• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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La bambina della vecchia con la sporta

27 venerdì Lug 2018

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La bambina aspettava con piacere l’arrivo della vecchia, il giorno del bucato grande e la domenica, per il giornale.
La vecchia era piccola e robusta: camminava a passi stretti, quasi dei punti dati con l’ago sulla tela: stava nel casermone con le porte in fila, sbuffi di voci a ogni finestra e l’odore della cucina magra, con l’aglio in fondo, come l’alito delle suore.
Arrivava con la bicicletta e una sporta di tela ben fissata al manubrio: cassaforte e guardaroba, dispensa e armeria.
La bambina ogni volta le chiedeva: Ce l’hai il chiodo?
E allora la sporta si spalancava come il pozzo di san patrizio e, fra carte, fazzoletti, ciabatte e borsellini, compariva un lungo grosso e arrugginito chiodo da picconatore.
Ricordo e difesa contro le ingiustizie del mondo.
Mai usato, questo, la bambina lo sapeva, ma tanto possono i racconti e il chiodo la diceva lunga sui giorni delle lotte là, in campagna, con la celere tutta dispiegata, crumiri e braccianti sui due fronti. La vecchia era stata picchiata con le altre, ai tempi della mietiliga buttata nel canale, per far dispetto ai padroni e al prete, che era in parte nell’affare. Una notte in galera, a cantare Sebben che siamo donne, paura non abbiamo, abbiam delle belle buone lingue, abbiam delle belle buone lingue…
Poi la schiena non fu più giovane abbastanza per diradare il riso e i cipollini: le restarono li bugadi longhi da fare nelle case, specie a partire dalla primavera, quando, con spazzole di crine, si mandava via il freddo e il caldo dai lenzuoli. Nei cortili c’era bisogno di donne dalle mani larghe.

Alla bambina piaceva la confusione indaffarata del giorno del bucato.
I panni stavano a dormire nelle mastelle grandi, dopo essere stati strofinati, ma lei aspettava il momento della liscivia, dell’acqua bollente versata sulla cenere e sui panni. Quando il paiolo cominciava a sobbollire, con l’acqua tortorina, il bianco della tela si gonfiava in grosse bolle. Bisognava batterle col bastone, forse quello per girare la polenta, per ricacciarle sotto, mentre la liscivia borbottava.
La bambina sperava di poter aggiungere legno al fuoco e vedere le scintille schizzare, inviperite, ma le donne la tenevano lontana. Il fornello poggiato a terra aveva qualcosa d’infernale: le lingue di fuoco salivano lungo i fianchi del paiolo, minacciose, e la schiuma tracimava. Lei poteva solo insaponare il collo delle camicie di suo padre, a cavalcioni sull’asse col piede, che, dopo tante lavature, era rosato e tenero di acqua.
Era bello sentire nell’aria l’odore del pulito fresco e ascoltare intanto la vecchia: raccontava di risaia e di fatica, la fatica di restar piegata in due, nell’acqua con le bisce e le sanguisughe. E poi mangiare freddo, un po’ di pane con cipolla e sale, dormire in grandi cameroni che sudavano miseria. Ma la vecchia anche insegnava le canzoni di mondine e di padroni dalle belle braghe bianche. Se non c’erano gli uomini di casa, accettava di mangiare a tavola, nella famiglia del bucato, con le braccia strette e la vergogna delle mani rosse e grosse, rigate da tanti tagli.

Ti fanno male?chiedeva la bambina, mentre le toccava con il dito, seduta in braccio, come fosse una di casa. Di più, se spingo? Era contenta quando l’altra scuoteva la testa per dire no.

Ma … la domenica, ah la domenica tornava, e la bambina proprio l’aspettava per vederla ‘femmina’, con i segni della festa, ogni settimana: il rossetto sperso fra le rughe e la retina sui capelli, con l’elastico che schiacciava le onde della messa in piega fresca e le tagliava la fronte, con un segno dritto, a metà.
Portava il giornale delle donne, che usciva un po’ ammaccato, dalla sporta col chiodo, perché prima se l’era studiato bene bene.
Tutto lo raccontava, il giornale, in italiano buono, dritta sulla sedia, con le donne di famiglia a cerchio, convocate.
La bambina sullo sgabello, attenta, a fare sì con la testa nei momenti giusti, insieme alla nonna, alla zia e alla sua mamma.
Bisognava ascoltare, anche se la pentola chiamava, anche se l’odore del brodo dilagava e il vapore appannava i vetri, anche se gli ovini certo galleggiavano già con la pelle un po’ crepata e promettevano delizie, anche se gli uomini di casa cominciavano a pestare, un po’ impazienti.

