• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: gennaio 2007

Peperoni

27 sabato Gen 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 43 commenti

A dirla tutta, se colpa c’era, era delle stalle.
Chiuse.
Ché, ai padroni, il reddito poco e il sacrificio tanto non stavano poi bene.
I figli via, a fare gli operai e i meccanici, Varese, Viggiù: tutti a scappare, insomma.
E la terra lì, le vacche anche.
Un’estate d’afta, il latte che va giù, e vien voglia di gettarlo a secchi nelle strade, tanto lo pagan poco. Il podere piccolo, per viverci in diversi. Il cerroso caro, sempre più caro.
Frutteti, meglio i frutteti: basta con la stalla.
(Davano anche i soldi a fondo perso, pur di cambiare faccia alla campagna)
Così, i bergamini a casa. Anche quelli che avevano risalito il Po, per scappare alla fame nera nera.
Ora incerti se andare o stare, se cercare in paese  un altro pane.

C’è una cosa, però. A star dietro le bestie, non sei più capace di compatirti gli uomini.
Con le bestie ti alzi che c’è scuro, in giro nessuno, tutto quieto.
Lavoro di fatica, certo: far nascere un vitello, cambiare la lettiera, mungere pulito e governar la stalla con l’aria e l’acqua. Ma con le bestie: andar d’accordo è un niente. Basta un oh oh, un ah là, uno schiocco con la lingua. Conta la voce, mica la parola…, sì, un gesto della voce e una pacca sul culo.
Con gli uomini, tutta un’altra storia.

Non duravano in nessun posto, i bergamini, con le stalle chiuse: né a fare gli ortolani, né a far gli sterratori.
Il più grande, il più bravo, sperava di morire con il marchio del comune sulla giacca: anche a lavorar coi morti, ché mica c’era da parlare, ma s’era attaccato al vino.
Il bergamino della stalla bianca, quello grosso con la testa svaporita, invece aveva il mezzo e si era messo in proprio.
Persa la casa, da una qualche parte, ne rivoleva una, ad ogni costo.
Intanto aveva solo un’Ape azzurra.
Allora usava quella.
Si sa che, d’inverno, il lambrusco fa più di dieci stufe.
Si sa che d’estate  le notti sono calde: meglio girare per cavedagne, a sentire i grilli con le rane.
Girava, l’uomo grosso, quell’estate. E non per niente.
C’è che le cose si prendon  dove sono, in campagna. Se nessuno ha niente da dire.
E in campagna, di notte, chi c’era mai a dir qualcosa, solo qualche cane alla catena, col suo nastro di u appeso al buio…
Così, lungo le file un poco sghembe, l’uomo grosso, a testa bassa, sceglieva quattro o cinque angurie. Non di più.
Se (rapidi trambusti dietro la finestra) qualcuno si svegliava, vedeva l’Ape azzurra e se ne tornava a letto: tanto chi era si sapeva. E quattro o cinque angurie non fanno differenza. Modica quantità. Onesta rotazione.
Sotto la torre, di mattina buona, all’ora della messa, era niente trovare i compratori.

Ma poi maturarono i peperoni.
I peperoni andavano gran bene: quelli chiari e sottili, da affettare a tagliatella; quelli che strizzano la bocca come acciuga e fanno fresco piccante contro i denti, messi via col vino e con l’aceto.
L’uomo grosso li vendeva su prenotazione: di giorno li avvistava, di notte li coglieva, di mattina suonava al campanello delle case.
Peperoni a domicilio, freschi di nottata.

Ce n’erano campi interi verso il modenese, regno indiscusso d’industrie conserviere: lontano, però, e fuori zona. Allora, metti la benzina, la strada, il rischio e tutto: la fodera si mangia  la tasca …. e un’Ape, benché azzurra, trasporta quel che può.
All’uomo grosso non pareva giusto perdere un’occasione. Ma il viaggio era lungo, l’Ape piccolina e tanti i peperoni… C’era da far dei conti.

Fu arrestato quasi di mattina, che cercava di portare via un bel furgone nuovo, messo giù bene, lì, nella vetrina.
“I peperoni. – disse – Se il giro  è grosso, ci vuol quel che ci vuole”.

Interno

20 sabato Gen 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 40 commenti

A stare lì, senza sole, con la strada intubata contro il muro, c’era da aspettarsele, le malinconie.

