• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: gennaio 2004

Come un’antica fiaba del freddo

31 sabato Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Come un’antica fiaba del freddo, in cui le cose si spezzano in una ragnatela di azioni o fili di brina che luccicano, è questo

Quarto canto del gelo

come venne il gelo
il gelo cantò i suoi occhi
in acini di oscure uve
come venne il gelo
il gelo calò il suo dente
in cocci
piccole nature
sulla pura
cecità delle lucciole
in fedeltà al volo
ai morsi di paura

…così legato a questo:

Primo canto della neve

quando venne la neve
la neve portò bianchi glicini
e dolci tortore di farina
quando venne la brina
anima candida luce di luna
quando candì il giorno intorno
e l’oro si fece solo sole
quando la notte si annodò
e nodo e nido furono uno
quando il violino suonò le note
della terra bruna e del mare
quando ritmando e poetando
siamo tornati ad amare

(Alberto Cappi)

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Labbra

28 mercoledì Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in etimitìe

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Sono tante le ricerche e le congetture fiorite attorno al labirinto.
Se ad esse si chiede non l’esattezza, ma la suggestione capace di portare lontano, allora non si può ignorare il dono della danza.

Narrano le leggende che le gru, nelle loro migrazioni, tengano nel becco un sasso, che liberano durante il volo, secondo un ordine sconosciuto, per riconoscere, dal rumore del tonfo (in acqua o sul suolo), la direzione del viaggio.

Narrano le leggende che da questa storia abbia avuto origine, in Grecia, un’antica danza, la danza della gru, in cui i ballerini ne seguono le tracce, passo dopo passo, fino a disegnare un labirinto di direzioni.

Se sia nata prima la leggenda o prima la danza non è dato sapere…

Resta comunque l’idea del Labirinto come sentiero di sassi da congiungere idealmente nel gesto e nella musica, per terra e per mare…
Da questa immagine è nato il

Piccolo mito delle Labbra (pensando al bacio del Leo)

Non muri né strade. LABirinto fu flauto di sassi sulla scia delle gru.
Malìa di un filo di danza, cui BRAma rispose per mare e per terra.
Ma dove Oceano tace segreti di specchi, si perse sfinita (o fu forse abbandono?).
Labirinto, che chiama e non dice, che tiene e non svela, cinse Brama con gesto di rete.
Memoria ne sono le LABBRA, che chiudono e schiudono, seguendo un amore.

con Emergency

25 domenica Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 38 commenti

Sabato 24, con Emergency

Per gli amici che erano con noi ma, per ragioni tecniche, non risultavano presenti.
Le cose sono andate più o meno così.

C’è da immaginare un Paese della Bassa, inspiegabilmente col sole, una piazzetta dove, fra le Poste e il supermercato, c’è un edificio ben tenuto, con la sua brava saletta per le conferenze,la sala da biliardo e lo spazio grande per ballare e mangiare.
Ecco, questa è la cornice.

I blogger arrivano piano piano, a piccole dosi, così si gustano meglio, singolarmente.
Arriva Skipper per primo e ci riconosciamo anche se non ci siamo mai visti. È bello scoprirlo affettivo e misurato come ho imparato a sentirlo: di una solidità che viene da dentro e fa stare bene. Caro Skipper, uno dei primissimi amici di blog.
Vado di corsa a prepararmi: sono impolverata che di più non si può e penso “meno male che abbiamo preparato prima, sennò adesso non saprei fare neanche un uovo alla coque”…

Al mio ritorno c’è già Annie, che, giuro, sembra una ragazzina, e sorride con tutto: con gli occhi, la bocca, la voce e anche i capelli. È la dolcezza, Annie, e con questa dolcezza ti conquista.

E poi c’è Lara, che scopro compaesana d’origine e generosa, di simpatia immediata e immediatamente disposta a entrare in armonia. E c’è anche sua sorella, che ci fa una gradevole compagnia.