Il giornale si poteva comprare soltanto dopo averlo sentito, con le notizie raddoppiate in testa da mille spiegazioni.
Finalmente, i soldi già nel borsellino, il resto contato e ricontato, la vecchia accoglieva un pezzo di formaggio grana o un po’ di burro o le tagliatelle fresche del tagliere della domenica, sparite in fretta nella sporta col chiodo. Poi se ne partiva fiera, senza volersi mai fermare a tavola.

Te sei la maestra delle donne, quella volta dichiarò, solenne, la bambina, accompagnandola alla porta.
La vecchia si girò con le ‘putini’ agli occhi: Grazie per la calda parola, disse.
La calda parola.
E la bambina capì.
Capì che le parole sono gesti e calore: possono far felici, come un regalo mai aspettato, mai richiesto.

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Viserbeide (atto finale)

24 martedì Lug 2018

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Nello stanzone corridoio ora fervevano i preparativi del rientro.
C’era da fare presto, ma i vestiti e i costumi, prima ordinati nelle valigie grandi, erano lievitati in una montagna di panni mal lavati e mal stirati, con il rigido secco dell’aria di mare.
Ogni cosa andava piegata e rassettata, sistemata in cartoni di fortuna.
La Diana arruolata ad aiutare.
L’Ughetta seduta sulla sedia in fondo, sorvegliata speciale, tenuta a vista d’occhio.
Le cognate stanche e mogie. Aspettavano il nonno giustiziere, con la versione dei fatti concordata: Rosa, molto molto malata, quel giorno a casa con la piccolina , la Iris, eroica, in spiaggia tutta sola, con bambine due, un attimo d’attenzione ad una e l’altra scappata a tradimento, la curiosa.

Anche la più piccola aveva il suo da fare, nel cortile, spazio concesso fra cento e più raccomandazioni. La promessa di non uscire assolutamente dal cancello,
Si fece un elenco di priorità. In primo luogo urgeva raccogliere i semi dei girasoli per avere la scorta dell’inverno, come insegnavano le formiche. Poi era necessario scegliere i sassi da portare a casa e quali lasciare lì, infine togliere la sabbia alle conchiglie insieme all’odore di freschino, per farne un sacchetto più leggero e asciutto.
Doveva stare tutto nella borsa di paglia, aveva detto sua mamma, sennò ogni cosa si buttava. Era una minaccia.
Finita la cernita, molto scrupolosa, restavano i saluti.
Alla piccola piaceva salutare. La catalpa, la tamerice, anche il pino che dava sulla strada erano già a posto. Una carezza per ciascuno: ancora sulla mano il senso della corteccia irta e l’odore di resina salata.
Anche il muro era stato sistemato (un ciao bello grande, inciso a graffito in un angolino).
Restava la fontana.
Con i pesci rossi.
Bastò fare tre giri tutt’intorno al bordo della vasca, strisciando solo l’indice sull’orlo liscio e tiepido di sole. Quello era proprio un bel saluto.
Ma i pesci?
Si inginocchiò, con la faccia a filo d’acqua: soffiò tre volte, per ogni pesciolino, ma le pareva poco: meglio una carezza per ciascuno.
Si alzò e ficcò in acqua tutte e due le mani, per fare un gioco di barriera, ma erano pesci guizzantini e non c’era verso di toccarli.
Magari a spingersi più in là, ancora un po’ più in là …

Il nonno salvatore apparve sul cancello, senza spada senza cavallo bianco, per afferrarla giusto in tempo per i piedi, i riccioli sott’acqua.
Dallo stanzone corridoio si udiva la voce delle donne, che ignare cantavano ‘O campagnola bella, tu sei la reginella dei campi tutti in fior…’
Alla piccolina sembrò il canto delle sirene.

