Non so da dove arrivi l’amore per le strade.
So che s’accorda all’estro del momento, al tempo delle cose, agli umori del sole.
Anche dell’ombra.
Piace che le strade vadano nel mezzo, con svolte improvvise di platani o di pioppi.
O che si aprano, pigre ed emiliane, ad ospitare ai lati le donne in bicicletta, mercati un po’ cinesi e un poco no.
(S’aspetta che arrivi la città costeggiando furgoni di ultime arance parasiciliane e radicchi appannati fra canali di aironi imbalsamati)
Piace che passaggi a livello mai cambiati e semafori che pendono dall’alto impongano soste visionarie.
(L’anatra che passava sulle strisce, giuro, quieta e ancheggiante, sotto un incrocio di sguardi divertiti. Qualche tempo fa)
Piace che si possano rubare scampoli di vita, ai bordi della provinciale.
(Case anni ’50. Alcune con zoccoli di marmo ad arlecchino e il gioco di un volume rientrante, giusto per muovere un poco la facciata. Balcone in muratura appeso a due colonne, dipinte a finto marmo. Stile geometrile, insomma, si dice qui da noi)
Sul portone di una casa gialla, una vecchia, davvero molto anziana e corpulenta, sta salendo sulla bicicletta, manubrio largo e ben squadrato, da primo dopoguerra.
Il marito è alle spalle di questa laboriosa operazione.
Si salutano, ma l’uomo non rientra: ferma la moglie con un eh, poi la raggiunge, le rialza il bavero e le sistema i capelli, dietro al collo.
La signora è in fragile equilibrio sulla pista, ora. Sorride.
Ferma al semaforo, mi prendo questa scena e mi dico che forse c’è speranza, se restano i gesti: quelli semplici, come i rami che tornano a inverdirsi, semplici e sufficienti a fare casa.