Arrivano anche gli amici nostri, che, col blog, han niente a che fare: sono gli amici di sempre, mica possono mancare… alcuni sono casualmente amministratori comunali del nostro Paese: ci tengono a questa iniziativa che porta a Emergency, l’hanno patrocinata, mettendoci i locali a disposizione. La foto di Battello Ebbro è anche nella bacheca del Municipio. Ci sono i libri su Sermide messi lì, per i viaggiatori del Web, a memoria…

E arriva la telefonata di Stepa: è fuori, davanti al supermercato… ma, cavolo, c’è pure la scuola piena di genitori in attesa dei pargoli, lì davanti al supermercato… Allora basta gridare all’aria “Steeeepa” e qualcuno si girerà… Certo che si gira Stepa, che si materializza con una gentilezza innata… Signori, la classe non è acqua e quando si coniuga con la semplicità dell’intelligenza e della poesia,… è festa grande grande.

È festa grande anche quando arriva Notimetolose con la sua risata che è fuoco d’artificio (proprio come lei) e risuona nella sala, in quell’ora in cui gli antipasti cominciano a lanciare messaggi inequivocabili…

Eccoli i torinesi, prima tranche:… è LUI, l’uomo del Battello, il Maqroll prestato a Emergency, la parte concreta dell’utopia o la parte utopica della concretezza (?): di certo instancabile tessitore di idee e fili umani. LUI, amico affidabile e affidabile fratello di blog.: il multiforme Lino, meglio noto come ALP.

E Stazitta, grande Stazitta, il cui nick le è da più parti contestato: è chiaro che Stazitta deve parlare. Mio marito (per inciso) stravede per Stazitta, che, secondo lui, è tutta Serena Dandini, però in meglio.

E c’è Tipa, dagli occhi parlanti.
Nel momento in cui il sole dà il meglio di sé e tutto dice, anche l’odore che proviene dal forno, … “è l’ora è l’ora…” giunge il gruppo rodigino: Gardenia con il marito e Lorelei, fresca di Roma, sua ospite, per l’occasione: ora il raduno ha il suo tocco biondo e un’elettrizzante scossa comunicativa, arguta ed effervescente.

Le chiacchiere, il cibo, le chiacchiere, il cibo: si vorrebbe essere ovunque, per dire il piacere di essere lì.

Arrivano, quando il momento di Emergency è vicino ormai, Precicipitandosivola e Gemmaforse, e Momi e Liberitutti e Invincibile….: nuove conoscenze e riconferme di empatie immediate: parlare con Momi è ricevere energia allo stato puro (ancora, ancora, per favore, e che simpatia, gli altri amici)….

Arriva anche il ragazzo giovane di Emergency di Ferrara e i sensibilialleidee del paese…e Gattaca, che cerca con gli occhi Gardenia, perché è il suo anello di congiunzione… benvenuto!

Ora tutto è per Emergency: si ascolta, si dice, i blogger si danno la voce, ma non parlano in codice: hanno volti e nomi, idee e capacità di comunicarle.

Ci siamo tutti in questo momento, anche quelli forzatamente lontani.
Ci siamo tutti, perché è ben chiaro che, chi c’è, c’è anche per chi non ha potuto esserci, ma non ha fatto mancare il suo contributo.
La quota è raggiunta, rafforzata dalle integrazioni dei blogger presenti.
Bene! Risultato messo a punto, ma soprattutto CONTATTO AVVENUTO.
Fra virtuale e reale, fra nick e persone, fra personeblogger e personepaese, fra goccia e goccia (direbbe ella), nella condivisione (direbbe alp), partendo da ognuno di noi (direbbe stepa) con lo sguardo puntato alla solidarietà (ci suggerisce Skipper dentro e fuori il blog) e alla speranza (direi io).

“Ore rotonde”, ha detto Annie.
Sì, forse per questo sono rotolate via così in fretta.
E già qualcuno pensa di rendere “annuale” questo incontro…

Latino

20 martedì Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Rimandata in latino, la Diana viveva il suo luglio con cuore ugualmente leggero.

Le sgridate in casa erano temporali di nubi nere, che passavano presto e si lasciavano dietro le lacrime di tutte le donne.
Miamamma e miazia, CartaVetratissima e CartaVetrata, a detta del nonno, rincorrevano per le scale vendicativi schiaffi.

I bambini se la filavano e il nonno sgridava le CartaVetrate, in un giro veloce di battibecchi e di porte sbattute.

