• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Le parole

21 domenica Giu 2015

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Le parole.
Talvolta si fermano nell’attesa di una carezza, covano dolcezze in frigoriferi remoti o intristiscono dimenticate ai bordi di un cassetto.
Si guardano allo specchio ( se parlano da sole), ma anche limano le unghie per calcolati affondi o per certe felinerie cattive.
Solo poche volte s’addormentano, paghe di quel che hanno già detto, più spesso s’incupiscono in stagni di fraintendimento.
E per vederle femmine, ah per vederle femmine … le parole hanno bisogno di sguardi profilati, di duelli in punta di fioretto, allora disegnano la bocca di malizia e accendono gli occhi.

Piace, ogni tanto, far la conta di quelle che accompagnano la vita.
Le mie.
Piace stenderle sul filo,  toglierle dal libro di sabbia, scuoterle piano, col polso che si fa becco di cicogna. Piace rinfrescarle d’aria (in fondo sono come le doti delle vecchie ragazze: pile di tovaglie e tele fini, regalo di una cura che si dà a dozzine).
Con le parole è come con le cose: se non si ripassano, si finisce con l’usare sempre quelle.
Meglio, allora, per una volta, dispiegarle, lisciarle  e ripiegarle: in  file nuove, ma senza l’etichetta; solo un’immagine a tenerle a bada.

Io sempre vorrei tante parole ponte.
Sul ponte scorrono le idee: il ponte annoda  e stringe, profana la distanza, preso d’amore per quell’altra sponda.
Sul ponte scorrono gli affetti.
Sono belle le parole-ponte. Vivono fra isole. Prendono per mano, a ritrovare quelle del fiume, del mare e del lontano.
Ma stasera, che è sera di folgori appena un po’ annunciate e di buio estivo, vorrei scovare e stendere sul filo parole d’orecchino. D’oro e messicano. Gabbiette luccicanti con il cuore di lucciola viva, al posto del diamante, che sappiano bisbigliare, fare il grattino, per strappare un sorriso.
Parole a disperdere ansia, ad augurare rotte e ritorni, parole che accompagnino come gli sguardi buoni: sorgive e luminose.
Perché non hanno nemici, le parole e gli affetti, se non l’opacità.

(stanotte ne penserò tante, parole di famiglia, da tirare fuori dai cassetti per Giulia, per Rossella, per tutta la loro/nostra cara gente)

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Come se fosse il 29 luglio

13 lunedì Ago 2012

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Il giorno non è questo, ma è un altro ancora, di poco tempo fa.
Le date non scappano, però: sono talpe che scavano cunicoli nel fondo e lasciano la terra smossa di piccoli rimorsi, di ricordi puntuti come spilli.
Solo non potevo, il 29; non potevo tener fede a una mia promessa silenziosa.
La  racconto adesso, una storia di casa mia. Che poi non è una storia. E’ un modo di esser figli. E a casa si resta sempre figli, e pure  nel paese, dove, per dare senso a un nome, occorre risalire alla paternità.
E io sono ancora figlia.
Qui.

La prima riunione ebbe un chè di carbonaro o di massone.
Si doveva andare  nella casa del biolco che stava nella corte del padrone.
Si camminava al buio, zitti zitti, con fare circospetto e sovversivo. Mica si poteva dar nell’occhio, ché poi sarebbe stato il biolco a trovarsi qualche grana. Per via dei rossi in casa.
Anche la ghiaia pareva aver capito e se ne stava quieta nell’argilla.

La porta si aprì sulla cucina, la tenda coi fili tenuta con la mano, le sedie già prese, le donne sedute attorno al tavolo di formica. Gli uomini in piedi.
La ragazza entrò col cuore in gola, suo padre dietro e Nedo a chiudere la fila di quelli che venivano da piazza per dir le cose lì,  nella cellula lontana, una spiga di case e di stradelli,  campagna e poi campagna.

In macchina suo padre aveva detto:  qui non c’è da far la machiavelli, vai semplice, chiara e senza storie. Non basta avere ragione, bisogna farsela dare.
La ragazza aveva detto sì, con le idee di colpo in confusione.
Il discorso, che aveva preparato, friggeva nella tasca: meglio lasciarlo sul sedile della bianchina scassata del piccì.
Spiegare la cosa alle magliaie, della serrata che bisognava fare, fermare le macchine tutta settimana per fare uscire la rabbia  allo scoperto: almeno conoscersi fra donne, trovarsi tutte insieme…

Le disse queste cose, tutte col cuore e con la vergogna della prima volta, quella che sale dal collo e poi parcheggia, stabile, sul viso.
E  anche si lasciò un poco andare, ché le lavoranti a domicilio son le mondine nuove, disse, le più sfruttate. Loro, via, con le gambe a marcire dentro l’acqua, e voi in casa, sempre in casa, a parlare col muro e a fare due lavori, uno pagato niente, l’altro pagato uguale.
Quando vide le donne assentire con la testa, guardò il padre.
Il padre non diceva niente.
Le donne diedero i nomi, per esserci alla prossima riunione: volevano capire, sapere come fare, sentire le altre.
E il padre non diceva niente.
Gli uomini le andarono vicino: ah ma parli come tuopapà, si sente che sei brava a scuola.
Ma il Gi era già uscito e bisognava andare.

Il padre, che non cantava mai, in macchina si mise a fischiettare son la mondina  son la sfruttata, sono la proletaria che giammai tradìììì…

Brava, le disse con una pacchetta leggera sul coppino.

Lei ci lesse tutte le parole che servivano ad essere felici.

La Zena

01 domenica Gen 2012

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La Zena era come certe viottole di campagna.
Cominciano aperte e chiare con le siepi basse ai lati, l’erba cavallina e la salcerella fiorita, poi non sai cosa succeda. La strada si stringe, piega storta e l’orizzonte non c’è più. Sparito, per colpa dei cespugli, alti all’improvviso, e fitti. Se ne indovinano i nidi, di scricciolo o di cincia, per certi chioccolii segreti: e allora viene voglia di far piano ché qualcuno potrebbe volar via, fra le ramaglie.
Ecco, i pensieri della Zena facevano presto a volare via, ad andare per aria: era difficile seguirli.
Si parlava di questo e di quello e poi, poi nessuno capiva più e c’era quasi paura di disturbarli, i suoi pensieri. La Zena un poco metteva soggezione, per quel suo infilare, nelle chiacchiere, dei ‘ma’ e dei ‘se’ che sembravano sbreghi di garza, dei ‘perché’ che pungevano come ferri da calza.