Arrivavano come passeri d’inverno, nella fuliggine di un camino: polvere scura ai muri e un rotolare d’ali litigiose, fino al silenzio.
In certi pomeriggi grigi, come nebbia sciolta nel bicchiere.

Prendevano la moglie, la facevan  smorta, quasi cattiva.
(I capelli tirati sulle tempie, legati con la rabbia, senza filo. Ci provassero, a muoversi, potendo…)
Con la faccia dura, la Carmina puntava sopramani, chiudeva sottopunti, ferrava friseline a gesti secchi, il golf un poco liso attorno al seno.

Intanto, molli, cadevan giù le ore.
Rigavano il collo al campanile coi rintocchi di quarti in sospensione.
Poi, battiti lunghi, un poco strascicati, quasi in attesa di un tempo da vegliare.
Come file di vecchie, in cerca di novene. La chiesa lì, vicina.

Allora lui parlava.
Per stordire la stanza di gesta mai accadute, di soli socialisti pronti all’avvenire, di pesche che gesù neanche si sognava (lucci di denti crudeli pescati a mani vive) e generali, generali grandi, venuti lì, nel vicolo odor del freddo, a cercare di lui.

Con la faccia dura, la Carmina puntava sopramani, chiudeva sottopunti, ferrava friseline a gesti secchi, il golf un poco liso attorno al seno.

Intanto il dolore metteva le sue spine, s’arrampicava su per l’impannata, a fare da cornice alla finestra.
Sulla tavola l’ombra di soldi promessi e di viaggi pensati, fra velina e carta papalona, forbici e gesso da stampi.

Allora lui attaccava con l’orgoglio di quel suo mestiere.
“Cosa si vuol di più… Essere sarti è fare gli architetti. Dare forma alla vita. Bussa il vestito, lì, dentro la stoffa piana: chiede d’uscire e andare. C’è da avere mani di levatrice e testa di chirurgo…Cosa si vuol di più”.
Nell’aria brandiva le sue forbici, don chisciotte su moschito rosso, a guardia dei sogni.
Quasi a tagliare le malinconie.

“Tasi, tasi, tasi par carità”, diceva la Carmina, e la fiducia le sembrava stenta come il cotone d’imbastire.

Alto

11 giovedì Gen 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 51 commenti

Perché, se la città fosse stata dietro l’angolo, non sarebbe successo niente.
Uno andava, contratti uffici forniture, poi tornava: prima di mezzogiorno  si poteva esser già in officina, attorno a una Vespa, nello stanzone, in bocca al campanile.

Invece no.

Tanto lontana la città.
Con quella strada in mezzo, mangiata dai fossati.
Le curve murate dalle case.
Non si arrivava mai.
Con la corriera vecchia, poi: ferma a ogni pisciatina di cane, paese dopo paese, col lamento dei freni e l’odore di benzina cotta.
Sul ponte di ferro, a passo d’uomo stanco.
C’era da restare inchiodati una giornata, ad andare in città.
C’era da tornar la sera, con lo stomaco a rovescio, le chiacchiere dei mediatori e la tosse degli operai.

Allora, in città si mandava chi vendeva il tempo: c’è che la distanza inventa i suoi mestieri, talvolta, e li affida a gambe buone.

Il ragazzone con la berretta di lana faceva il corriere anche per una busta sola, anche per un protesto da salvare all’ultimo momento.
‘Ci penso io’, diceva.
E la giornata cominciava già dal finestrino, a ripassare i paesi uno a uno, il pacchetto o la cartella sempre in mano, perché un corriere ha da essere fidato e la consegna non si lascia neanche sul sedile. Si sta fermi, con il cappotto addosso, ben dritti per l’importanza del dovere.

Ma un giorno  la busta non arrivò a destinazione.

Ehssì che era primavera: una mattina con la pelle chiara, sulle nebbie di una settimana. Con un cielo squarciato di stupore.
La busta era pesante: quasi una mesata di soldi, da portare di corsa alla bottega della moto, ché, si sa, i tempi delle banche….
Al negozio non si presentò nessuno.
Preoccupazione grande.
Si lasciò passare la giornata intera.

