• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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L’Alda

26 sabato Gen 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Che poi, lì, era una faccenda d’anima.
Come avesse fatto un’anima incantata a infilarsi proprio in quel corpo senza garbo, se lo chiedeva anche la Rosina. ‘Sta figlia grossa e lenta pareva lavata nello zucchero. Certi centrini di cotone bianco e spesso, induriti in un bagno di sciroppo.
Poi le guardavi gli occhi e sapevi che la grazia sceglie le sue strade. Ci trovavi un mentre trasognato, un dentro presente e separato, la mansuetudine di certe ciambelle che ringraziano il limone, per averle profumate.
A farle male era come rubare in chiesa: tutto le allargava gli occhi e le restava a girare nella testa, come le giostre di latta dei bambini. “Ma pensa”, ripeteva.
Chè il mite regala lo stupore.
E lo stupore è scendere le scale, guardar la vita in basso, tra i pieni e i vuoti di un merletto, tra le zampe di una cavalletta.
Così la Rosina aveva i suoi pensieri.
Con l’Alda che viveva coi conigli e non c’era verso di portarla in piazza, nell’osteria che aveva ereditato. C’era da farsi una pelle dura, da essere svelti anche di parola.
L’Alda no che non voleva, coi cavatori che al bel tempo facevano notte a carte e il vino e le cantate.
L’Alda voleva parlare poco, cifrare le lenzuola, diradare le barbabietole e guardare le galline.
Chè in certi giorni di caldo, con la fatica del mietere nel sole, lei sentiva il giallo dentro e stava bene.
Fortuna grande che venne nella corte un uomo.
La vide trapiantare i suoi mughetti.
I mughetti sono ingannatori. Il bulbo è vischio e ti si sfoglia in mano.
L’Alda, tutta infagottata, con le mani grosse scuoteva la terra piano e la soffiava via, dalle radici di latte, con un sorriso buono.
Le disse: “Te sei del paradiso”.
Che ci si innamori di un soffio di pazienza è cosa strana.
Ma tant’è.
L’Angilin, ricco solo di fisarmonica e di braccia, si portò in chiesa l’Alda e la sposò.
Brutto affare la fisarmonica. Qui si sa che chiama il vino. La musica si sganghera, sale per la manica, cerca il collo e la gola.
Suonava e poi beveva l’Angilin, di una tristezza che spaccava il petto, la testa. Scaldava le mani e le faceva pugni. Senza memoria.
L’Alda era lì.
L’Alda era sempre lì.
La mattina, davanti ai segni rossi sulla faccia, agli occhi gonfi della moglie, “cos’è?”, diceva lui.
“La porta. La porta l’è dura”, sospirava l’Alda.
E piangevano insieme, seduti sul gradino.

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La ragazza del banco dei segni

21 lunedì Gen 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Non le dispiaceva in fondo quel lavoro, di morbida cadenza.
Fare e disfare, sull’orlo del mattino e della sera.
Come i disegni di polvere e colore.
Le scaglie del tempo su una lastra di legno, a galleggiare sopra i cavalletti: un’armata di perle scappate chissà da quale filo, di stampe rimaste senza muro, e poi tazzine con l’eco di altre luci. Sua Muffità di fogli e di velette.
Nelle retrovie, piattini scompagnati. A fare resistenza e geometria.

Questo banco sa di poesia, le disse l’uomo, con l’aria borgesiana di chi sa vedere oltre il buio.

La ragazza lo guardò senza parlare, la stanchezza tutta concentrata nel cadere diritto dei capelli. Già lo sapeva: i mercati sono della gente.
Le cose stanno lì per far da levatrici. Di parole e di sogni addormentati. Di ricordi e di piaceri coltivati.
Le cose tengono la brace sempre accesa dello sporgersi affamato sulla vita, quello che s’appiglia almeno a una rivista, agli auguri di una vecchia cartolina: mano d’inchiostro azzurro e innamorato. Da portare a casa, come una promessa. Ma l’uomo no, non la sentiva, la voce delle cose: forse parlava con un suo pensiero.