“La fa la ponta a tut”, dicevano in famiglia, ma la Rosina suamamma volentieri se la sarebbe tenuta in casa quella figlia testarda che non chiedeva scusa, ‘na figlia che si era gettata in Po dietro i gattini nel fagotto, col freddo che c’era, e aveva detto “provateci ancora che mi lascio andare giù”, ‘na figlia che ti prendeva il cuore con un gesto, poi ti gelava e ti fermava la lingua solo con la mano sopra il braccio. ‘Dolsa e brusca’. E che sempre voleva sapere e andare nella scuola vera, non in quella di paese, dove la maestra scappava ad accendere il fuoco sotto la pentola. Disposta ad andare con la battellina, da sola…
Bella era bella, del metallo che rivolta la terra, pallido coi lampi scuri: non è argento e non è cielo, ma se c’è lo scherzo di un po’ di luce, allora è vita. Bastava che scucisse un sorriso, la Zena. E lo faceva mentre chiedeva a suo padre come nascevano i cavalli e come si faceva il vino, come si arrivava al caglio e come girava il sangue.

La volevano in tanti, ma lei neanche li vedeva: rispondeva male ed era sempre un no, perché se lo sentiva che la vita non era tutta lì. Non poteva esser tutta lì. C’era da andare.
Allora s’innamorava delle strade e le seguiva coi nomi che sapeva: dopo Carbonara c’era Borgofranco e ancora Ostiglia e Ostiglia già era qualcosa…e dall’altra parte, dall’altra parte dopo il Cavo, c’era la Bonifica e poi Sermide e Bondeno e anche Ferrara, che era mare e aveva un rosso nelle pietre da imparare…

Spariti i sogni della scuola, le restava da aiutare in casa, ai Due Mori.
Aspettava il tardi, che la gente andasse via per sparecchiare al tavolo del farmacista, triste e forestiero, storto come una vite, che restava nelle voci finchè poteva e scriveva e scriveva e buttava a terra stracci di scarabocchi.
Con la scopa la Zena li spazzava via: non li bruciava nella stufa, li apriva e li stendeva bene con le mani: ci leggeva di argini e di pioppi, di un camminare la mattina presto con la fatica di un corpo che non tiene, di uno stare da soli nella gente.

Lo aspettò una mattina di gennaio, dove la strada trova l’argine e va su. E glielo disse. Glielo disse che sapeva i suoi pensieri.
Si sposarono d’amore, in un maggio che era tante cose: il vestito bianco, le rose puntate alla cintura, e solo l’aria fina in testa, il calesse pronto per partire.
Così la Zena arrivò a Ferrara coi suoi ‘ma’, i suoi ‘se’ e i suoi ‘perché’, che sciolse e raddoppiò, col tempo, nei libri della casa grande, nei quaderni dei figli che crescevano, nelle parole di chi veniva per ascoltare i pensieri suoi.
Quel che sentiva, adesso, era che la vita davvero stava tutta lì, nelle stanze senza umidità, nel parlare la sera, carezzando la tovaglia bella e le posate a specchio, nel conoscere il nome delle cose.
E c’era la paura di perderne uno spicchio, di quest’arancia dolce,  perché il dolore sta dentro il poco e il tanto e vien fuori quando pare a lui.
Non fu il poeta a portarle via la figlia, lustra come la stella diana. Se la sposò un sardo piccolo e potente. Per far partorire una montagna, portò con sè la moglie incinta là, lontano, e la Zena, con la mano fredda nel saluto, sentì un ‘perché’ infilzarle lo stomaco fino a farlo sanguinare: capì che era il dolore, lì, pronto ad uscire.

Non si salvò nessuno: l’aereo si ficcò nel mare e sputò una cassettina d’ori che la Zena, piccola e rannicchiata, riconobbe e tenne lì, incerta se vivere o morire. I capelli bianchi all’improvviso, come le parole.

Poi, poi con l’indolenza pigra dei mattini, la vita si prese il tempo che voleva: pretese anni e anni di cura per chi restava, per i narcisi gialli, per la casa, per la sposina giovane, la nuora della Dina, che piangeva e piangeva per il suo grembo vuoto.
Come il vuoto sa chiamare il pieno o trovare la carezza d’un vuoto uguale…
Fu tutto un fare, un tremare, un correre per questa Rosa giovane, un trascinarla città su città, dottore su dottore, su incerti scarpini con le rondini e una veletta grigia.
A buon fine: tutta l’attesa in una curva rosa.
Nella stanza che dava sulla piazza: tenuta lontana persino la corriera.

Giusto per un saluto, uno sfiorarsi di esistenze, che resta nel nome.

Ancora maggio, ancora rose.

