• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: marzo 2004

 Gli alberi…

29 lunedì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Le vite piccole. Apparentemente. E apparentemente uguali.

Occorre uno sguardo setaccio per trattenere sulla rete le variazioni: foglie, insetti, forse schegge di luce.
Occorre la memoria setaccio, che conosce il prima e l’adesso.

Amo le differenze percettibili sottovoce e il gesto gentile che le indica.
Amo i padri che guardano gli alberi e suggeriscono i mutamenti: raccontano di leopardiane minime offese ad un tronco, di momentanei cedimenti… (si commuovono, con la voce, per una fioritura improvvisa).

E amo, amo soprattutto la vita porosa, che assorbe e impara, ad ogni età.

Gli alberi sembrano identici
che vedo dalla finestra.
Ma non è vero. Uno grandissimo
si spezzò e ora non ricordiamo
più che grande parete verde era.
Altri hanno un male.
La terra non respira abbastanza.
Le siepi fanno appena in tempo
a mettere fiori foglie nuove
che agosto le strozza di polvere
e ottobre di fumo.
La storia del giardino e della città
non interessa. Non abbiamo tempo
per disegnare le foglie e gli insetti
o sedere alla luce candida
lunghe ore a lavorare.
Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi
e tu impari chi è tuo padre

(F. Fortini, Versi scelti 1939 – 1989)

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 Increspature

23 martedì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 88 commenti

(ancora divagazioni dal presente)

Forse è un po’ contro stagione mettersi a parlare di dolore, quando si ha voglia di uscire dal grigio come da una pelle di biscia…

Eppure è così: galeotti alcuni commenti, che hanno portato in superficie, con la leggerezza della schiuma, questa parola.

E io me la son trovata, lì, davanti agli occhi e ai pensieri.

L’ho riconosciuta come mia, perché c’è sempre un nido di dolore, intalpato nella vita: l’eco di una malinconia, la risonanza di una voce perduta, il presentimento di una privazione (la mente prefigura, se non ricorda)…

Se posso non fuggo, davanti al dolore: lo liscio finchè non perde le spine, finche non scioglie la sua ruvidezza. Facile, allora, modellare sulle sue forme i giorni, strato dopo strato, finche l’ultimo, il più presente alla vita, non ne ha più la memoria ma solo l’ondulazione morbida.

Senza tristezza: solo uno sguardo più liquido.
Un’ increspatura

Io il dolore

il mio intendo che
naviga sottocosta e quasi lo coltivo
il mio dolore lo lascio rollare discreto
forse anche un poco affezionato

un segreto non ostile
me lo porto appresso

o seguo io
docile ai ristagni e
alle riprese.

Sosto in un’ansa
lambendo sambuco e rubilia

talvolta mi assopisco
in un torpore paziente
“vieni con noi”
“no, che non vengo” e brusca difendo
il grumo del tempo

Anche bombardo
il silenzio
e il silenzio prosegue più lento
circumnaviga destro
accennando un brusìo
lontano e fedele:

che a tacere
resta fuori l’onda che annega
e le parole dei poveri
piano si allontanano

(Elia Malagò)

.

Frammentazioni

19 venerdì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 63 commenti

(Divagazioni verso il 20 marzo)

I frammenti non sono le cose, sono le schegge, le scaglie, i trucioli delle cose…Ne sono la deriva, ciò che resta dopo lunghe erosioni.
Il dolore non solo graffia e frammenta: frantuma.
Il dolore del mondo, poi, che conosce l’offesa, sa spezzare ogni intero, “ foglia a foglia”, “piuma a piuma”, punto a punto.
Il dolore del mondo, che conosce l’offesa, sperde e disgrega, divide e oppone.
Per questo va salvata ogni parola che addensa e lega.
“Pace” è una bella parola.

Mi piace pensare che suo sia il canto dell’attesa, suo il nido, suo il miele, suo il muschio.

Punti

ti ho consegnato il miele
la chiave del rifugio
che il lampo scrive
cieco nella notte
come sarà il mio canto
in riva alla bufera
questo che era
uccello
che ora il vento spoglia
ala ad ala
foglia a foglia?
miei avi
il mio sigillo si è spezzato
e versa il fiele
il mio nord
di radiazioni lunari
il mio sud
di cancri e stermini
il mio est
di uomini e mari
il mio ovest
di sogno e ventura
io sono natura
dal corpo di terra
di angeli e d’ali
avvolto nel mio grido di febbraio
nel grigio saio della sera
e tolto al nido
della maschera che era
cadente brivido di stella
ah quel muschio
radente rischio di preghiera!
proteggi la mia parola
come luce accesa
nella mano
proteggi la tua parola
in alleanza
al dono
proteggi il vano
segno
della resa
proteggi il dove
il come
il canto dell’attesa

(Alberto Cappi)

Ritorni

14 domenica Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 70 commenti

(praticamente traslochi, parte seconda)

Che di soldi ce ne fossero pochi, in casa, ormai lo si capiva, magari da piccole cose, non solo dal gioco della casa che si restringeva.
Erano cose che non si leggevano tutte insieme, ma che affioravano in abitudini nuove o nell’infittirsi delle meno gradite, fra le vecchie.