Anche lei sa di poesia, aggiunse con voce un po’ più bassa, preso di sé, dentro ad un suo giro. La luce, intanto, stava per finire, gli oggetti dovevano tornare, senza confusione, ben fasciati di carta e di cartone. La ragazza sentì di doversi un po’ scoprire. Almeno il fondo di un sorriso.

Allora le dirò cos’è l’amore, continuò l’uomo, quasi chiudendo gli occhi.

La ragazza si alzò: ci sono parole che vanno assecondate come pitepitele dentro il bosco, con gesti che dicano qualcosa, ma la vecchia le porse la teiera, cosa costa qui che è un po’ scheggiata…
Il tempo di volgere la testa e chiedere un attimo d’attesa, col cenno gentile della mano.
L’uomo non c’era più. Più. Solo la nebbia.

Pensieri in fuga 19.

16 mercoledì Gen 2019

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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Non so da dove arrivi l’amore per le strade.
So che s’accorda all’estro del momento, al tempo delle cose, agli umori del sole.
Anche dell’ombra.
Piace che le strade vadano nel mezzo, con svolte improvvise di platani o di pioppi.
O che si aprano, pigre ed emiliane, ad ospitare ai lati le donne in bicicletta, mercati un po’ cinesi e un poco no.

(S’aspetta che arrivi la città costeggiando furgoni di ultime arance parasiciliane e radicchi appannati, fra canali di aironi imbalsamati)

Piace che passaggi a livello mai cambiati e semafori, che pendono dall’alto, impongano soste visionarie.

(L’anatra che passava sulle strisce, quieta e ancheggiante, sotto un incrocio di sguardi divertiti. Qualche tempo fa)

Piace che si possano rubare scampoli di vita, ai bordi della provinciale.

(Case anni ’50. Alcune con zoccoli di marmo ad arlecchino e il gioco di un volume rientrante, giusto per muovere un poco la facciata. Balcone in muratura appeso a due colonne, dipinte a finto marmo. Stile geometrile, si dice qui da noi)

Sul portone di una casa gialla, una vecchia, molto anziana e corpulenta, sta salendo sulla bicicletta, manubrio largo e ben squadrato, da primo dopoguerra.
Il marito è alle spalle di questa laboriosa operazione.
Si salutano, ma l’uomo non rientra: ferma la moglie con un eh, poi la raggiunge, le rialza il bavero e le sistema i capelli, dietro al collo.
La signora è in fragile equilibrio sulla pista, ora.
Sorride.
Ferma al semaforo, mi prendo questa scena e mi dico che forse c’è speranza, se restano i gesti: quelli semplici, semplici e sufficienti a fare casa.

La Noemi

09 mercoledì Gen 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 13 commenti

Il fatto è che la Noemi nasceva ogni sera, quando la gente della corte si trovava nella stalla. Erano ore di buio, dopocena, che in letto non mandavano nessuno: la casa era col gelo sventagliato ai vetri e l’osteria lontana. Ah, se era lontana l’osteria, nella nebbia che rugava la gola e si mangiava pure l’insegna di ferro. Una nebbia che neanche i fanali, che neanche le preghiere… Ché poi, se preghiere c’erano, erano quelle delle vecchie, e pure a rovescio: il piacere era tenerseli attorno, gli uomini, la sera. Non fuori. Lì, nella stalla, invece. A guardare le figlie nei filòs, a tenerle in riga. C’era poco da fidarsi con gli sterratori in giro. Cavatori a giornata, al canale, braccia forti e mani svelte, presi a figlio per compassione e messi a dormire nella stalla, dopo, ad usci chiusi…

La Noemi scendeva fiorita nel bustino, con la camicetta delle feste, scura a piegoline, e lo scialle a coprire, ché la Rosina suamamma, se la vedeva prima, la faceva tornare su, a cambiar veste.