La Dina

28 mercoledì Dic 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Aveva un chè, la Dina, un chè forse di tenero e severo: gli occhi attenti, l’espressione buona, ma come dietro un vetro di rispetto.
Non dava confidenza.
Per dire: niente mani, all’osteria, ad accompagnarla neanche per un gioco, niente scherzi.
Era lei, la più giovane di casa, che andava a comperare, dove c’era bisogno d’occhi aperti.
E non provassero a ingannarla con certe galline, grasse e gialle, buone solo a far del brodo e poi e poi… “’Na gallina, ho detto, mica ’n asino, ustion…”, ribatteva al contadino, e il suo ustion disegnava nell’aria un’ostia gigantesca, bianca e sottile: il sacro invocato a ombrello, che per tutta la vita fu  il segno universale di ogni suo risentimento.
Non perché alla Dina mancassero parole. Anzi. Solo parlava alla sua maniera.
Si innamorava di alcune, le portava in giro e le addomesticava.
Le piacevano quelle da spiegare ad un “degno uditorio”: nella stalla, prima, e a certi tavoli dell’osteria, dopo. Solo a certi, però.
Erano le parole che leggeva nei Miserabili, la sera, quando le gambe le facevano così male, e lei, a letto, sotto il tetto, con l’armadio schiacciato dalla trave, tutte le ripeteva a voce alta. Con gli accenti ci prendeva poco, perché non è facile far suonare nella stanza le parole di un libro. Si ha quasi soggezione.
E le spiaceva che la Noemi se ne fosse andata; di nascosto le scriveva, là in Costarica, e le diceva, sì,  dell’Alda e della Zena e di suamamma e della Nella bella e degli uomini di casa, ma anche di jeanvalejan e di quel che succedeva. A dire il vero, pure cambiava, perché, li avesse scritti lei, i Miserabili o la vita, non avrebbe fatto morir di freddo la Fantina.
Nel mondo nella Dina nessuno aveva da sparire e anche il tirare il collo alle anatre mute era cosa lasciata a Guido suo fratello, pure i conigli  con le faraone. Poi, una volta sulla tavola, tutte scorticate e pelate e passate sotto l’acqua, le carni erano come le parole: da far rivivere per una gioia di sapore e allora andava bene.
Ché  la Dina inventava storie e piatti alla stessa maniera. Stavano nascoste, le storie, nella pancia delle parole, come nella pancia delle galline stanno gli ovini senza guscio, che, a farli cuocere nel brodo, sono una delizia di caldo e  di sale… Il regalo del brodo, come certi ripieni fatti di nulla e pangrattato, con l’anima di prezzemolo dell’orto. La meraviglia del poco.
La Dina spignattava e pensava alle storie che avrebbe raccontato nella sera, di bambini scambiati nella culla, di lattanti con il pelo matto in faccia, di maggiòrdomi fedeli o traditori e intanto, intanto diventava, lei, regina, regina di pentole e padelle fra sfrigoli  e fritture, regina di trippe sbiancate e poi arrosate, di stracotti lardellati con chiodi di garofano (quieti a  sobbollire nel barolo) e di polente scivolate lievi a sposare il burro e il parmigiano, pronte a rivoltare il gusto campagnolo nel tondo di una punta di tartufo…

E quella sera, fiera di un racconto che era un tripudio di maccheroni col selvatico (voluttuoso di rigaglie e salsa ripassata),  aspettava in fondo alla cucina il lieto fino: il piatto vuoto.

Tornarono indietro nove maccheroni.

La Dina scese dal trono. Lenta e decisa.
Andò dritta al tavolo della rivolta.
“Perché?”-disse imperiosa.
“Formaggio. Colpa del formaggio- rise l’altro sotto i baffi, anarchico nell’anima e nel fiocco – S’attacca al piatto. E questo non va bene.”
Il casaro le parlò, con poesia nuova, del latte che diventa grana e dorme nella crosta nera, perché il buio non ha altri colori. La Dina, rossa come un pito, ascoltò la storia dei paioli di rame. Vide le forme ballerine e i riti dell’assaggio.

Le portò il formaggio buono, l’uomo dagli occhi chiari. Un giorno. Come un anello, come una promessa.
Era la sagra del paese. Andò nella cucina e disse: “Si balla, nel cortile”.
La Dina la regina, la Dina la severa disse di sì com’era, col grembiule a quadretti e le ciabatte.
Fu un valzer lungo e malandrino, braccia morbide e un bacio a tradimento, dietro la pesa.
Durò più d’una vita.

L’Alda

13 martedì Dic 2011

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Che poi, lì, era una faccenda d’anima.
Come avesse fatto un’anima  incantata a infilarsi proprio in quel corpo senza garbo se lo chiedeva anche la Rosina. ‘Sta figlia grossa e lenta pareva lavata nello zucchero. Certi centrini di cotone bianco e spesso, induriti in un bagno di sciroppo.
Poi le guardavi gli occhi e sapevi che la grazia sceglie le sue strade. Ci trovavi  un mentre trasognato, un dentro presente e separato, la mansuetudine di certe ciambelle che ringraziano il limone, per averle profumate.
A farle male era quasi un rubare in chiesa: tutto le allargava gli occhi e le restava a girare nella testa, come le giostre di latta dei bambini. “Ma pensa”, ripeteva.
Ché il mite regala lo stupore.
E lo stupore è scendere le scale, guardar la vita in basso, tra i pieni e i vuoti di un centrino, tra le zampe di una cavalletta.

Così la Rosina aveva i suoi pensieri. Con l’Alda che viveva coi conigli e non c’era verso di portarla in piazza, nell’osteria che aveva ereditato. C’era da prendere una pelle dura, da essere svelti anche di parola.
L’Alda no che non voleva, coi cavatori che al bel tempo facevano notte a carte e il vino e le cantate.
L’Alda voleva parlar poco, cifrare le lenzuola, diradare le barbabietole e guardare le galline.
Ché in certi giorni di caldo, con la fatica del mietere nel sole, lei sentiva il giallo dentro e stava bene.

Fortuna grande che venne nella corte un uomo.
La vide trapiantare i suoi mughetti.
I mughetti sono ingannatori. Il bulbo è vischio e ti si sfoglia in mano.
L’Alda, tutta infagottata, con le mani grosse scuoteva la terra così piano e la soffiava via, dalle  radici di latte, con un sorriso buono.
Le disse: “Te sei del paradiso”.

Che ci si innamori di un soffio di pazienza è cosa strana.
Ma tant’è.
L’Angilin, ricco solo di fisarmonica e di braccia, si portò in chiesa l’Alda e la sposò.                                                                                                                Brutto affare la fisarmonica. Qui si sa che chiama il vino. La musica si sganghera, sale per la manica, cerca il collo e la gola.
Suonava e poi beveva, l’Angilin, di una tristezza che spaccava il petto, la testa. Scaldava le mani e le faceva pugni. Senza memoria.
L’Alda era lì.
L’Alda era sempre lì.

La mattina, davanti ai segni rossi sulla faccia, agli occhi gonfi della moglie, “cos’è?”, diceva lui.
“La porta. La porta l’è dura”, sospirava l’Alda.
E piangevano insieme, seduti sul gradino.

 

La Noemi

09 venerdì Dic 2011

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Il fatto è che la Noemi nasceva ogni sera, quando la gente della corte si trovava nella stalla. Erano ore di buio, dopocena, che in letto non mandavano nessuno: la casa era col gelo sventagliato ai vetri e l’osteria lontana. Ah, se era lontana l’osteria, nella nebbia che rugava la gola e si mangiava pure l’insegna di ferro. Una nebbia che neanche i fanali, che neanche le preghiere… Ché poi, se preghiere c’erano, erano quelle delle vecchie, e pure a rovescio: il piacere era tenerseli attorno, gli uomini, la sera. Non fuori. Lì, nella stalla, invece. A guardare le figlie nei filòs, a tenerle in riga. C’era poco da fidarsi con gli sterratori in giro. Cavatori a giornata, al canale, braccia forti e mani svelte, presi a figlio per compassione e messi a dormire nella stalla, dopo, ad usci chiusi…

La Noemi scendeva fiorita nel bustino, con la camicetta delle feste, scura a piegoline, e lo scialle a coprire, ché la Rosina suamamma, se la vedeva prima, la faceva tornare su, a cambiar veste.

