cavalli e come si faceva il vino, come si arrivava al caglio e come girava il sangue.

La volevano in tanti, ma lei neanche li vedeva: rispondeva male ed era sempre un no, perché se lo sentiva che la vita non era tutta lì. Non poteva esser tutta lì. C’era da andare. Allora s’innamorava delle strade e le seguiva coi nomi che sapeva… dopo Carbonara c’era Borgofranco e ancora Ostiglia e Ostiglia già era qualcosa…e dall’altra parte, dall’altra parte dopo il Cavo, c’era la Bonifica e poi Sermide e Bondeno e anche Ferrara, che era mare e aveva un rosso nelle pietre da imparare…

Spariti i sogni della scuola, le restava da aiutare in casa, ai Due Mori. Aspettava il tardi, che la gente andasse via per sparecchiare al tavolo del farmacista triste e forestiero, storto come una vite, che restava nelle voci finchè poteva e scriveva e scriveva e buttava a terra stracci di scarabocchi. Con la scopa la Zena li spazzava via: non li bruciava nella stufa, li apriva e li stendeva bene con le mani. Ci leggeva di argini e di pioppi, di un camminare la mattina presto con la fatica di un corpo che non tiene, di uno stare da soli nella gente.

Lo aspettò una mattina di gennaio, dove la strada trova l’argine e va su. E glielo disse. Glielo disse che sapeva i suoi pensieri.

Si sposarono d’amore, in un maggio che era tante cose: il vestito bianco con le rose fresche puntate alla cintura e solo l’aria fina in testa, il calesse pronto per partire.
Così la Zena arrivò a Ferrara coi suoi ma, i suoi se e i suoi perché, che sciolse e raddoppiò, col tempo, nei libri della casa grande, nei quaderni dei figli che crescevano, nelle parole di chi veniva per ascoltare i pensieri suoi.
Quel che sentiva, adesso, era che la vita stava davvero tutta lì, nelle stanze senza umidità, nel parlare la sera, carezzando la tovaglia bella e le posate a specchio, nel conoscere il nome delle cose.
E c’era la paura di perderne uno spicchio, di quest’arancia dolce, una paura grande, perché il dolore sta dentro il poco e il tanto e viene fuori quando pare a lui.

Non fu il poeta a portarle via la figlia, lustra come la stella diana. Se la sposò un sardo piccolo e potente. Per far partorire una montagna, portò con sé la moglie incinta e la Zena, con la mano ferma nel saluto, sentì un perché infilzarle lo stomaco fino a farlo sanguinare: capì che era il dolore, lì, pronto ad uscire.

Non si salvò nessuno: l’aereo si ficcò nel mare e sputò una cassettina d’ori che la Zena, piccola e rannicchiata, riconobbe e tenne lì, incerta se vivere o morire. I capelli bianchi all’improvviso, come le parole.

Poi, poi con l’indolenza pigra dei mattini, la vita si prese il tempo che voleva: pretese anni di cura per chi restava, per i narcisi gialli, per la casa, per la sposina giovane, la nuora della Dina, che piangeva e piangeva per il suo grembo vuoto.

Come il vuoto sa chiamare il pieno o trovare la carezza d’un uguale…
Fu tutto un fare, un tremare, un correre per questa Rosa giovane, un trascinarla città su città, dottore su dottore, su incerti scarpini con le rondini e una veletta grigia.
A buon fine: tutta l’attesa in una curva rosa.
Nella stanza che dava sulla piazza: tenuta lontana persino la corriera.

Giusto per un saluto, uno sfiorarsi di esistenze, che resta nel nome.
Ancora maggio, ancora rose.

Son cinque sorelle
son tutte belle
la Dina l’ è la più piculina
l’Alda l’è la più granda
la Nela l’è la più bela
la Zena la g’ha la stela in front,
la Noemi al valisin pront.
Son cinque sorelle
son tutte belle.

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