• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: ottobre 2015

L’uomo che pianta gli alberi

22 giovedì Ott 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 41 commenti

Qui come altrove, c’è l’uomo che pianta gli alberi.
E c’è una casa che ha vissuto abbastanza e ogni giorno si lascia un poco andare.
L’uomo l’ha stretta di gelsi e di salici, che conoscono il suolo e si cercano, sotto, fra bisce e lombrichi. Vuole per la sua casa un grembo di radici cucite, di mani gentili e intrecciate. Che almeno affondi piano piano e non abbia paura.
L’uomo che pianta gli alberi ha in testa un giardino segreto, un telaio di quinte e di schermi, per giochi di ombre e di luna. Dice sempre “crescerà crescerà e sarà un teatro per lucciole”.

La sera che ne apparve uno sciame, dal fosso, a fasciare la casa, chi c’era pensò che tutto poteva accadere: che il giardino pensato sciogliesse le foglie come nastri di seta, e la casa volasse, leggera, senza più crepe.
Tanto può il desiderio.
O il sogno.

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La vecchia grossa (parte seconda )

06 martedì Ott 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 20 commenti

Mi fermai, la mattina che il ginko biloba dei Castellani era così giallo da sembrare un’estate rubata, ma l’aria diceva che anche quella finestra si sarebbe accostata, perchè ottobre filava novembre e, in fondo, ci sono giorni in cui non si è tanto sicuri di voler crescere, anzi… pare che crescere sia tutta una cosa in perdere.

Fermarsi e tacere, perchè non ci sono parole per una vecchia non di casa tua, solo intravista fra i ricami di una finestra, sullo sfondo di una stanza scura.
“Ve’ dentar, che sono nati i gattini della grigia”.

Erano piccole cose tenere, con la pancia bianca e il dorso azzurro, che facevano il pane fusando contro le tettine gonfie della grigia, buttata su una coperta, vicino alla porta della cucina, tra il secchiaio e il muro.
Era strana una gatta di parto in casa, con l’odore di sudore vecchio su una maglia bagnata di urina e di latte, e la zuppa vicino, e stracci di pelle di gallina, secchi accapponati.

Si affrettò a buttar giù le briciole dalla tavola, la vecchia, e diede uno scopaccione alla gallina sulla sedia; ma io avevo già visto, e avevo visto anche la conca bassa, di latta, piena di piatti e di posate unte, e la tovaglia macchiata sull’altra tavola, nella stanza vicina, ancora così, dalla sera prima o da chissà quanto tempo.
Tutto nella casa aveva una faccia spiegazzata, di sporco polveroso e appassito.
Roba bella andata a male come l’ottomana, azzurra sotto le macchie, e le cartoline con gli angoli accartocciati, infilate nello specchio della pettiniera dell’ingresso.

Si pensava solo ad andare fuori, a scappare via perchè l’aria sembrava piena di santonina, la polvere che in segreto il farmacista preparava per far scappare i vermi dalla pancia dei bambini piccoli.
Forse proprio con il suo odore di noce moscata rancida faceva scappare i vermi.
La ricordavo apposta, quando non volevo mangiare e volevo avere la faccia murata di grigio, per protesta, di fronte a un piatto di pasta puglia, con troppi occhi di brodo.
Si tornava a sentirsi troppo bambini dentro quegli odori di palude, di panni che han preso la pioggia e poi si ritirano in casa, in quelle camere dai quadri grandi e le rose dipinte che pendevano dai muri, sotto il peso dei punti neri di mosca.

Dovette capire il mio schifo, la vecchia, perchè non tentò di trattenermi né disse qualcosa.
Solo mise una mano in una certa tasca del grembiule, a scavare in profondità estreme, fra cumuli di sottane sovrapposte.
Ne trasse un uovo.
“To’, è pulito questo”.
Mi avevano insegnato che non si poteva rifiutare un regalo.
Presi l’uovo, che mi sembrò caldo, quasi un uovo di gatta grigia.
Non andai a scuola.
Tornai indietro.
A casa.
Avevo la malinconia.