La Noemi aveva gli occhi neri e dritti, di certe bellezze spigolose che non si sciolgono in dolcezze di sorrisi, ma si stringono nei vuoti della faccia. Aveva il petto fermo e la vita ben fasciata: di nascosto, s’imbustava  anche di notte per mettere la carne in posa – diceva – o per sentire che effetto fa esser stretti al buio, col soffoco, rideva la Nella suasorella, che dormiva con lei nella stanza delle mele campanine  a far tappeto brusco, sotto le finestre.

Entrava nella stalla per ultima e come una regina. Sedeva lì, vicino alla Rosina, nella striscia bassa, di mezzo, fra le poste delle vacche, che voltavano la schiena. A tirare dentro al sanguinello, che dentella le dita, e alla robinia, che cede latte amaro, per le ceste dell’uva e delle pere. E a cercare con gli occhi, fra i  tanti, il Doru, bello come un dio, di sguardo frugatore.

Si lasciava che le mani andassero, che i bambini si nascondessero sotto le sottane, che le storie facessero il giro delle volte.  La Noemi le sapeva tutte, anche le storie di Sonia di Talem; le ripeteva piano, con gli accenti giusti e coi sospiri; il contatore Calanca, sterratore del cavo, guardava lei, se perdeva il filo, ché tanto lo trovava sulla bocca.

Così mi scaldo– diceva lei: ch’ era un bel volere star caldi con sei vacche su uno strame fermentato. Il fieno dava d’acido, nella stalla pregna dei vapori delle bestie. Anche di parole. Quelle rosse, con i baci e il tremore della gola, la Noemi le diceva con gli occhi ben piantati in faccia al Doru. Le sentiva dentro, che picchiavano nel petto: allora tirava i salici del cesto, come fossero i capelli della donna, che l’uomo le aveva preferito. Il Doru la guardava, la guardava.

Quando una sera la aspettò, giù dalla scala, nello sbieco di ombra della porta, la prese per un braccio…“ Se vuoi…” Disse di no, la Noemi, e tornò di sopra, senza volere.

Le sorelle si tagliarono i capelli, di martedì, il giorno di mercato, per vendere le trecce. Coi denari la Noemi prese il vapore.  Partì da Genova, senza dir niente a nessuno.

Kunta Kinte, ovvero radici

09 venerdì Dic 2011

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Vengo da una famiglia grande e sarmentosa: le radici hanno filato in tante direzioni in un lungo arco di tempo. A tenerne uniti i tralci, oltre agli affetti, ai riti e ai contatti di cuore e di voce, sono le storie che non ci stanchiamo di raccontare e di ascoltare. Le abbiamo sentite da piccoli, le abbiamo viste rotolare sulla tavola, reinventate, ogni volta, e ce le ripetiamo con ostinazione perché non vadano perduti né nomi né vite. Ci fanno compagnia e rammendano i buchi con cui il tempo dirada e sfilaccia la famiglia.

Per questo mi pare propizio, in una casa nuova, aprire una vecchia finestra: c’è bisogno di lari e di penati, c’è urgenza di presenze amiche per prender confidenza e per scaldare uno spazio bianco.

Diversi anni fa, durante un riposo forzato, fatto di febbre e di tosse, un amico mi chiese da dove provenisse il mio nome. La risposta fu un grappolo di racconti: il mio nome viene da lontano, da una delle sorelle di mia nonna. Cinque sorelle. Dentro i loro destini così diversi ci sono i semi delle nostre vite. Spero non dispiaccia, a chi passa per questo luogo, rileggere o leggere per la prima volta le storie della Noemi, dell’Alda, della Nella, della Dina mianonna e della Zena.

Domani comincerò. Buona notte.

Aprile

01 venerdì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Se mio padre decideva di andare a pescare, la casa viveva giorni di apprensione.
Le canne non erano mai come erano state riposte e tutti  si  era  sospettati  di  sotterranei  boicottaggi, nodi  a tradimento  sull’esile  filo di  nylon, mulinelli  inceppati, esche rivelatrici  di  capelli.
Miei, i capelli.

Era vera solo la  faccenda  delle  esche:  quelle piumette, quei quasi  campanellini luccicosi erano giochi,  trucchi arabi di  orecchini-amo  e  di   mosche acchiappacapelli, con cucchiaini  a pendente.
Il  paniere  da  pesca, superato  lo  scoglio dell’odore, era una riserva di  idee, nei mesi freddi, quando si doveva pure fare qualcosa.

La  vendetta di mio padre  non tardava a venire.  Il lungo  filo di  nylon veniva  interamente srotolato e riavvolto  con  cura a ripetuti giri attorno ai muri della casa, che diventava una grossa rocca da fuso, legata dall’invisibile.
E noi, i prigionieri, eravamo impediti ad uscire per lunghissimi minuti  in cui  a tutti scappava la voglia necessità impellenza di  correre fuori.
Ma  il pescatore punitivo srotolava imperterrito la sua matassa  senza labirinto e ci dava la voce dalla fìnestra.
Il “nessunesca” sembrava un passo di opera lirica, per via dell’autorità che mio padre metteva in ogni cosa, piccola o grande che faceva e diceva.

“Dov’è che vai?” – chiedeva la Rosa miamamma, che sperava in insuccessi totali  per lo  schifo  che aveva del pulire il pesce, con quelle  sue  bolle d’aria  o vesciche. I bambini le aspettavano per farle scoppiare con lo zoccolo, ma poi si lasciavano le schifezze delle  interiora alle spalle; era lei a pulire, non  miazia, perchè miazia ad ogni cambio di stagione  aveva l’ acidità di stomaco, che neanche col fungo cinese  andava via e la vista dei baffioni  dei  pescegatti  non migliorava  niente  il suo male.