Viserbeide (la fuga)

22 domenica Lug 2018

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La bambina Ughetta aveva camminato. Tanto camminato.
La spiaggia era piena di cose da guardare. Nell’ora del dopo bagno, lenta e pigra.
Com’era successo, proprio non sapeva.
C’è da dire che una delle zie era rimasta in casa, la mattina, perché il mare la faceva un po’ nervosa. Anche la piccolina era restata lì con lei, a mettere i semi di girasole tutti in fila.
(Gli ultimi giorni di spiaggia fiaccavano le donne, che avevano la testa già al tornare indietro.)
L’altra zia, invece era più soda: la tenda arrotolata sotto il braccio, la borsa con gli asciugamani, era partita con passo bersagliere: l’Ughetta e la Diana al seguito, ancora poco sveglie.
Dopo il bagno in mare, la bambina era stata ben lavata e fasciata col costumino che piaceva a lei, sotto la tenda fresca e gli asciugamani per tappeto.
La bambina aveva mangiato la sua fetta di pane con il burro, coscienziosa, attenta che la sabbia restasse a casa sua.
Non c’era niente da fare, mentre la zia si prendeva la doccia per cambiarsi poi in cabina.
La Diana rosolava al sole con l’odore di cocco come aureola. Gli occhi chiusi e le bretelle del costume scivolate, per succhiare la luce in modo pari.
Passò una palla rossa. Ecco forse cominciò così.

La palla rossa era un gran richiamo: diceva seguimi bambina, non sarò rotolata qui per caso.
C’era soltanto da obbedire.
E darle un calcetto per vedere dove andava, poi ancora un altro e un altro ancora e ancora e ancora.
La palla rossa se la prese l’onda e la bambina la lasciò andare: non poteva bagnare il costume asciutto e c’era un castello di sabbia da guardare, con quelle pareti così lisce che parevano sfregate con un panno …
Servono conchiglie, sentenziò uno dei bambini muratori e lei si mise d’impegno per cercarle, specie quelle a campanile che davano uno slancio verso l’alto, ma poi passò quella ragazza col costume giallo che pareva una modella: tutto un lavoro di fianchi a camminare. Troppo bello seguirla appena un poco da lontano, imitandone le mosse come un cagnolino, e le mamme sotto gli ombrelloni che ridevano a vederla.
E poi, e poi quel gioco di biglie che correvano su e giù per piste d’acqua e sabbia: bastava lo schiocco dell’indice col pollice di ragazzi piloti infervorati.
C’era da fermarsi per capire, con la voglia di averle tutte fra le mani, quelle biglie di vetro coi colori dentro. Ne vide una ferma fra la sabbia, si chinò come per grattarsi un piede, invece se la prese di nascosto. Stette un po’ lì, per non destar sospetti, poi corse via, felice del bottino.
Si fermò quando non respirava più, per guardare da vicino il suo gioiello.
Bello era bello, con quella striscia un po’ d’oro e un po’ turchese…
Lo pulì con cura e si guardò intorno.
Un bagno con gli ombrelloni tutti uguali, azzurri, con le frange. Tanti mosconi a riposo sulla riva, il molo dritto, con i massi grandi. E il mare che pareva un altro, così pulito, senza sfilacci di cozze o di catrame.
E le cabine in fila indiana con l’ancora celeste stampata sulle porte.
E le signore che parlavano fra loro. Sullo sfondo un albergo con vetrate immense che riflettevano il sole.
Un mondo sconosciuto.
Si sedette così, sul bagnasciuga, con la biglia di vetro nella mano. E pianse, pianse disperata, come una pollicina senza sassi, nel bosco infìdo e traditore.
Aveva camminato. Tanto camminato. La spiaggia era così piena di cose da guardare. La palla rossa, il castello, le conchiglie, la modella, le biglie …
E adesso, come si faceva?
Attorno a lei il bagnino e le signore con il birignao.
Poverina poverina, non piangere, ti sarai perduta. Come ti chiami? Ma perché non sei con la tua mamma?
A sentire la parola mamma, l’Ughetta si mise a piangere più forte.
No, che non c’era, la sua mamma, lì.
C’erano solo le sue zie, subito avvolte da un’aura di matrigne cattive e sfaccendate: sempre sedute sotto la tenda, all’ombra.
Lei solo sapeva che stava in una stanza lunga, dove le cugine mangiavano la marmellata, sua per altro, e così buona, ché sua mamma la faceva con le prugne.
E di sopra entravano tanti pipistrelli.
E c’era il bagno fuori.
E la porta non copriva tutto: i piedi spuntavano da sotto.
Fra i gemiti di orrore dei presenti, il bagnino fece l’elenco dei cognomi di tutti gli affittacamere del luogo.
Fu riconosciuta la levatrice del paese, col nome un po’ tedesco.
Il ritorno fu un trionfo in bicicletta, alle tre del pomeriggio, sotto un sole sudato e gocciolone.
Le zie con i sali, in preda a svenimento, la Diana lasciata in spiaggia per vedetta, i parenti allertati per telefono fino al terzo grado, il nonno già nella macchina a servizio per riportare a casa tutto il gregge.
O quasi.