Mianonna allora piangeva assieme a chi le aveva prese e si lamentava per quella sua casa di matti.
“Mai sulla testa, che diventano stupidi, le gambe, se proprio proprio.”
Immemore di quando, giovane e furiosa, rancurava i figli sul campo del pallone, con una frasca minacciosa di salice, la nonna non reggeva i pianti dei bambini e ostentava offese espressioni, quasi fosse stata lei a ricevere schiaffi e rimbrotti.
Era allora che la zia e la mamma si. immagonavano, nel loro ruolo di giustiziere incomprese, e, una carezza ombrosa, facevano la pace con bruschi perdoni.

La bocciatura in latino della Diana era stata accolta da qualche strillo e porte sbattute e fughe offese su per le scale e accuse rimpallate.
Poco studiare, troppi ragazzi, pochi libri, troppe feste, sempre vestiti in mente, i morosi, la Colomba… adesso sotto, in camera, coi libri.

In camera la Diana ci stava anche, ma a ballare il calipso davanti allo specchio con i pantaloni alla pescatora e la maglie con le righe piccole piccole e l’elastico che abbracciava le spalle nude e che lei, con mosse da diva, faceva scendere. Un po’.
Il libro, intanto, fermo sempre alla stessa pagina, trafitta da firme svolazzanti e da profili impressi a penna, o, più spesso, sgarbatamente a terra, per far posto alle amiche grandi sul letto fitto di segreti.

“Bisogna chiedere al Leo di dare una mano alla Diana, per ‘sto latino” , disse mianonna a tavola, ” andiamo verso il caldo e, dopo, chi la tiene più? La Fedora lo dice sempre che il Leo il latino lo sa, perché ha fatto il Liceo, lui…”.

L’ingresso del Leo in casa era guardato con sospetto: a porte aperte, le lezioni, nell’ ufficio del nonno, un po’ sala da pranzo e un po’ studio interdetto ai bambini.

Si sussurrava in casa, durante il latino, in una campana di vetro, per cogliere ogni bisbiglio.
A intervalli regolari, la nonna chiedeva in cucina :”Impara? Andate a vedere se impara”.

Ero io ad aprire la porta al Leo, la mattina alle nove, perché la mattina si studia meglio.
Ero io che mi godevo il suo primo saluto e scappavo, mentre a passi di ballo la Diana appariva dalle scale e scendeva come un’attrice.
Insieme sparivano, nell’angolo della scrivania, calcolando la sbiecatura che li avrebbe nascosti.
“Voceeee!!!”, gridava miazia, quando i suoni non facevano più il giro delle pareti e nelle orecchie delle donne di casa non portavano rosae, rosarum ma silenzi di peccato.

Ero io ad andare a vedere, se il silenzio accompagnava la pelatura di troppe patate.
Con malavoglia di fuori e col tumulto di dentro.
Spesso erano intenti a sfogliare il dizionario e bastava il vedermi per leggere ad alta voce tamburi di parole che addensavano u su u .

Forse quella volta fui troppo leggera e non mi annunciai con passi marcati.
Forse ero io a non volere e a inventarmi lance di ireos (a nascondere) e immaginarie siepi.
Il silenzio, quella mattina, non era la cesta di bisbigli del pomeriggio:era dritto, compatto.
Si baciavano il Leo e la Diana.
Ed era senza grazia la mano di lui che stringeva i l braccio e saliva, saliva lungo la spalla e insisteva.
Era senza grazia i l silenzio e sapeva di carne e di sangue quella mano così rapida.

“Scrivono”, dissi in cucina.
E seppi che non sarei più andata,nel pomeriggio, a spiare il Leo che succhiava il sole.

Morosi

17 sabato Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Intermezzo (di sogno e d’attesa)

Il Leo era il più sospirato del viale, per via di ciglia che si dicevano lunghissime e di occhi scaltri e frugatori.

Piaceva anche a quelle grandi, che avevano il permesso di andare a ballare alla Colomba.
Quelle anni 18 o giù di lì, vestito stretto in vita e sottogonna che allargava la sottana ad ampiezze che noi sognavamo di raggiungere e superare …

A loro il Leo riservava brevi accompagnamenti in bicicletta, sorpassi veloci e gentili frenate improvvise, corteggiamenti da manubrio, canticchiando Pat Boome.

Noi guardavamo lui e trovavamo odiosi difetti alle accompagnate, colpevoli di possedere nasi con cui neanche si doveva uscire di casa e di prendersi confidenze di risate a bocca aperta.