Il  fungo  cinese, che gorgogliava  come  una  frittella di spugna  nella  boccalina  di vetro, in un’acquetta  acida e marrone, lo bevevamo  dì  nascosto anche io e la Diana, lei perché voleva ben vedere  cosa beveva sua mamma  e io perché volevo ben vedere cosa beveva la Diana.

Il fungo cinese sapeva  di rancido amaro e galleggiava incerto con quel suo orlo-labbrone a smorfia.

Comunque a miamamma toccavano i pesci da tagliare  sulla pancia e da strizzare  bene coll’ unica compagnia del gatto, che,  con misurata circospezione,  dava dei colpetti a qualche  pesce  periferico, per tirarlo dalla sua parte.

Le  risposte  di  mio padre, circa i luoghi di pesca,  erano bellissime  e  disegnavano il lontano.
Lo attendevano non il Po o la Canalona, grassa di rane sui  bordi, ma il  Canal Bianco  o  il Tartaro.  E le tappe le faceva a Santa Teresa del Gesù.
Mica poco.
Io non sapevo dove fossero questi posti, ma mi  sembravano tutti di chiesa, molto di chiesa, belli e terribili, tanto che mi pareva più giusto che prima  lui pescasse nel Tartaro, che aveva un nome cattivo, e poi  andasse a chiedere scusa nel Canale Bianco, dove di certo i pesci erano chiari di latte e forse non si dovevano neanche pulire, e non avevano nè bolle sonore nè sangue.

Da piccoli c’è bisogno che i nomi dicano la verità, altrimenti cosa ci stanno a fare?
Si sanno solo i nomi. Si conserva, si  trattiene solo  la buccia.
Si ripetono di fila i nomi  delle  capitali  del mondo, ma chi sa cos’è la capitale, ma chi sa cos’è il mondo?
Se invece  i nomi fossero frecce…
Se portassero almeno una  direzione…
Se  a dire la parola si capisse  quel  che  sta dietro, uno, allora, non  avrebbe  bisogno  di  inventarseli,  i  richiami, né sarebbe costretto a inventarsi le parole.
Si starebbe al sicuro, come sotto un ombrello.

A Santa Teresa del Gesù ci  doveva  come minimo abitare la Madonna, o un angelo o due.

“Si possono cambiare i  nomi?”- chiedevo a mia mamma- “Chi è che li fa ? E se io invece di dire pesca da mangiare, dico lasugosa, ma so che è la pesca da mangiare, che cosa succede?”
Mia mamma  non diceva niente, o meglio mi lasciava dire, e guardava il suo uomo alle prese con un motorino che non partiva, scrollato da ogni lato, rabbiosamente.
Tanto io pensavo già ai nuovi nomi con cui avrei ribattezzato il mondo.
Nomi  di armonia, che stessero bene alle cose.

Passamontagna

18 martedì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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In effetti quello fu l’anno dei passamontagna gialli.
L’inverno di mio padre lontano. In Sicilia.
Io grande a metà.
Mia madre grande a metà, più un pezzettino.
Mio fratello piccolo e basta.

Risucchiata dall’alto, la parte dormitorio di casa si era ripianata nelle stanze di sopra, così come doveva essere, mentre la tavola grande e i divani erano tornati a fare il soggiorno. Il falegname sembrava averli lustrati col fiato, sfregando la manica del grembiule.

Sopra, però, restava il freddo delle case in cui non si abita da un po’, con l’odore dell’umido, che va via solo a primavera, insieme alla naftalina sbriciolata.

Molto freddo.

Per questo, la sera, la Rosa miamamma fingeva il gioco delle partenze.

Si doveva comunque andare a letto e la rampa di scale diventava lo spartiacque fra la casa da giorno, tiepida e lucida ora, sempre con la stufa a lingua di cane, e la casa da notte, gelida di spifferi, calda solo sotto le coperte, dove la padellina con le braci, dentro a una nicchia di legno, scottava le lenzuola e le cuoceva di un odore di pane.

Mica si poteva rischiare la traversata delle scale al freddo. No no.

E poi il bambino aveva una cera da schifo, pallido e con la tosse.

Allora miamamma metteva al bambino un passamontagna di lana gialla e, per vincere le sue resistenze, lo metteva pure lei.

Io no: meglio la morte. Meglio assiderata coi ghiaccioli. Meglio la brina sui capelli. Il passamontagna mai.

Però mi divertivo, sadica, a vedere la coppia in partenza per i piani alti, con quelle testine da uovo sodo…. Alla fine si rideva insieme, perché non si può stare seri se si calza un passamontagna giallo per andare a letto, e si finiva per cantare “La mooontanaaaaraaaaa ueeeeeeeeeee….” salendo le scale con gran rumore, tre bambini nella casa grande.

L’inverno mollò un attimo.

Fu allora che la fase creativa della Rosa miamamma conobbe una sola parola: cretonne.

Inquietante stoffetta fiorita.

Con la furia delle sue decisioni rapide, con l’istinto del tappezziere, la Rosa rivestì le testiere dei letti e ricoprì gli sgabelli e le poltrone, pure aggredì le ante degli armadi con certe tendine arricciate. Niente imbottitura con le puntine a capocchia: quella richiedeva una precisione geometrica, estranea a casa mia. Solo tendine arricciate.

Senza il mio aiuto, naturalmente, perché i giri del pomeriggio mi tenevano fuori casa, sospesa a galleggiante di sughero in un’acqua nuova.

Lontana anni luce dalla fatica della Rosa, insofferente del bambino.

C’erano i ragazzi da guardare e incantamenti da consumare, poi, da sola nella stanza bomboniera, dove mi imbucavo appena potevo, a mettere ordine nei nomi e nei volti della giornata, a rivedere a moviola le scene belle, a cercare nelle poesie le parole che avrei voluto. Dire e Ascoltare.

Adesso ero io, non la Diana miacugina, ad essere accompagnata a casa con certi corteggiamenti di manubrio, magiche impennate sulla ruota davanti …e  domani cosa fai,  non verresti domenica al carnevale e  in gita ti siedi con me…

Occorreva essere sempre fuori. E provare, davanti allo specchio del bagno, risposte e capelli.

La casa non aveva più muri sirena.