La Noemi aveva gli occhi neri e dritti, di certe bellezze spigolose che non si sciolgono in dolcezze di sorrisi, ma si stringono nei vuoti della faccia. Aveva il petto fermo e la vita ben fasciata: di nascosto, s’imbustava anche di notte per mettere la carne in posa – diceva – o per sentire che effetto fa esser stretti al buio, col soffoco, rideva la Nella suasorella, che dormiva con lei nella stanza delle mele campanine a far tappeto brusco, sotto le finestre.

Entrava nella stalla per ultima e come una regina. Sedeva lì, vicino alla Rosina, nella striscia bassa, di mezzo, fra le poste delle vacche, che voltavano la schiena. A tirare dentro al sanguinello, che dentella le dita, e alla robinia, che cede latte amaro, per le ceste dell’uva e delle pere. E a cercare con gli occhi, fra i tanti, il Doru, bello come un dio, di sguardo frugatore.

Si lasciava che le mani andassero, che i bambini si nascondessero sotto le sottane, che le storie facessero il giro delle volte. La Noemi le sapeva tutte, anche le storie di Sonia di Talem; le ripeteva piano, con gli accenti giusti e coi sospiri; il contatore Calanca, sterratore del cavo, guardava lei, se perdeva il filo, ché tanto lo trovava sulla bocca.

Così mi scaldo– diceva lei: ch’ era un bel volere star caldi con sei vacche su uno strame fermentato. Il fieno dava d’acido, nella stalla pregna dei vapori delle bestie. Anche di parole. Quelle rosse, con i baci e il tremore della gola, la Noemi le diceva con gli occhi ben piantati in faccia al Doru. Le sentiva dentro, che picchiavano nel petto: allora tirava i salici del cesto, come fossero i capelli della donna, che l’uomo le aveva preferito. Il Doru la guardava, la guardava.

Quando una sera la aspettò, giù dalla scala, nello sbieco di ombra della porta, la prese per un braccio…“ Se vuoi…” Disse di no, la Noemi, e tornò di sopra, senza volere.

Le sorelle si tagliarono i capelli, di martedì, il giorno di mercato, per vendere le trecce. Coi denari la Noemi prese il vapore. Partì da Genova, senza dir niente a nessuno.

La bambina del verde

01 martedì Gen 2019

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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La bambina si chiedeva spesso se il noce grande, spartiacque di orto e di giardino, fosse il padre o la madre dell’albero piccolo, cresciuto accanto.
La somiglianza c’era: le stesse foglie, lo stesso portamento, la spinta imperiosa verso l’alto. Solo mancavano i nidi poggiati sopra le forcelle e l’ombra generosa.
Così, quando la vecchia pianta fu abbattuta, per limiti d’età o scarso rendimento, sentì un dolore doppio: il proprio e insieme la malinconia del piccolo, la sua orfananza immeritata. Allora prese a giocare lì vicino e a sperare che non crescesse mai. Magari si facesse un bel cespuglio, come i lillà dai grappoli pesanti, o arbusto di vite, contorta e ripiegata.
A poter scegliere, anche la bambina voleva non crescer mai o forse soltanto un poco e piano, per restare ancora nel selvatico, fra mughetti, rovi di ribes e uvaspina, un fitto che adesso contendeva sole e terra ai pomodori e ai fiori di sua mamma: una striscia di giuntura fra il mondo dei sapori e il mondo dei colori, chiamati a unirsi in misticanza.
La bambina stava bene in quell’intrico rasoterra, lontano dalla casa: nessuno litigava, nessuno alzava la voce per gridare, si poteva pensare che tutto andasse bene.
Lì c’era da osservare: bastava star nascosti, accovacciarsi senza far rumore, per vedere le formiche in fila lungo i fusti, e il riccio, spuntato all’improvviso, fare palla sotto una foglia d’hosta. E poi, sdraiata sulla schiena, guardare in alto e travedere il cielo, spezzato dai rami di forsithia: un gioco di ricami d’oro sull’azzurro grigio. Oppure chiudere gli occhi ed ascoltare.