Alla Diana, invece, era difficile trovare dei difetti.
Il tribunale delle invidie bambine taceva di fronte all’evidenza.
“Ha le gambe belle”- faceva la Lella.
“Secondo me il neo è finto, sul polpaccio” – si attentava la Cri.
“No no – dicevo io – è proprio vero. Ve lo faccio anche toccare quando dorme”.

Io potevo, perché la Diana era mia cugina …

Una cugina che rideva di gola a e che ballava il Calipso, e aveva certi vestiti che andavamo, in cordata, a toccare nell’armadio, perché erano gonfi e vaporosi, di stoffe marezzate, lucide e fredde a toccarle, come la carta dei cioccolatini.

Nessuno sapeva che miazia si alzava prestissimo il mercoledì e, al mercato, sul banchetto della Norfa, regno indiscusso dell’american-strass, trovava per poche lire tesori di stoffe strane e luccicanti e veli trasparenti e vecchi vestiti cangianti e strisce di pizzi mangiati.
Questi diventavano, dopo nottate di macchina da cucire, tagli e prove, i vestiti della Diana.
“Stai all’ombra, che non si vedano le cuciture vecchie”- diceva miazia e con questo invito gli abiti venivano licenziati e cominciavano il loro destino nuovo.
La Diana li avrebbe portati, poi sarebbero stati risistemati e, in terza o quarta battuta, sarebbero arrivati anche a me, con la stessa inalterata regola dell’ombra.

Intanto toccavamo e a ammiravamo e ispezionavamo, ben impacchettati sul fondo dell’armadio, certi sandalini col tacco dorato, che significavano feste e ragazzi che ti fischiavano dietro e magari ti accompagnavano a casa sulla canna della bicicletta, con la faccia vicina ai tuoi capelli.
Secoli da far passare.

Per questo mangiavamo la Diana con gli occhi, quando usciva per andare a ballare alla Colomba, gazzosa e tavolini fra la madresilvia, complessino di ragazzi con ciuffo e gilé di lamé…
Mangiavamo con gli occhi la Diana, che rideva con la voce e con tutto, e aveva i capelli corti e agitati, e la vita così stretta da sembrare Lilì del valzer dell’organino.
Troppo bella.
E mai da sola, perché i morosi, la Diana, li cambiava come le pareva, mica come le diceva sua mamma.

I morosi della Diana in casa non piacevano mai.

A noi bambine del viale piacevano tutti.
E ne tenevamo giudiziosi conti, confrontando prestanza e difetti. E innamorandoci pure noi, in parallelo.

Chi pensa mai all’amore bambino…

Quando un maglione steso all’aria ad asciugare sembra il messaggio di una presenza lasciato solo per te, briciola di pane nel bosco.
Quando, per simpatia, si amano tutte le persone col ciuffo, se il tuo moroso pensato ha il ciuffo, e tutti quelli biondi, e tutti quelli con la bicicletta blu, e tutti quelli che si chiamano Marco …

È un amore per classi, per generi, per insiemi, pagato a fughe davanti ai segni, alla voce che nomina, all’ombra che disegna.
Si scappa, seminando scie di vergogna color rosso-pito e di gioco, in chi sa…
E tutti, inevitabilmente tutti, sanno: dai fratelli che fanno i furbi, alle amiche che si danno di gomito, e, ai rari passaggi (attesi come apparizioni), si riempiono gli occhi al tuo posto.
Perché, chi è innamorato bambino, si innamora attraverso gli occhi degli altri.

Chi è innamorato bambino non ha la persona, ne ha il nome, da ripetere in una filastrocca che smemora, da scrivere e cancellare, ovunque, sui vetri di vapore che si condensa, il nome da rubare ai giornali, da misurare in lettere e numeri.
E poi da dimenticare, domani, quando il nome assume concretezza: senti il nome parlare, per caso, e avverti nella sua voce una nota che stona; vedi d’un tratto il nome passare, scendere goffo dalla bici e non è più il tuo amore, di prima.

È attento alle sfumature l’amore bambino e si disamora di un nulla, per sempre.

Il Leo

13 martedì Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 49 commenti

Erano così quiete le giornate calde, impastate di lentezze infinite.
Le cose, nel pomeriggio, sembravano figure di cartone col piede ripiegato, in attesa che una palla di stracci le buttasse giù.
Niente corpo. Leggere di colori, nella loro immobilità.
E se da strada un urlo lungo di cornacchia o di bimbo di colpo batteva la stanza, solo allora l’ attesa sussultava, ferita.