Meglio il giardino, se proprio proprio, dove si poteva chiacchierare fitto, sotto il pruno rosa, con le ragazze, e pure scrivere lettere collettive di risposta ai primi biglietti d’amore…. quando cominciare con  Caro Marco  faceva troppo banale,  Marco caro  troppo innamorato, alla Grand Hotel,  Marco tesoro  troppo peccaminoso…, meglio  Marco, ciao… , sì, molto meglio…

Mio padre tornò e trovò la casa imbozzolata di cretonne, la Rosa miamamma con gli occhi fieri, il bambino cresciuto e, al mio posto, un tema dove parlavo di un’amica del cuore….

“Coi pantaloni” – disse mio padre, leggendolo.

E appoggiò al muro il ramo di mandarini che aveva portato per me, in treno, da Catania.

Ritorni

07 venerdì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Che di  soldi ce ne fossero pochi, in casa, ormai lo si capiva  da piccole cose, non solo dal gioco della casa che si restringeva: il piano di sopra trasferito di sotto, per risparmiare la legna.
Erano cose che non si leggevano tutte insieme, ma che affioravano in abitudini nuove.
Era la Rosa miamamma, adesso, a frugare, il mercoledì mattina, alla “mericastrass”, dove la Norfa, regina dell’usato, neanche si dava da fare per vendere, neanche più decantava i pregi delle sue cose: erano in tanti a cercare, a frugare, nel mucchio e lei poteva stare grassa e immobile a fumare la sigaretta col bocchino, nei suoi ricci di permanente.
Eppure le sottane o le maglie o le stoffe, che arrivavano a casa, non avevano la vecchia magia.

Adesso lo vedi così, ma dopo diventa una meraviglia– diceva miazia, drappeggiando vestiti attorno alla vita della Diana. E io li vedevo davvero già belli e finiti, perché aveva un modo, la zia, che a non crederle pareva di farle un torto.
Era facile, invece, deludere la Rosa, stare impalata a guardarla cercare tra gli stracci, col fastidio dell’odore di vecchio e la vergogna di essere vista dalle amiche, poi, a casa, fare una smorfia davanti alla gonna a pieghe, che doveva diventare diritta  e più lunga, per andare bene.
Era facile farle il dispetto e dire che mai, assolutamente mai, quella gonna sarebbe entrata nell’armadio; salvo poi, nel silenzio, infilarla di nascosto e ammettere, davanti allo specchio, che non era così male.
Prima, il tormento della prova. Era brava la Rosa a trovare scuse alle mie proteste deboli deboli.
Ma fa una piega sul fianco… – tentavo di dire.
Non é la sottana, sei tu che hai un fianco più alto. Lo dice sempre anche la Luciana magliaia – mentiva la Rosa.
Mica bello trovarsi d’un tratto, così, senza preavviso, con un corpo su e giù. Vergogna per altro neanche nascosta, ma addirittura discussa fuori casa.
I fianchi, però, tornavano a posto dentro la gonna finita, lasciata sul letto, e sempre nel silenzio indossata.

A parte l’antico transito dei vestiti, le cose davvero cambiavano: a tavola uscivano timide  certe teorie della Rosa che mai si erano sentite prima. Se si era noi tre, e mio padre lontano, la sera, miamamma preparava il budino sanmartino gusto vaniglia, perché era leggero. E profumava la casa di latte dolce.
(Che bastasse una polvere chiara e mezza bottiglia di latte per quella crema che induriva di colpo e fermava in superficie una schiuma di gomma, era un mistero senza risposte)
Eppure, quando mio padre tornava a riempire la sera col suo fischio gentile, ricompariva lo spezzatino di carne e patate, che si scioglie­va  morbido, in tanto sapore.
Buono quanto i toasts che la mamma della Cri preparava nella padella sulla stufa, e si sbruciacchiavano bene, e facevano fumo, ed erano così moderni, ma così moderni e così americani, mentre a casa mia di moderno c’era solo il budino sanmartino e il resto aveva i segni di quello che c’era già stato, solo con qualcosa di meno, come la carne più rada, o la frutta contata e sempre con qualche segno.

Ma bellissima era la carta-premio che mio padre mi portava dalla Federazione: trentamila lire di libri, da scegliere fra quelli bianchi strisciati di rosso, con parole difficili e forti, e quelli con la copertina di cartone avorio e il timone d’oro.
E non c’era criterio, per scegliere: solo ascoltare la musica di un nome sirena, che chiama, che chiama.
Majakovskij, allora, arrivò per caso, su una nuvola in pantaloni, col suo flauto di vertebre a reclamare un amore immediato, nelle sere di novembre, quando gli altri dormivano nel letto di ciliegio e io restavo nella cucina da sola.

Arrivarono i libri, da allora, puntuali ogni anno, a cancellare rinunce così lievi da diventare il gioco fra noi, nella casa piccola, dove non si poteva scappare agli odori e neppure alle canzoni di miamamma.
Arrivarono i libri cui tagliare le pagine unite, con la smania di non perdere tempo; da covare in attesa di poterli capire.
Libri da buttare dentro, da riscrivere in quaderni piccoli per paura di perderli.
Libri dove mettere la testa e il cuore, dove gustare l’incontro e sapere che sarà per sempre.
Pareti color di crema di quel mondo da annusare e tastare, e ora da dilatare, fino a contenere ogni idea.
Libri per riconoscere, nelle parole già scritte, ciò che si sente, si pre-sente: sconnesso, non chiaro, perché non vissuto, ma adesso trovato, descritto così bene da diventare specchio. O memoria.
Libri anti-dolore, ma il dolore ti trova sempre; anche nei porti sicuri.
E non è schiaffo. Non è sferza.
E’ riprendere, di colpo, lo sguardo vero.
Quello nudo e freddo, non quello che tu hai coltivato, carezza che accetta o traveste il poco che hai, fino a farti credere che va bene così. Va bene così.

Si rideva, noi, dopo due anni di casa ‘piccola’, delle corse da fare, se suonava il campanello di casa, per girare la pentola sul fuoco e offrirne il lato nobile: l’unico manico che le era rimasto.
E si faceva finta di niente se arrivava l’estate, la seconda estate, e i letti non tornavano al piano di sopra, ma restavano lì, in quello che era stato il salotto. Quasi una pigrizia a calamita teneva giù, nel fitto un po’ disordinato del pianoterra.