La bambina del quadro

16 lunedì Lug 2018

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Non che fosse gelosa in senso stretto.
A vivere con altre tre sorelle s’impara a non avere invidia, specie se sono meno belle.
Però.
Però con la cugina, che arrivò con quell’aria cittadina per fare qualche giorno lì in campagna, sguardo sussiegoso e puzza sotto il naso, qualche stringimento certo che veniva.
Giusto la sua età: 10 anni, tondi come uova. Le altre sue sorelle un po’a scendere e a salire.
A tavola, sempre a servire l’ospite per prima, con tanti sorrisini, i parenti ogni giorno in processione per fare visita, un piatto con i fichi fioroni appena colti, una fetta di ciambella su un centrino. E a ripetere ma che bella, ma che pelle fina, un quadro, sembra un quadro da tenere in casa, tutti d’accordo nel cercare nobili ascendenze e somiglianze.
Nel frattempo lei, la bambina, insieme alle sorelle, in piedi sulla scaletta, nel secchiaio, a governare i piatti e le stoviglie: era questione d’un attimo sentirsi Cenerentola.
E poi e poi, c’era pure da cedere un lettino: nella stanza già si dormiva in quattro e bisognava trovare la sorella disposta a spostarsi nel granaio, con le finestre piccole e ovali, messe di traverso, e senza vetri. La più grande aveva tanta tosse, le piccole paura, quindi la conta ricadde su di lei.
Alla bambina questo non spiaceva: il granaio aveva un tappeto di mele, poste a riposare. Erano quelle di san Giovanni, che venivano mature a fine giugno, con un profumo lieve che è di pesca, o forse d’albicocca, condito d’erba fresca. Si poteva mordicchiarle al buio, col finestrino puntato verso il cielo, sperando nell’arrivo di un gufo o una civetta. Concerti notturni da ascoltare, distesa sopra il materasso poggiato sul paglione, crocchiante di foglie di granturco. Era una bella compagnia, perché ad ogni movimento pareva di correre in mezzo alle pannocchie già mature, ma senza lance pronte a fare male. Il sonno arrivava insieme al fresco, senza nessuna ombra di timore.
La mattina si era giù in cucina molto presto: dopo che l’uomo della stalla finiva di mungere le mucche, bisognava ringraziarle con un po’ di fieno fresco.
Questa cosa potevano farla le bambine, perché non era di fatica. Bastava una forcata d’erba medica seccata, con l’odore del caldo ancora rannicchiato: un tocco verso l’alto, perché cadesse in una pioggia leggera di fuscelli.