Il “su andéma” della Dina era la scossa nervosa, che pungolava il dopo-mangiato  e rompeva i conversari svagati e un po’ intorpiditi che legavano alla tavola.

Prima del letto e del riposo stavano i piatti da rilavare e riporre.
La casa, già calda, bolliva per l’acqua che si voleva fumante e le due nuore di fretta, nello  stanzino, lavavano, finalmente d’intesa, e asciugavano i piatti.
Gli altri potevano, secondo contratti e bisogni, usare il tempo del pomeriggio…
Ma chi poteva avere il coraggio di svenare il silenzio, che a cordoni stringeva la casa?

Il silenzio scendeva di colpo anche fuori, migrava leggero e aveva qualcosa di trattenuto: non era assenza, non era vuoto, era un esserci a bassa voce, di rimbrotti e risatine chiocce, come se dal volume dipendesse il tacito accordo del viale.
E il silenzio portava la frescura di finestre accostate, di porte con un filo di sfiato.
Niente più voci, zitte le radio sulle ultime note di Capodistria, niente più piatti e ciabatte veloci.
Un silenzio arancione.

Forse per questo, decimata dalla colonia e dalle fughe presso i parenti, la repubblica delle bambine viveva i pomeriggi di luglio come un’occhiata interminabile.
Dopo, si poteva giocare.
Ma prima…, prima si era occhi.
Quando il caldo era troppo appiccicoso perfino per leggere, quando il sole era così invadente da portare fin davanti a casa l’odore delle cipolle marce della stazione – porto, si accettava lo statuto del silenzio e sui gradini di casa o sulla scala di marmo dei veterinario si lavorava di occhi.

C’ erano soprattutto i bagnanti, da guardare, che usavano il viale come  scorciatoia per raggiungere la spiaggia di Po; sull’ ora del sole caldo, scorrevano donne con sporte rigonfie, sgabelli di tela, tende e bastoni e tanti bambini, propri e affidati, pronti a rubare al fiume la parvenza di un mare povero.

Nel viale non tutti andavano a Po.
Non c’erano molti adulti consenzienti a restare sulla sabbia calda e a urlare preghiere e sgridate.
Il Po faceva paura.
E innervosiva le donne, ridacchiava mio nonno…
Noi bambine, poi, avevamo ben altro da fare. C’erano i morosi da guardare, quelli veri e quelli pensati.
Intanto si spiava la partenza dei più grandi  per il Po,  quelliche potevano andare da soli e che mai si sarebbero portati dietro i piccoli. E poi, e poi…

E poi c’era anche chi, fra i grandi, non andava a Po.
Il Leo, il più bello, si sdraiava sui tronchi scortecciati che occupavano il cortile della segheria, torace nudo e calzoni corti. A occhi chiusi e le braccia incrociate dietro la testa.

“Come è fatto bene”- diceva piano piano la bionda, che ci guidava a passi felpati vicino alla siepe di confine, che separava il giardino del veterinario dalla segheria.
I bossi e gli ireos tagliavano l’intero, ma, fra rami e spade, lui si poteva ben vedere…
“Sembra Mercurio”- dicevo io, che non avevo molti termini di paragone.
“Ma va làààà”- insorgevano le altre che fingevano di essere più documentate.
“È tutto Gregory PecK” – faceva la Cri, che andava sempre al cinema dal prete.
“Però ha i ricci”- diceva l’altra.
“E allora è Gregory Peck coi capelli ricci. Io l’ho visto coi capelli ricci in un film”- mentiva la Cri.
Fra sospiri e gomitate si guadagnava a turno la postazione di spionaggio.
E le ginocchia, a stare sulla ghiaia, si bucavano e assomigliavano a spugne arrossate.

Lui, il bello, succhiava il sole con tutta la pelle e si tirava, lucido, per non perderne neanche un po’.

Piccolo mito del Libro

10 sabato Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in etimitìe

≈ 40 commenti

(dedicato a Clelia del lenzuolo)

Che LIBeccio sia furia e tempesta nessuno nega.
Ma chi lo vide toccare la ROsa e saggiarne la tenera carne e giocarne il profumo… sa il suo desiderio di stare.
Fu, il fiore, un invito alla quiete.
La fatica di coste e deserti disciolta in grembo alla rosa (sussurrofremitobrivido?)
L’aperto nel chiuso, fra petalo e petalo carezza sinuosa che sfoglia, che segna, che scrive.
E in questo sostare/sfiorare fu il LIBRO.