Ma il terzo novembre, proprio nel giorno in cui la stufa buona si mise a sputare fuliggine e i letti neppure erano fatti, perché l’influenza ci aveva già preso, e la Rosa miamamma da sola puliva il nero con grossi secchi, suonò il campanello ed entrò l’uomo importante, non atteso e neppure conosciuto, con la macchina grande, che cercava mio padre.
La Rosa non fece neppure in tempo a girare la pentola, che mostrò i buchi del manico mancante. E non riuscì a chiudere la porta sul lazzaretto dei figli malati, e nean che a tirar su lo straccio.
Lo vedemmo tutti, lo sguardo dell’uomo, non divertito, non carezzevole, uno sguardo di cartavetrata, che insisteva, senza scivolare via.
Abita qui, vero, il presidente? E’ in casa?
Sta qui, ma è via con sua moglie. Sono rimasta io con i muratori, perchè i putlet sono malati.

Così la Rosa miamamma finse di essere la donna di servizio e il pomeriggio stesso, con i falegnami del viale, freddo o non freddo, cominciò il trasloco verso l’alto.

Gonzaga e la memoria

19 domenica Dic 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Sembra ci si arrivi per vie acquatiche, a Gonzaga.
Per quelle liquide dei racconti che nuotano da sé (una casa, una strada, una storia) e per quelle livide dei fossi e dei canali, che scavalcano il confine, un po’ lombardi e un po’ emiliani.
Bianchi e ghiacciati, ora: certi rami prima galleggianti e adesso bloccati dentro il gelo, nel gesto smarrito di chi si addormenta all’improvviso, un braccio sfuggito alla coperta.

Faceva tanto freddo, ieri. Anche dentro. Dentro, dico. E sempre uguale.
Gonzaga è il nostro nodo d’inverno.

Mancano tutti i vecchi della nostra vita, quest’anno, e i piccoli sono ancora troppo piccoli per sfidare quella strada fatta a piedi, ripercorsa testardamente ad ogni celebrazione: l’ultimo tratto di esistenza di sei ragazzi partigiani, portati a morire in un poligono di tiro, per rappresaglia nera.
I pensieri ai loro pensieri, a quei passi, a quelle sedie, a quelle mani legate.

Si è lì per tutti: per loro e per gli altri.
Si è lì per un passaggio di consegne che non interromperemo mai. Ce lo promettiamo, stringendoci il braccio e volendoci bene senza dirlo.
È dolorosa la memoria, sempre più dolorosa: in tempi di trasformismo e di arroganza, di ‘politica’ che ha perso pudore e direzioni.
L’abbiamo così amata, un tempo. La politica, intendo: le abbiamo affidato intere età e conoscenze e lavoro e progetti.
L’abbiamo così amata.
Nella gratuità della non convenienza, del non potere: per dire grazie a quelle sedie vuote.
Per questo fa male, oggi, la memoria.
Ha radici di ghiaccio e di spine.
Lasciamo che ci prenda e che dica tutto lo scandalo della sua necessità.

La bambina della bottega del sellaio

26 martedì Ott 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti, storie di seconda mano

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Qui da noi c’era un uomo che vendeva le sue selle quando i cavalli non c’erano già più.
Nella bottega col tavolo a traverso, come un ponte di legno fra due vuoti: solo un orlo polveroso di borse e di valigie a fare da riva alla vetrina, larga finestra che prendeva strada, senza impannate e senza imposte.
Tutte le cose stavano nell’aria: appollaiate in alto, con tralci di briglie, di basti e di collane.
In groppa alle travi, le selle erano schierate, in ordine di prezzo e di grandezza: lasciavano che il cuoio gravasse col suo odore, forte, quasi di fieno maturo o di grasso dimenticato al sole. Messaggio di un mondo superiore.
Intanto le staffe pendule dicevano il metallo e i cordami cadevano gentili, in nodi e volute mai uguali: gocciavano giusto sulla testa, sospesi in indicibile verdetto.

La bambina diceva con permesso e si fermava proprio al centro della terra, a controllare che la polvere non fosse andata via, che tutto fosse rimasto come prima. E sperava che il sellaio tardasse di un respiro: un giorno o l’altro sarebbe entrato un colpo di vento galeotto a suonare quell’orchestra in sospensione e a farne un’armonia al galoppo.

Invece non succedeva niente.
La bambina chiedeva un po’ di corda, perché nell’orto bisognava legare i tegolini.

Più che i paletti, la corda legava le parole: il vecchio prendeva a raccontare del tempo che non c’erano i landini, che s’andava a cavallo sull’argine e nei luoghi e l’erba viaggiava nei carretti, fra  sponde e catenacci.
Dovevano essere gagliardi, i finimenti, per convincere le bestie a lavorare, ma senza friggere la pelle né di caldo né di brutte sfregature: andare a cavallo è tutta una regia, di voce e di forza nelle braccia, di segnali di sella e di ginocchio.

La bambina restava seduta ad ascoltare: il solaio si sarebbe animato di scalpiti e nitriti, le corde avrebbero portato alle campane, l’erba sarebbe spuntata dal soffitto. Regali di un alto che tutto doveva contenere, svegliato soltanto dalla parlata modenese: un apriti sesamo nato lì in pianura.

Invece non succedeva niente.
Ma sarebbe servita altra corda, di lì a poco.

Viserbeide 3

09 giovedì Set 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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La notte

Le bambine salirono su per la scaletta, fra passi di formica e salti di cornacchia, un po’ per gioco e un poco per paura, nascosta a conte e cantilene.
Le donne ancora giù, nella stanza di sotto, fra rumori di stoviglie e chiacchiere e pacchi da svolgere, in fretta.
La sera intanto si faceva spessa, come colata giù tutto d’un colpo.

La camera in alto aveva l’odore di bucato e di gomma calda, rimasta sotto il sole, di sandali che sono stati in acqua e di costumi che non hanno perso il sale.
La finestra era aperta sui rami: un quadro chiaro, quasi una lampada di buio.
Mute le bambine, già affacciate a cercare il mare, così nero e lucido, là in fondo, e con la luna sciolta nell’acqua a tremolare, in righe appena mosse.
Non c’era bisogno di parlare. Non c’era bisogno d’accendere la luce. Solo era bello respirare.