Era la Rosa miamamma, adesso, a frugare il mercoledì mattina; negli stracci della “mericastrass”, dove la Norfa, regina dell’usato neanche si dava da fare per vendere, neanche più decantava i pregi delle sue cose: erano in tanti a cercare, a frugare, nel mucchio e lei poteva stare grassa e immobile a fumare la sigaretta col bocchino, nei suoi ricci di permanente.

Eppure le sottane o le maglie o le stoffe che arrivavano a casa, non avevano la vecchia magia.

“Adesso lo vedi così, ma dopo diventa una meraviglia”- diceva miazia, drappeggiando incredibili vestiti attorno alla vita della Diana. E io li vedevo davvero già belli e finiti, perché aveva un modo la zia, che a non crederle, pareva di farle un torto.

Era facile, invece, deludere la Rosa, stare impalata a guardarla cercare tra gli stracci, col fastidio dell’odore di vecchio e la vergogna di essere vista dalle amiche, e poi, a casa, fare una smorfia davanti alla gonna a pieghe, che doveva diventare diritta, per andare bene, e più lunga, da corta che era.

Era facile farle il dispetto e dire che mai, assolutamente mai, quella gonna sarebbe entrata nell’armadio; salvo poi, nel silenzio, infilarla di nascosto e ammettere, davanti allo specchio che non era così male.

Ma prima, prima c’era il tormento della prova. Era brava la Rosa a trovare scuse alle mie proteste deboli deboli.
“Ma fa una piega sul fiancoooo….” – tentavo di dire.
“Non é la sottana, sei tu che hai un fianco più alto dell’altro. Lo dice anche la Luciana magliaia”- ribatteva la Rosa.
Mica bello trovarsi d’un tratto, così, senza preavviso, con la vergogna di un corpo schifo. Vergogna nonnascosta, ma addirittura discussa fuori.

I fianchi, però, tornavano a posto dentro la gonna finita, lasciata a bella posta sul letto, e sempre nel silenzio indossata.

A parte l’antico transito dei vestiti, le cose davvero cambiavano: il cibo, ad esempio, per certe teorie della Rosa, che mai si erano sentite prima. Se si era noi tre, e mio padre lontano, la sera, miamamma preparava il budino Sanmartino gusto vaniglia, perchè era leggero e “andava benissimo”. E profumava la casa di latte dolce.
Che bastasse una polvere chiara e mezza bottiglia di latte per quella crema che induriva di colpo e fermava in superficie le bollicine della cottura, come schiuma di gomma, era un mistero senza risposte.

E c’era anche il caffelatte a prolungare la cena, con certo pane biscottato nel forno, con l’odore del secco pulito e caldo.
Ma quando mio padre tornava a riempire la sera col suo fischio gentile, c’era la festa dello spezzatino con le patate e il sugo e radi pezzi di carne, che apparivano e si scioglievano morbidi in tanto sapore.
Buono quasi quanto i toasts che la mamma della Cri preparava nella padella sulla stufa, e si sbruciacchiavano bene, e facevano fumo, ed erano così moderni, così moderni e così americani, mentre a casa mia, di moderno c’era solo il budino sanmartino, e il resto aveva i segni di quello che c’era già stato, solo con qualcosa di meno, come la carne sparita, o la frutta contata, che, stranamente, aveva sempre qualche segno.

E bellissima era la carta-premio che mio padre mi portava dalla Federazione e mi faceva sentire ricca di trentamila lire di libri, da scegliere fra quelli bianchi strisciati di rosso, con parole difficili e forti, e quelli con la copertina di cartone avorio e il timone d’oro.
E non c’era criterio, per scegliere: solo ascoltare la musica di un nome sirena, che chiama , che chiama.
Majakovskij, allora, arrivò per caso, su una nuvola in pantaloni, col suo flauto di vertebre a reclamare un amore immediato, nelle sere di novembre, quando gli altri dormivano nel letto di ciliegio e io restavo nella cucina solo mia.