(Tutta una vita di schiocchi e di fruscii, nel basso, uno sciame di forme da inventare. Strade da tracciare con il dito sulla terra smossa, e fragili equilibri di foglie e di stecchetti, subito dissuasi da una vespa ansiosa o da un pettirosso in cerca)

Quando il giardino e l’orto furono una cosa sola, una selva con prestiti d’odore e di vilucchio, a estate finita venne ad abitare una zia, nel cortile a lato della casa.
Si poteva rimanere ore a sentirla raccontare, le sere d’inverno, le storie della guardiana delle oche e del pecoraio con gli occhi come stelle. Veniva voglia di prendere sonno nel ronzio quieto delle sue parole e poi svegliarsi con lei, la mattina, perché la zia aveva un altro dono: spiegava i sogni, quasi avesse un libro segreto nella testa che diceva le ragioni di ogni cosa. Di un sogno fatto d’acqua, o di scale senza pioli, o di gemme sparite da un anello, sapeva il perché e il mondo del sonno diventava chiaro, non ingombrava il cuore. Sparivano i rimorsi ed anche le paure.
Ma era vecchia quanto il vecchio noce, la zia, e la bambina cominciò a temere che potesse sparire all’improvviso, come l’albero abbattuto nel cortile. Meglio restarle più vicina, non staccarsi dalla sua sottana, neppure la notte, neppure la mattina. Controllare che le rughe impresse sulla fronte non portassero una nube scura di partenze.
Intanto i sogni diventavano cattivi: le piante cadevano in giardino, anche il noce giovane spezzato da frustate di lampi e di saette, la luna fatta a pezzi sopra i rovi fra sangue di lamponi.
La zia ascoltava senza dire.

Vieni che ti insegno un altro gioco.
Era maggio e la donna la prese per la mano.
La bambina guardò il cortile con occhi nuovi. Non c’erano confini nella selva: aiuole tracimate, fra serpenti di edera e guizzi di pervinche, macchie di bergenie e ciuffi di narcisi gialli, tulipani dischiusi fra le foglie a lancia, tralci in lenta ricaduta, ed erba, erba alta intorno, a confondere i primi crisantemi. Margherite e veroniche intrecciate ad impedire i passi.
Il gioco nuovo fu la cura.
C’era da togliere la gramigna senza strappare il ciuffo, fare morbida la terra con un poco d’acqua per arrivare alla radice, poi un colpo secco. Mazzetti di fili, da scuotere perché la terra non andasse persa.
Ore trascorse a zappettare per ritrovare la traccia di un sentiero e liberare le piantine dall’ingombro che toglieva luce: avere la vita fra le mani e decidere cosa perdere o tenere.
Venne il tempo per l’approdo ai crisantemi. E la parola fu ‘sbocciolatura’.

(Sentire fra le dita i capolini, duri sotto l’ascella della foglia, e scegliere: lasciarli ad infittire la pianta di piccoli fiori numerosi o sacrificarli per il trionfo di un’unica corolla, globosa attorno ad un bottone grosso?)

Venne il tempo passato a diradare le zampe di prezzemolo, perché la radice così bianca e buona diventasse profumo per la zuppa.
Finché si giunse all’angolo dei noci.
Il giovane era robusto e vigoroso, il ceppo dell’albero abbattuto, invece, era invaso dall’erba dell’incuria, eppure nella crepa al centro era spuntato un ‘butto’ di un verde tenero e gentile.
Guarda, disse la zia. Questo sei tu.
Quella notte la bambina sognò dalie aranciate e rose d’autunno, fra le zinnie.

(dedicacato a T. con tanto affetto)

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