Ecco le onde che si mettono a volare, pensava quella piccolina, guardando nel giallo del lampione uno sciame di spruzzi volteggianti, pezzetti di mare alato, scuro e nervoso in aria.
Forse le onde mi vengono a trovare, per fare gli schizzi anche di notte. Porteranno le conchiglie nere…

Il grido della Diana e dell’Ughetta fu un graffio di terrore.
Uno schizzo era entrato attraverso la finestra.
La bambina l’avrebbe toccato volentieri, per trovarlo fresco di luna e d’acqua, ma sentì un fruscio, un soffio molle e peloso sulla spalla destra, vicino vicino all’orecchio. Forse anche all’occhio, che per un attimo restò tutto velato.
Sgradevole come cogliere una prugna, metterla in bocca pensando chissà quanta dolcezza e poi sentirla brusca fino dentro gli occhi.

Vennero le donne con la scopa, per cacciare il pipistrello spaurito.

Viserbeide 2

29 domenica Ago 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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l’approccio

La spiaggia promessa stava sotto un rettangolo di tela: una vela d’ombra, piantata in mezzo alla calura.
La Iris e la Rosa ne presero possesso: un colonizzare a suon di cartocci e asciugamani.

Si capirono subito gli stili di pensiero.

Le madri un po’ nervose, cartavetrate in vestaglina a fiori, facevano vedetta dallo sdraio.
La Diana era di lato, stesa a succhiarsi il sole, lucertola ragazza.
La cugina di mezzo teneva relazioni fra tende, cannicciati ed ombrelloni. Era curiosa di un mondo fuori dal paese: amava presentarsi, chieder nomi, notizie comparate e provenienza. Nessuno le sfuggiva, nemmeno sugli scogli.
La piccola restava accovacciata proprio in riva al mare: le gambe piegate a coltellino. Alla distanza di uno sguardo (girare la testa all’improvviso e vedere le grandi lì vicino, questo contava più di ogni cosa). Incerta se stare sulle sue o fare confidenza con l’acqua non azzurra, ma densa di sabbia di riporto.
Le piaceva, intanto, accogliere gli schizzi fino all’orlo del costume, l’onda intorno alle caviglie e sentire i granellini correr via con quel solletico ridente sotto il piede. Come profondare dentro a una carezza e chiudere gli occhi, per ascoltare meglio.
Vieni a fare un buco, bella, diceva la suazia, così dopo ci trovi l’acqua dentro.
Ma a cosa serviva cercarlo in fondo a un buco, il mare, se era tutto lì davanti: aperto, largo e sciolto come colore sfuso…
La bambina, piuttosto, aspettava che la schiuma le portasse una conchiglia, già pulita e forse trasparente, un’unghia di sirena, chiara chiara.
Questo era un bel gioco.

Si tornò che era quasi sera, con la sabbia a fare prurito fra le dita e le orecchie smerigliate dall’aria, dal sole e da quella voce nuova che sciacquetta sciacquetta e poi si rompe.
Le donne a fare presto i letti, col rumore secco di lenzuola spiegate a polsi fermi e l’odore di casa scoppiato all’improvviso, a dare un po’ di nostalgia.
Le bambine sotto la pergola, a pane e mortadella, perché il mare poteva cambiare anche la cena.
Il sonno intanto veniva su dai piedi, per le gambe che parevano legate, poi prendeva le spalle, come un gatto che fa pesante il collo.
C’era così voglia della prima notte, lì…

Viserbeide 1

23 lunedì Ago 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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il Prologo

La Iris buttò lì ‘Viserba’, a tavola, il giorno della cacciatora: rito pagano officiato a mezzogiorno, dopo prelievi dall’orto e dal pollaio.
Bastava l’odore a conciliare i sensi, perché cipolla e peperone, se uniscono i destini, fanno dell’aria quasi un paradiso: malizie di padella che inducono la bocca a dire sì.
La Iris prese le cose alla lontana, sicura della meta: sospirò verso il manichino, dove il prendisole, in prova fra spilli e imbastiture, apriva la pianura all’altra spiaggia, quella di sabbia e macchie di catrame. La cliente sarebbe passata di lì a poco, giusto per regolare le spalline.
Quest’anno vanno tutti al mare, disse, guardando d’intesa la Rosa suacognata, che stava zitta e muta, in soggezione.
La moglie di Walter va a Viserba, che è proprio  un posto da bambini.
La Dina abboccò all’amo: il bene dei bambini era l’apriti sesamo per ogni decisione. Se poi non stavan  bene… Se poi c’era stata quella polmonite, con le febbri alte e pure la paura…
Con tutta la tosse di st’ inverno, li putini iè smorti che sembrano liscivia, e intanto riempiva il piatto alle nipoti per portarsi avanti coi restauri.
Il vecchio ascoltava e lavorava bene l’anca del pollo: lì, la carne lascia volentieri l’osso e accoglie il sugo senza farsi scivolosa; allora il gusto trova l’armonia e si scioglie in una gioia tutta dentro. Dopo, basta un’albicocca.
Si alzò dalla tavola convinto: se il mare serviva a tener quiete le giovani di casa, … ma pronti!
Giusto come l’olio, emise la sentenza: si potrebbe chiedere a Giannino, il cognato che abitava al mare, per tutta la famiglia la più avanzata punta balneare.

Partirono una mattina presto, con la macchina a servizio, le nuore, le valigie, i fagotti, le bambine, anche la figlia della Nelly, che, la tosse, non l’aveva ancora avuta ma poteva ammalarsi a tradimento: il vecchio impettito davanti con l’autista, a parlare del tempo e della strada, e poi a salutare in fretta, per tornare.
La casa era della levatrice: lo zio l’aveva intercettata nei suoi giri dell’olio porta a porta.
Una stanza da basso che pareva un corridoio, una scala per fuori dritta dritta, con lo scarto improvviso verso destra: grande, una camera con tutte le brandine.
E il bagno? chiese la Diana, a flauto. Nel casotto esterno, con la sua bella porta a metà gamba, insieme ad un gocciolatoio per lavaggi sommari, sotto la catalpa.
Si era arrivate al mare.
Due grandi e tre bambine, nel gioco comune della prima volta, in una casa che non era casa, ma accampamento nel mezzo del deserto, con la sua oasi in forma di fontana  e l’acqua a catenella nel cortile: ovunque l’odore dei gusci delle cozze.
Tutte le speranze di quell’estate rossa nella stradina che portava in spiaggia.
Non si sciolsero neppure le valigie, via le scarpe perché c’era solo sabbia, calda calda nel sole delle due.
Dietro ai cespugli, il mondo fatto a strisce.
Al mare c’è più cielo, disse la più piccola.

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