Il circo arrivava improvvido e improvviso.
Magari d’inverno. O col soffoco, d’estate.
E non lasciava niente come prima, almeno nei bambini.
Manifesti con colori accesi e improbabili nomi altisonanti: l’odore farinoso della colla, fatta in casa e spennellata in fretta e in abbondanza.
Visi nuovi e capelli ossigenati, a comprare in bottega pane e mortadella.
Poi, nel prato della Marinella, un fungo di tendone spuntato in una notte, forse.
Con la bandierina in cima, a sventolare.
Di fianco, a volte, le gabbie coi leoni, pochi, con gli occhi addormentati e il sentore dei tappeti vecchi.
Il richiamo era forte e la musica già di pomeriggio arrivava a onde sussultorie, mentre l’auto passava per le strade annunciando meraviglie grandi per la sera.

Anche quel novembre fu così, quasi a scacciare malinconie da cimitero e le nebbie che ormai sfiatavano, il mattino.
Un circo in miniatura, le pareti tirate con le corde e le luci a rincorsa sull’insegna. Rosse e blu.
Stasera ci si va, disse il padre, tornando per la cena.
Suonava molto strana questa cosa, in una sera che era meglio stare in casa, la prima brina sui rami della siepe. La madre aveva gli occhi a punto di domanda, mentre allacciava il suo giaccone: la bambina già pronta sulla porta, persino col berretto. Le gambe impazienti d’aspettare.

La panca di legno era callosa. La gente rada rada.
Bisognava stare dritti con la schiena, senza un sostegno, senza un appoggio, come gli asparagi nell’orto, ma c’erano i pagliacci da guardare, quello piccolo e quello allampanato, così somigliante all’uomo dei biglietti e anche al ciclista che saltava su una ruota sola, da grillo con le antenne drizzate verso il cielo. E la contorsionista che stava tutta dentro a una valigia!
I leoni sono in ferie nei paesi caldi, disse il direttore, ma questo era già chiaro: sul prato non c’era nessuna gabbia, nessuna.
Se li saran mica mangiati, rise la madre sottovoce.
L’acrobata intanto scendeva a torciglione dal punto più alto della tenda, con i lustrini accesi sul costume: il cono della luce la fasciava tutta e lei ruotava, ruotava, appesa con un laccio a quella corda che il direttore muoveva giù dal basso.
A seguirla girava un po’ la testa, per la paura e per il collo teso.

Poi la ragazza toccò terra con la grazia dell’angelo che annuncia e la bambina si drizzò in piedi, a battere le mani davanti alla bellezza.
L’acrobata forse fu toccata dalla sua entusiastica accoglienza, uscì dal cerchio magico di scena e le si avvicinò per farle una carezza.
Forse sbagliò.
I ragazzi della seconda fila subito a fischiare e a urlare complimenti alle sue forme morbide e vistose.
La bambina invece vide il suo trucco sfatto, le calze a rete rattoppate con cicatrici scure e soprattutto un buco, un buco gigantesco nel costume, proprio sul fianco. Un buco vecchio e slabbrato,coi fili intorno, un poco sporchi. Un buco che parlava non di stoffa mancante…
Un senso di nausea improvvisa, come quando assaggi un boccone che promette ogni delizia e si rivela amaro.
E di colpo tutto si sgonfiò, senza più bellezza, senza più magia.

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