Con le scarpe candide di biacca e le calzine in tinta, l’ospite apparve sulla soglia della stalla: una visione tra Ferrara e il Paradiso. Era bianco persino il fiocco fra i capelli, drappeggiati da un intreccio di forcine.
Peccato ci fosse una boazza, un resto escrementizio del vitello, appena governato fuori sede: le immacolate scarpette profanate.
La Celesta accorse al grido nipotale.
C’era da far presto, per cancellare l’offesa: la figlia fu spedita a cercare un panno umido. L’ospite, intanto, seduta sul bordo dell’albi, già colmo d’acqua per le bestie, la gambetta tesa, quasi ci fosse da provare una scarpetta di cristallo, come le sorellastre cattive della fiaba.
La bambina s’accucciò e si mise a sfregare e a pulire sotto gli occhi compiaciuti della madre, ma sbirciò un momento verso l’alto e incrociò lo sguardo malizioso della cugina, un mezzo sorriso tra il perfido e il beffardo.
E la cosa accadde, com’era naturale: un guizzo d’orgoglio e di risentimento.
Scattò in piedi, a due mani le strappò il fiocco e le spettinò di malagrazia il ciuffo costruito, come quando si cerca un ago nel pagliaio.
L’altra, arruffata e con il nastro pendulo, restò senza parole e la bellezza del quadro si scompose: la bocca diventò una caverna nera, senza fondo e senza voce, gli occhi rossi da diavolo cattivo, cupi di oltraggio e meraviglia, la faccia rincagnata dentro il collo.

Bastò una spinta lieve e l’albi l’accolse, liquido e gentile.

La bambina delle anatrine

09 lunedì Lug 2018

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Si sentì piena d’importanza, la bambina, quando varcò i portici e infilò la stradina sghemba che raggruppava tutte le botteghe: ora toccava a lei, la scelta, perché la scuola stava per finire e c’era da pensare alla maestra, che se ne andava per via della pensione.
Le compagne di scuola avevano il ritiro: esercizi spirituali, con anima contrita, dentro la canonica ben chiusa. Per tre giorni odore d’incenso e piastrine di cioccolato e mandorla pressata. Restava solo lei, e anche la Camilla, che aveva gli orecchioni: i soldi del regalo nella busta e la raccomandazione di scegliere per bene. La mamma si era anche offerta, ma questo non valeva: la bambina sapeva cosa fare. Un soprammobile, la classe aveva decretato.
La scelta era la bottega di ceramiche, un po’ più in là, dopo l’albergo del voltino.

Era una bottega silenziosa e quieta: chiedeva scusa, nei giorni caldi dell’estate, per non avere neppure una veranda e allora abbassava la sua tenda e, all’interno, domandava soltanto un po’ di acqua fresca sull’assito. Per tener buone polvere e calura.
La schizzava con estro la padrona, che un poco zoppicava, intingendo le mani in una boccalina azzurra e poi spruzzando, qua e là.
Sapeva di piazza, l’acqua su quegli assi, di cani a zampa corta, pelo bagnato e tiepido.
E sapeva di fiume, di riva al chiuso dei cespugli, anche di tinche che sguazzano nel fango, all’ombra.

La bambina si pulì i piedi ed entrò con un po’ di soggezione.
Come pestare tanta grazia in forma di arabesco?
Le gocce erano mappe di isole segrete: una semina di dita delicate, acqua e cortesia.
Sugli scaffali molte meraviglie: damine di gesso pitturato col vestito tutto a pieghettine, una conchiglia rosa a fare da vassoio, un cavallo cangiante con la criniera al vento, persino una coppia di olandesine in porcellana, sedute sulla panca di un mulino.
Nella vetrina, proprio in bella mostra, cestini intrecciati e fioriti di rosette: quasi capodimonte, diceva la padrona.
Lo sguardo si posò sulle anatrine bianche in dialogo fra loro, sul capo un fiocco blu, molto civettuolo: tanta bellezza finita proprio lì!
E’ il colore che piace alla maestra: ha sempre il golfino blu, col buco nell’ascella, la bambina seriosa ragionava.
Poi, sentito il prezzo, capì che bisognava sceglierne una sola.
Indicò la più grossa, accovacciata in mezzo all’erba, col fiocco che giganteggiava e un poco a cul in aria. Ma appena appena…
Sembra vera, neh? Una meraviglia. Sì, costa un po’, ma piacerebbe anche a mia figlia.
Così comprò, rassicurata, e si sentì addosso il beneplacito di un’inattesa sorellanza, di una figlitudine adottiva.

Non si dà dell’oca all’insegnante!, le parole uscirono a sparpaglio da una maestra quasi inferocita, col mento che tremava per la delusione, tra scolari sguardi di riprovazione.

 

 

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