• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: febbraio 2019

Cronachette all’improvviso 4.

26 martedì Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Un cielo da bere, presto presto.

Se ne gusta il rosa del colore, come quando, bambini, si sceglieva la granita all’amarena per un piacere doppio: il ricordo di ciliegia in bocca e la dolcezza di vederla scolorare in un trionfo di timidi rossori.

Il tempo di scriverne e … adesso una colata di violette. Sotto i riflettori dei lampioni scattati all’improvviso, il cielo si ritrae per dire buona sera.

 

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Cronachette all’improvviso 3.

25 lunedì Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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In questo momento il cielo è una lavagna.

Chiara.

E’ come se il gesso fosse stato disteso da una spugna umida: un color di tortorina ovunque, con un sottofondo azzurro, che ricorda le vesti slavate delle madonnine esposte ai crocivia…

Non si sa quale dito o coda di aeroplano abbia tracciato un immenso aquilone di schiuma rosa, un incrocio di linee che sfumano, sfumano e fra un po’ spariranno, come questo cielo, come questi colori.

Non resta che cercare di fermare il tutto con spilloni di parole, come si fa con i vestiti in prova, in attesa di cuciture che non saranno mai all’altezza dei sogni.

Il bambino del ghiaccio

17 domenica Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Faceva così caldo che le mosche parevano più grosse, contro la rete fitta della finestrina.
Come in attesa. Le ali a bilanciere.
Se ne stavano lì, a poppare l’aria, lontane dalla pelle del latte, che è di crema.
Il latte della sera prima, pigro e fermo nella vasca di zinco: nella notte, quieto, a spurgare panna.
Aspettando mattina.

La Dina si guardava quel suo bianco fitto che già grinzava un po’, nella stanza vicino alle caldaie, il pavimento umido di acqua.
C’era da scremare, e subito. E fare burro, per non perdere quel giro. Un giro di panna buona, di una vasca intera.
Ma il ghiaccio dove stava? Per fare burro ci voleva il ghiaccio e subito.
A sapere dove se n’era andato quel senza parola di Ghelfo del carretto…
Martedì mattina, ‘na stecca intera, aveva detto.
Seee. Andato sulla ghiaia di Po, quel cristo, a mungere i tacchini.
Maledette le tessere e il confino. Da sola col casello e coi ragazzi. E le mosche e la panna e il caldo agro.
Ci vado io, con la bicicletta e un sacco. Il figlio di mezzo era piccolino e con quella testa così rasata corta sembrava ancor più magro e scuro.
Ma se hai pianto sul letamaio, fino a ieri, rise sua madre.
(Faccenda di capelli, tagliati a tradimento, e quotidiane lacrime nascoste, sulluogo dello scalpo)

Ormai era detta e bisognava fare. Che d’orgoglio si vive e poi ne avanza.

Il Gi partì tronfio come un gallo spennacchiato sulla bici grande del padre, i pedali alzati con due legni, legati stretti con lo spago.
La giasera era nel paese altro e bisognava tagliar via per la campagna, se si voleva il presto.
L’andata fu tutta d’orgoglio e decisione, con prove di buchi e d’equilibrio, le mani staccate dal manubrio quasi scottasse al pari di un’offesa.

La moglie di Ghelfo del carretto inveì contro il suo uomo, che diceva le cose e poi non le faceva, e involtò la stecca nel sacco ben doppiato.
Un pane freddo freddo. Pesante fino a maneggiarlo in due.
Hai da star piegato, così va un po’ sulla spalla e un poco sul manubrio, la donna gli disse, già dubbiosa.
Il Gi partì meno sgarzullo, tutto tirato avanti, la faccia spalmata contro il ghiaccio.
Posso neanche girare la testa – ragionava – che se non vedo il fosso…
E gli veniva da ridere, potendo, a pensarsi nella pavarina, lui e il ghiaccio, con le rane fredde, intirizzite.
Meglio pedalare a testa bassa e non ascoltare la fatica.
Ma.
Il ghiaccio già stava a trasudare: la juta più di tanto non poteva. Un serpentino frigido e sottile, a leccargli il collo e la schiena.
Così provò a fischiare, ma la guancia dov’era mai finita? Non c’era più.
Cedere adesso, no, non si poteva. Un chilometro ancora, forse.
Magari fermarsi un attimo, però, sotto quel pruno, per ritrovare la guancia e metterla in motore con una susina gialla. E poi sdraiarsi un poco poco al sole, per sgelare la spalla.
Il ghiaccio ben coperto all’ombra della pianta.

La madre arrivava a piedi, con una frasca di sanguinello in mano: due passate di salice al bisogno. Sulle gambe nude, in caso.
Lo trovò addormentato, col ghiaccio squagliato per metà: la trama della juta impressa sulla faccia magra.
Neanche lo svegliò.
Fece con quel che c’era. Il ghiaccio già smollato nella zangola, a caracollare con quel fsssc fsssc disciolto.
Contro le doghe. Contro le sue spalle.
Aprì lo sportellino quando il rumore fu d’acqua sbattuta: prese la pasta spumosa e se la tenne in mano.
Tante goccioline a fare fitto sul burro fresco.
A pians anca al buter, si disse.