Arrivarono i libri, da allora, puntuali ogni anno, a cancellare rinunce così lievi da non essere avvertite o da diventare il gioco fra noi, nella casa piccola, dove non si poteva scappare agli odori, ma neppure alle canzoni di miamamma.
Arrivarono i libri cui tagliare le pagine unite; con la smania di non perdere tempo, da covare in attesa di poterli capire.
Libri da buttare dentro, da riscrivere in quaderni piccoli per paura di perderli.
Libri dove mettere la testa e il cuore, dove gustare l’incontro e sapere che sarà per sempre.
Pareti color di crema di quel mondo sì da annusare e tastare, ma ora anche da dilatare, fino a contenere ogni idea.
Libri per riconoscere, nelle parole già scritte, ciò che si sente si pre-sente:sconnesso, non chiaro, perché
non vissuto ma adesso trovato, descritto così per bene da diventare specchio. O memoria.

Libri anti-dolore, ma il dolore ti trova sempre; anche nei porti sicuri.
E non è schiaffo.
Non è sferza.
E’ riprendere, di colpo, lo sguardo vero.
Quello nudo e freddo, non quelloche tu hai coltivato, carezza che accetta o traveste il poco che hai, fino a farti credere che va bene così.

Si rideva, noi, dopo due anni di casa piccola, delle corse da fare, se suonava il campanello di casa, per girare la pentola sul fuoco e offrirne il lato nobile: l’unico manico che le era rimasto.
E si faceva finta di niente se arrivava l’estate, la seconda estate, e i letti non tornavano al piano di sopra.
Quasi una pigrizia a calamita teneva giù, nel fitto un po’ disordinato del pianoterra.

Ma il terzo novembre, proprio nel giorno in cui la stufa buona si mise a sputare fuliggine e i letti neppure erano fatti, perchè l’influenza aveva già preso sia me sia il bambino, e la Rosa miamamma da sola puliva il nero con grossi secchi e la cucina sembrava un campo di guerra, suonò il campanello ed entrò l’uomo importante, non atteso e neppure conosciuto, con la macchina grande, che cercava mio padre, il presidente.
La Rosa non fece neppure in tempo a girare la pentola, che non mostrò il suo lato nobile, ma i buchi del manico mancante. E neanche riuscì a chiuderela porta sul lazzaretto dei figli malati, e neanche a tirar su lo straccio…
Lo vedemmo tutti lo sguardo dell’uomo, non divertito, non carezzevole, uno sguardo di cartavetrata, che insisteva,senza scivolare via.
– Abita qui, vero, il presidente? E’ in casa?
– Sta qui, ma è via con sua moglie. Sono rimasta io con i muratori, perchè i putlet sono malati.

Così la Rosa miamamma finse di essere la donna di servizio e il pomeriggio stesso, con i falegnami del viale, freddo o non freddo, cominciò i l trasloco verso l’alto.

Traslochi

09 martedì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 81 commenti

Il freddo prendeva alle gambe nude e alle mani.
Anche al naso, se pedalavi forte.
Freddo ortica.

A navigare nella nebbia, ti veniva voglia di casa e del suo odore di caldo…
Solo dopo era bello guardarla, la nebbia, dalle finestre del pianterreno, da rigare col dito, vapore a lavagna. Ma non c’era più nessuno da aspettare, oltre la finestra, né c’era lo sbattere di porte che la Diana (furiosa) regalava come risentita vendetta.
Si era pochi ora, nella casa grande, e c’era da arrendersi all’evidenza che  la giovane era proprio leimia mamma, solo lei.
Io , che prima, di madri, ne avevo altre due,  mi trovavo  adesso ad avere per mamma la meno mamma, quella che ogni tanto piangeva perchè il suo uomo non era mai a casa, per uno strano lavoro che non dava né soldi né quiete.
La consolavo io, con parole sentite chissà dove.
E la punivo anche, con bruschezze improvvise se, di colpo, la sentivo troppo debole, troppo collosa.

Così, con la mamma bambina e il bambino piccolo, la sera si era ben attenti a chiudere la porta di dietro e a dare la voce, se si saliva su per le scale, da soli.
Tutti e tre nel letto grande, nelle sere di pioggia, io un po’ col fastidio perché non si ripassa la giornata e gli amori pensati con la mamma vicina,… l’altra con il magone d’essere lì a metà, … il bambino a chiedere ginocchia per giocare.
E la casa non più amica di voci, ma dura nei suoi scricchiolii, nei suoi rumori di stanze semivuote.

Fu a novembre, il giorno dei traslochi, che la casa cambiò.
Di dentro, non di fuori.
Fu la camera da letto matrimoniale a scendere, in soggiorno e il soggiorno, la metà del soggiorno che non aveva seguito a Ferrara la Diana e suamamma, si trasferì dal falegname, per eterni  restauri.
Nella stanza della tavola quadra, quella dell’accesso deciso, una volta, solo da mianonna, il letto enorme di ciliegio rosso fugò ogni altro mobile e poi si strinse da una parte, magnanimo, per il mio mezzoletto, spinto contro il muro.