La sera, si andò alla casa del corriere.
Fu proprio lui ad aprire, un poco imbarazzato.
– E i schei?– chiese l’uomo dei soldi, quello dell’officina, col pagamento a pendere.
– Inghepiù, – disse l’altro, puntando con l’indice il cielo – volato tutto il giorno.
Proprio lì, al Migliaretto, mica aveva resistito a quel cartello: viaggio fra i cieli £ 5000.
Tanti viaggi, per tanti cieli.
Quello sulla città rosa delle pietre vecchie e quello sui chiari d’acqua, col fiume che spalanca al lago.
Quello là in fondo sul boscone grande.
Quello sui quadretti e i cerchi delle case fitte, attorno ai serpenti delle strade.
E, in fondo, il cielo largo sul bianco della reggia e …

– Ma parché?– chiese l’uomo dell’officina.
– Parché l’era pran bel.

E che altro si poteva dire.
L’uomo dell’officina già sapeva.
In pianura il basso cerca l’alto.
Poi lo ama.

Ci vorrebbe una bella storia…

01 lunedì Gen 2007

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 58 commenti

Ci vorrebbe una bella storia, di quelle che fanno entrare in un mondo e uscire a volo, per poi provarne nostalgia. Non c’è dolente amore più grato della malia che lega al luogo e al ‘noi’ chiuso in quella bolla d’aria.

(Sulla spiaggia di  Po, la  battellina nera è miraggio dell’isola coi rovi: rovesciata sulla sabbia, disegna un’ombra scura, una mandorla di buio fresco. C’è così caldo fuori, così caldo. Tanta  voglia di lasciarsi andare. Ci si farebbe chiocciola di fiume o trigolo per sentire la frescura di quel sotto dormiente ed incantato. O si vorrebbe crescere di colpo, per ribaltarla e trovare la riva proibita…)

Ci vorrebbe una bella storia, di quelle che profumano di casa, in cui tutto è così al fondo, tutto è così vero e saputo, che basta un cenno e il racconto prende la sua strada.

(Il padre entra, carezza il caldo col suo fischio  lento e piano. La bambina lascia la penna sul quaderno. Troverà poi una macchia scura, ma ora è bello togliergli la sciarpa,  cingergli il collo. Non contano, non fermano le spine di freddo sulla faccia. Lì, solo lì, c’è l’odore della nebbia…)

Ci vorrebbe una bella storia, di quelle che fan vive le vie  e rompono gli stampi dei ricordi: escono figurine intirizzite che si gonfiano a contatto con le cose.

(Il vecchio vende i limoni, sul mercato. Non ha banco. Non ha tenda.  Solo mani per reggerne quattro per volta, e offrirli come tesoro sbucato dalla luce. Oro giallo, un poco grinzoso, con la buccia di incenso oleoso. Lemoni di sicilia, lemoni beddi: e l’isola buca la fumana con accento saracino, la cesta è già carretto di piume colorate.  Nella sporta di stoffa della Dilva ora i limoni ballano, come promessa di un sole anticipato…)

Ci vorrebbe  una bella storia, di quelle che covano nei nomi, nei gesti, nel sempre, una di quelle storie che son come le pieghe: battono  allo stesso punto, nelle tovaglie ben stirate.

(Il suo era  un mondo di flanella, ma anche di taffetà, lucido di satin e raso, caldo di fustagno e mussola, cedevole come la batista, eppure consolatorio quanto sa esserlo la lana. Un mondo con qualche impennata di rigida gabardine, bilanciata da  debole crepella. Un mondo di panno ovattato , dove non  mancavano meraviglie di creton, damasco e makò, in un paesaggio di canapa, iuta, bisso e fiori di  lino. Un mondo sensibile alla santità del sangallo e dell’agnellina,  ma poi propenso alla  baietta abietta e alla ballanca, su slarghi di  zephir. Doveva ben saperlo, Cleante il merciaio sordo, che il suo mondo di stoffa chiedeva, per ciascuna, un nome e un movimento del polso a sciorinarla…)

Ci vorrebbe una bella storia.
Speriamo che il 2007 se ne ricordi e ne faccia affiorare qualcuna…
Ben vengano, anche a scampoli, a ritagli sfilacciati.
Saranno pagina e coperta.
Zattera, qualche volta.
O specchio.
Buon anno.
A tutti :)

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