Il lenzuolo

07 mercoledì Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Qui vicino c’è un paese che t’accoglie con la sbarra del passaggio a livello.
Non è né bello né brutto: è un paese e basta, coi portici diseguali e una chiesa che non dice niente.
Mediatori in piazza, la domenica mattina.
Qui, però, c’è una donna vecchia, con gli occhi scuri di contadina furba: si tira bene i capelli sulle tempie e li ferma dietro le orecchie, mette le perle al collo per le fotografie e la camicia con il fiocco davanti.
Ha lavorato la terra, dove la chiamavano, ha fatto i figli e se li è tenuti attorno perché non s’arrampicassero sugli alberi del padrone, per via dei frutti.
Poi ha salutato il suo uomo, che se ne è andato sotto terra, e una notte ha tirato fuori dall’armadio un lenzuolo, che non avrebbero più consumato insieme.
A due piazze, grande, di dote.
Il letto era vuoto e lei se l’è spianato bene sul cuscino, e l’ha percorso, da un capo all’altro, con la penna a punta grossa, nera, e la scrittura di chi ha fatto poche scuole.
La Clelia ha scritto la sua vita su un lenzuolo di tela forte.
Avanti e indietro, coi numeri a sinistra per non perdere il conto,… i pensieri sì, … il filo sì, qualche volta si è perso, perché è lunga la strada da un bordo all’altro del lenzuolo, c’è un mare bianco in mezzo e le parole s’inchiodano dentro le rime in are, dentro le doppie che non fanno musica. Le parole acchiappano al volo gli accenti…, gli accenti sì che occorrono, per fermare la voce.
E i ricordi, anche i ricordi vanno e vengono…Non c’è orologio a dar la dritta.
La mano non corre ballerina sulla tela, non scivola, fa onde, invece, che salgono e che scendono: rigano malferme malcerte il bianco, a dire quel che c’è dentro la vita e che può stare in un lenzuolo lungo e largo.

Sa di corpo, ‘sto lenzuolo. Solo a muoverlo, solleva tanti nomi, quanti nomi: uno sciame di bruscoli, se una fascina cade.
È voglia di libro, ‘sto lenzuolo, e poesia.

A pensarci vien da chiedersi quanta tela occorrerebbe per scaldarci con la nostra vita.

Dedicato a Clelia Marchi, che, nel suo “Gianca na busìa” (Fondazione Mondadori), sa dire : “Vorrei tornare indietro, rubare un giorno di felicità, per farmi un presentimento”.

I primi giorni dell’anno

02 venerdì Gen 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 55 commenti

I primi giorni dell’anno sono come l’incipit di un racconto.
Credo nell’energia buona degli inizi, nella carica sottile che sanno comunicare.
Per questo vorrei cominciare con un congiuntivo, che sa di sogno, di “magari”, di desiderio, ma si fa robusto, in fondo in fondo, di una venatura di “possibile”.
L’ho preso a prestito da Gianfranco Maretti che sa far danzare la vita… e appoggiare al muro di casa mia, al momento giusto, una piantina di ciliegio, perché la primavera è bianca come i suoi fiori, ed è bene anticiparla.

Fossimo

“Fossimo bicchieri sonori o lenti. Le lenti sono tutta mente. Tutta anima, le bacchette di sambuco. Dirigono, e divertono l’aria.
Sono più oggettivi gli oggetti addormentati. Il buio e le promesse li fanno addormentare.
Fossimo biglie o pedali. (Più innamorati di una biglia non possono gli oggetti). Dell’infanzia restassero i pedali.
Fossimo caviglieri. Entra il brio delle mani tra le corde e i caviglieri.
Basta capovolgere oggetti innamorati nel buio delle camere e fuggire. Iniziano gli oggetti a traballare o, se preziosi, a trasalire. Un vento spalancone sopravviene. Fuori da finestre e finestroni balzano gli oggetti, diventano maracas. Piccole o grandi, secondo le forze di polso dei fuggiti.”

(G.Maretti Tregiardini, Fiabario)

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