Cronachette all’improvviso 2.

11 lunedì Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Sempre nel senso che dovevo dirlo…

C’è un cielo bellissimo là in fondo.

Adesso è a strisce, come qualche giorno fa,  ma è teatro di una lotta epica. Il lilla sta colonizzando il sud e fra un po’, per il rosa, non ci sarà più spazio.

Un celestino (di un sottile che fa tenerezza) lo incoraggia a rimanere, lo spinge in su, lo puntella come può, eroico, …  ma sarà questione d’un attimo:  la tendina più scura avrà la meglio. Per sembrare meno invasiva e trionfante, si sta già stemperando in diverse direzioni.

I tetti sono muti. Come la speranza, forse.

 

Pensieri in fuga 20.

07 giovedì Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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C’è nella mia casa, porto di mare senza sirene e babele di libri fogli e foglie, la stanza per i silenzi.
E’ una stanza di buon carattere: guarda la strada, che si apre in fondo, e, se solo si sporge, incrocia i colori del ginko biloba, l’ultimo a lasciare il giallo.
In genere è quieta e sfoglia vecchie pagine.
Per ringraziarla di tante mute regalie, la accendo di ciclamini piccoli o di erica bianca, perché i fiori sono il mio modo di dipingere i pieni e i vuoti di gratitudine.
E’ l’unica stanza in cui si sta bene soli: la stanza tiene senza comprimere, diventa latte caldo se c’è freddo, diventa lavanda e menta se c’è malessere.

Una volta era la stanza eletta per ascoltare la mia musica, quella di cui neanche riconosco il nome, ma che so passo a passo, perché l’accompagno nel suo viaggio lungo la mia vita.
(Vivo nella suprema indifferenza per nomi numeri dati di qualsivoglia natura, io. Li vorrei scivolosi e malcerti…Fosse per me, anche noi cambieremmo nome, nelle nostre stagioni …)
Eppure, in questi giorni, ritirati e infittiti come una maglia di lana, persino la musica sembra far rumore.
La mia stanza lo sa e tace.
Offre una poltrona al cappotto, che è fatica riporre nell’armadio, e l’altra a me.
Sa che ho bisogno di tacere perché le energie tornino a fluire, le mani si scaldino, i pensieri si sgelino e il fare, sempre in combutta col dovere, lasci il posto a vagabondaggi non finalizzati, al perdere tempo. Ah, poter dire e sentirsi dire “non c’è obbligo”.
La mia stanza diventa lo spazio dei respiri.
Da piccola tenevo il fiato più che potevo, perché doveva pur succedere qualcosa. Magari il fiato trovava altre strade; fluitava nelle vene?
Perdevo la scommessa e aprivo la bocca.
Adesso non gioco più così: adesso respiro fondo e intanto ascolto l’anima del pavimento che risponde ai passi, il grattino del pennino sulla carta, così diverso dal suono secco della tastiera, che lascio tranquilla, perché si decomprima e mi saluti, al ritorno, senza ricordarmi il lavoro.

In questo silenzio, sto con il brusio dei linguaggi interiori, che lentamente affiorano come sgravati dai pesi. E cerco risposte morbide a quel filo di pensiero che, lento e interrogativo, sembra cercare le fessure del pavimento di legno.

La fuga

04 lunedì Feb 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Bisogna andare indietro nel tempo per incontrare il padrone della casa gialla, quella che è a un passo dalla strada e, ora, la sera, ha solo un occhio aperto.
Aveva una bella terra, stesa fra la fornace e la canonica del prete, il solaio col tappeto di mele campanine, che sanno di erba tagliata, gli alberi da frutto sul davanti, il grano dietro, e, di fianco, la stalla piena.
E aveva tre figlie di pelle chiara, gli occhi sfrontati e quel modo di carezzare i capelli con la mano che  già è una promessa.
Era geloso il padre.
Se le covava mentre ricamavano la dote, la sera, e le ascoltava parlare di punto croce, punto ombra e gigliuccio. Avrebbe chiuso il portone con la mandata perché non gli scivolassero via.
Pure montava la guardia, la notte del trenta aprile, quando i giovani portavano il maggio con fasci d’erba alle ragazze generose, con rose a quelle desiderate e con furti di badili e biciclette rugginose ai padri di tanta grazia.
Smarriva i pretendenti, guardati da tende e finestre buie, e fermati in piazza la mattina dopo.
Ma a ballare  ci andavano, le ragazze, alle feste di paese, oh se ci andavano, con le vesti fine e le calze di seta, di nascosto sul carro del fattore, ammolcito con sguardi di lunghe ciglia.
Una sera, dopo la musica, la più grande non tornò.
Si regalò l’amore.
Venne al mattino, con gli occhi fieri e la bocca rossa, per mano di chi se l’era presa, per la sua casa, un poco più in là, dietro la curva.
Il padre, che aspettava sulla porta, non ascoltò il ragazzo che chiedeva, fissò la pancia della figlia, le facce delle altre.
Non disse niente.
Entrò nella stalla, carezzò i fianchi delle tre mucche bianche, le più belle e ampie, con lo straccio cancellò i loro nomi di gesso e, per ciascuna, scrisse il nome di una figlia.

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