La vecchia grossa (parte prima)

04 domenica Ott 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 24 commenti

Ci si rendeva conto che l’autunno non era soltanto la nebbia quando, per via della scuola, si percorreva la prolunga del viale, per arrivare alle medie.
La scuola nuova era in una casa del prete, almeno per la parte riservata alle femmine, e nell’asilo di una volta.
Qui stavano i maschi.
In mezzo, frontiera e barriera, un muro, scalato durante l’intervallo dai ragazzi, che sbucavano a mezzo busto, come burattini di carne, per gridare qualcosa.
Era vicina la scuola, appena spostata a destra, dietro il monumento, tanto che cominciavi a vederla, se rasentavi il muro della casa col giardino staccato.La strada si strozzava a intervalli irregolari, e, superata la casa della bambina col ventaglio, si stringeva proprio in bocca ad una casa piccola, la soglia sull’asfalto e il giardino dall’altra parte, col suo bel numero pari sul muro e un continuo travaso della famiglia: un po’ qua e un po’ là, a seconda del tempo.
D’estate, a passare per quel segmento stretto fra case grigie o coi segni di un qualche giallo, era come entrare nelle piccole vite.
La signora dei bottoni e la camiciaia chiudevano il viale, ma continuavano nei sarti della casa col giardino staccato. Con la porta sempre aperta e la finestra sfacciata, che quasi sentivi l’odore misto e leggero del caffelatte col pane, che non è amaro e non è dolce, la mattina.
In ottobre le finestre si chiudevano e io, che ormai arrivavo a specchiarmi nei vetri alti della cabina della luce, alta abbastanza per sbirciare anche in casa, non potevo più giocare a indovinare il colore della vestaglia della vecchia o se il vecchio con le spalle strette mangiava nella scodella in canottiera.
Dietro le finestre chiuse, ciascuno si riprendeva la sua vita. Senza più confidenza con il fuori.
Solo l’estate fa teatro.
Ai giorni freddi restano il pudore e gli odori forti, i fritti che sfiatano dalle imposte e gravano nelle strade strette.
Come vecchie abitudini.

L’unica finestra aperta nei giorni d’ottobre era quella della casa d’angolo, con le inferriate a ricamo e la ruggine ferrosa a scaglie piccoline.
Dietro la finestra era sempre seduta la vecchia grossa, di cui io sapevo solo il soprannome, quello che le donne dicevano ridendo, facendo intendere che la vecchia era sporca e un poco matta. Ricca e un poco matta da quando la figlia si era sposata lontano e a lei era andato il sangue alla testa per il dispiacere. Il sangue alla testa.
“Ve’ chi putina”.
Sempre la voce col lamento chiamava. Ma il lamento non faceva che rendere più vere le chiacchiere delle donne.
E il sentirsi tanto forti da non rispondere costruiva piano la distanza del disprezzo. O forse la repulsione. La repulsione verso ciò che vecchio e non gradevole, verso ciò che è vecchio e non è di casa tua.
Ci si può abituare alla dentiera dentro il bicchiere, rosa e impudica sopra il comodino o alla pelle sottile delle gambe crespe, come sfogliate, o a quella che grinza dal gomito al polso, se si accompa­gnano ai riti del mattino , quando il vecchio di casa tua è anche bello di profumo e strano nel suo bere la Ferrochina Bisleri nel caffè, la camicia bianca che sa di sapone.
E’ il vecchio dalla stilografica col pennino d’oro, che ti fa sentire piccola perchè ha spalle forti. E ti lascia ciucciare, strusciandolo tra l’indice e il pollice, il lobo dell’orecchio, che è morbidofresco del fuori, della nebbia o del buio.
E scrive a svolazzi verdi giustificazioni che ti fanno arrossire, ogni volta che sei stata a casa da scuola. La bambina è stata a casa perchè c’era il sole e siamo andati a fare un giro sull’argine. La bambina è stata a casa per salutare Bigio che è venuto apposta a raccontarle l’opera di Verona.
E’ sentirsi grandi coi vecchi la cosa terribile.
Sentirsi forti, di fronte al loro bisogno, sentire il fastidio dei grandi che odiano la debolezza, perchè la propria forza non è ancora così ben rodata, da essere magnanima….
“Ve’ chi putina”
Scappare veloci, fingendo un punto lontano da inseguire, inventare un amico all’orizzonte e dirne forte il nome e fingere di corrergli incontro, mentre uno strano disagio urta lo stomaco. E non sono farfalle di sorpresa.
“Ve’ chi putina”
Scappare veloci, avendo negli occhi tutte le storie strane di quel giardino col muro alto, di quella casa, tutti i racconti di gatti spariti per far dar concime alle peonie, rosse e carnose.
“Ve’ chi putina” …

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