Il bambino non stava mai bene e le stanze di sopra sembravano ancora più fredde, vicino all’inverno; con la bava del vento che trovava la strada del balcone e si appiattava fino ad entrare fra il legno della finestra e il vetro.
Scaldare di sopra per pochi …
Miamamma, che era di decisioni svelte, fece tutto da sola, con l’aiuto del falegname (sordo e sottile) e dell’altro, che lavorava nel capannone di fronte a casa.

Così il sopra scese a pezzetti, a cercare tepore.
Migrazioni domestiche.

La stufa della cucina fiatava calda, attraverso la porta, così calda e vicina, come la lingua di un cane da caccia.
Dal letto quasi la potevi vedere, non minacciosa e pettuta come quella a carbone, sul pianerottolo del primo piano, accesa nei tempi d’oro e ora morta e fredda.
Questa era piccola e bianca, coi suoi cerchi concentrici, che aspettavano solo di essere lustrati col sidol  per dare alla casa un odore di argento acido.

Il letto, da basso, ritagliò un’isola tiepida e mite nella casa fredda: due stanze zeppe, così zeppe che non c’era posto per la paura: zattera e soffitta, insieme.
Si poteva far merenda seduti sul letto, senza regole e orari, e, la sera, ridere delle briciole che si erano nascoste nelle lenzuola e si attaccavano alla pelle.
E, ancora, sul letto piaceva leggere i temi alla mamma giovane, innamorata delle parole belle, e commossa ai passaggi giusti, quelli che, forse, scrivevo apposta per lei.

Si saliva al piano di sopra per andare in bagno e correndo; in bagno non c’era il caldo gonfio della legna che brucia, ma un caldo a comando di una stufetta elettrica, con due torciglioni incandescenti, che, se lasciavi accesi per troppo tempo, facevano saltare le valvole e denunciavano chi aveva violato la regola del risparmio.

La casa si era ristretta, come un camicino mal lavato, aveva confuso le sue carte e i suoi piani, ma era più difficile ora vedere i buchi delle assenze, incontrare il silenzio della mancanza : c’era da guardare la cappa della stufa, fiorita di una balza arricciata, a quadretti bianchi e rossi.

Mai vista, in casa, prima.

 Riti

04 giovedì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 80 commenti

(divagazioni del presente)

C’era il sole, oggi, e un respiro di vento, il primo a suggerire semine e trapianti.
Ho interrato un bulbo di giacinto, piano, per non sciupare le radici sottili e molli: quasi una peluria.
Sono vitali i filamenti che chiedono la terra: hanno il colore del latte e dell’infanzia.
Piace metterli a dimora e pensare che si srotoleranno, al chiuso.
Sempre, piantare un bulbo è ricordare la storia dei tre luoghi, di Liscano:
quello della “luce che vola” e s’abbaglia nell’altezza delle cime;
quello del cielo buio, al fondo, cavo-pieno di vene e fenditure;
quello della “terra degli uomini”, verde di grano o capelvenere, pelle di confine.
Basta sbucciare la pelle per trovare l’altrove, succhiarne il soffio e aspirare alle cime.
Il bulbo comincia a camminare, ora…
Ciclici ritorni.

XVII

Onda di acqua dolce
portò una pianta
fino alla riva
Sulla riva
la pianta gravida
originò un germoglio
il germoglio ripeté la pianta
sulla riva
Una pianta portata
dall’acqua dolce
seccò
senza germogliare
La pioggia trascinò i suoi resti
fino all’acqua dolce
che alzò un’onda
gravida di una pianta
gravida di un germoglio
sulla riva…

(J. Liscano)

Destini

01 lunedì Mar 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 51 commenti

Che il freddo assecondi il suo destino e si sciolga in tepore.
Che la mano trovi il fiore, a completarne la gentilezza.
Che gli sguardiindugino sulle parvenze e le rendano meno brevi di un sogno.
Che i gelsomini tornino alle ringhiere, in un rinnovato gesto d’amore.
Che le cose si compiano, senza perdere la leggerezza dell’attesa.
Questo (mi) aspetto e, intanto, trovo nella poesia di Cristina Campo.

La neve era sospesa tra la notte e le strade
come il destino tra la mano e il fiore.

In un suono soave
di campane diletto sei venuto…

Come una verga è fiorita la vecchiezza di queste scale.
O tenera tempesta
notturna, volto umano!

(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,
stella su te, sul mondo che il tuo passo richiude).

Cristina Campo – Passo d’addio – 1945

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