A dirla tutta, se colpa c’era, era delle stalle.
Chiuse.
Ché, ai padroni, il reddito poco e il sacrificio tanto non stavano poi bene.
I figli via, a fare gli operai e i meccanici, Varese, Viggiù: tutti a scappare, insomma.
E la terra lì, le vacche anche.
Un’estate d’afta, il latte che va giù, e vien voglia di gettarlo a secchi nelle strade, tanto lo pagan poco. Il podere piccolo, per viverci in diversi. Il cerroso caro, sempre più caro.
Frutteti, meglio i frutteti: basta con la stalla.
(Davano anche i soldi a fondo perso, pur di cambiare faccia alla campagna)
Così, i bergamini a casa. Anche quelli che avevano risalito il Po, per scappare alla fame nera nera.
Ora incerti se andare o stare, se cercare in paese un altro pane.
C’è una cosa, però. A star dietro le bestie, non sei più capace di compatirti gli uomini.
Con le bestie ti alzi che c’è scuro, in giro nessuno, tutto quieto.
Lavoro di fatica, certo: far nascere un vitello, cambiare la lettiera, mungere pulito e governar la stalla con l’aria e l’acqua. Ma con le bestie: andar d’accordo è un niente. Basta un oh oh, un ah là, uno schiocco con la lingua. Conta la voce, mica la parola…, sì, un gesto della voce e una pacca sul culo.
Con gli uomini, tutta un’altra storia.
Non duravano in nessun posto, i bergamini, con le stalle chiuse: né a fare gli ortolani, né a far gli sterratori.
Il più grande, il più bravo, sperava di morire con il marchio del comune sulla giacca: anche a lavorar coi morti, ché mica c’era da parlare, ma s’era attaccato al vino.
Il bergamino della stalla bianca, quello grosso con la testa svaporita, invece aveva il mezzo e si era messo in proprio.
Persa la casa, da una qualche parte, ne rivoleva una, ad ogni costo.
Intanto aveva solo un’Ape azzurra.
Allora usava quella.
Si sa che, d’inverno, il lambrusco fa più di dieci stufe.
Si sa che d’estate le notti sono calde: meglio girare per cavedagne, a sentire i grilli con le rane.
Girava, l’uomo grosso, quell’estate. E non per niente.
C’è che le cose si prendon dove sono, in campagna. Se nessuno ha niente da dire.
E in campagna, di notte, chi c’era mai a dir qualcosa, solo qualche cane alla catena, col suo nastro di u appeso al buio…
Così, lungo le file un poco sghembe, l’uomo grosso, a testa bassa, sceglieva quattro o cinque angurie. Non di più.
Se (rapidi trambusti dietro la finestra) qualcuno si svegliava, vedeva l’Ape azzurra e se ne tornava a letto: tanto chi era si sapeva. E quattro o cinque angurie non fanno differenza. Modica quantità. Onesta rotazione.
Sotto la torre, di mattina buona, all’ora della messa, era niente trovare i compratori.
Ma poi maturarono i peperoni.
I peperoni andavano gran bene: quelli chiari e sottili, da affettare a tagliatella; quelli che strizzano la bocca come acciuga e fanno fresco piccante contro i denti, messi via col vino e con l’aceto.
L’uomo grosso li vendeva su prenotazione: di giorno li avvistava, di notte li coglieva, di mattina suonava al campanello delle case.
Peperoni a domicilio, freschi di nottata.
Ce n’erano campi interi verso il modenese, regno indiscusso d’industrie conserviere: lontano, però, e fuori zona. Allora, metti la benzina, la strada, il rischio e tutto: la fodera si mangia la tasca …. e un’Ape, benché azzurra, trasporta quel che può.
All’uomo grosso non pareva giusto perdere un’occasione. Ma il viaggio era lungo, l’Ape piccolina e tanti i peperoni… C’era da far dei conti.
Fu arrestato quasi di mattina, che cercava di portare via un bel furgone nuovo, messo giù bene, lì, nella vetrina.
“I peperoni. – disse – Se il giro è grosso, ci vuol quel che ci vuole”.