• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: febbraio 2004

Innominabile

25 mercoledì Feb 2004

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L’aria era dolciastra di ciance, resti grinzosi di barbabietole sfrangiate .

Uscivano dallo zuccherificio sui rimorchi e lasciavano sulla strada strie bavose di lumaca, umide di un odore grasso, rotondo e caldo.
L’odore di ciancia saturava il naso e la testa, sembrava arrivare in tutte le parti del corpo.
Era più quieto l’odore delle barbabietole bagnate, sui carri infilati l’uno dietro l’altro, ai bordi delle strade- nervature che portavano allo zuccherificio.

Tanti carri, tanti camion e tanti uomini, concentrati nella strada grande e nelle vie piccole in attesa dell’accesso.
Ti svegliavi la mattina con le voci sotto il balcone e dovevi stare attenta per non farti vedere fra le fessure rosa della laghestroemia, così, con la camicia della notte, leggera .
Avevano sguardi invadenti, gli uomini, e invadenti erano i carri che neanche lasciavano vedere le finestre basse della casa di fronte: un esercito di barbabietole, una occupazione straniera…

E se volevi andare dalla lattaia , dalla Elsa lattaia che sembrava una gnoma buona col corpo poggiato su gambe a polpa di rana, dovevi zigzagare in mezzo a tanfi di sudore e di vino e braccia nude e certe parole che facevi finta di non sentire e certi manifesti o foto attaccate ai vetri dì camion di donne spogliate e tettute, che non c’era confronto.
La stessa cosa se dovevi andare dalla Luciana magliaia. Sarta al bisogno, era stata eletta a segreta custode dei nostri transiti di abiti, da quando, nella casa, la famiglia non era più quella di prima.

La famiglia grande era sfragolata via, sciolta in bocca come la grana grossa di una torta sbrisolona, mangiata dall’età dei vecchi e dalle partenze dei giovani. Ma ancora ne restava il dolce, a tavola, quando da ogni cosa o gesto o parola usciva il nodo di un richiamo.
Solo, non sapevi se avresti trovato, dentro, una mandorla buona o un grumo di farina gialla, senza troppo sapore.

Andare dalla Elsa lattaia o dalla Luciana magliaia era la mia prova di disinvoltura, che preparavo con minuziosi piani, per vincere rosolanti vampate di vergogna.

Perché le vergogne erano molte. E montanti.
Il naso, ad esempio.
Antico, diceva la Rosa miamamma, per consolarmi. Antico. Ma cosa se ne fa una, a tredici anni, di un naso antico…
E il petto, che cresceva mortificato dalla schiena, apposta incurvata fra i gomiti stretti, per nasconderlo.
E le gambe nude, a cui non mancava il pudore della stoffa, ma che la bicicletta scopriva e non c’era niente che si potesse fare se non l’andare a piedi.

Sul petto, in particolare, gravavano preoccupazioni grosse.
“Un sostegno”, diceva miamamma, con grande soddisfazione della Leda miazia di piazza, la più mondana delle mie zie, in visita perenne, che già profilava all’orizzonte le calze fine.
“Ci vorrebbe un sostegno”, diceva miamamma, attenta a non farsi scappare la parola impronunciabile, innominabile, quella che bastava a sollecitare le mie rabbie secche e i miei mutismi di cemento.
Ma cosa c’è da reggere, se si vuole cancellare, fasciare, rimpicciolire, o, meglio ancora, nascondere assolutamente?
Ah, il sogno della mummia….
Cosa c’è da reggere, se poi c’è da ammettere che si è saltato il fosso e bisogna fare di conseguenza?
Ignorare bisogna, per restare nella sospensione, per non dover fare domande che urgono, ma che restano lì, a strati, senza parole capaci di dirle.

Dal giorno in cui era cambiato qualcosa e miamamma, con una confidenza che non volevo, mi aveva parlato a voce bassa, fra me e il mio corpo non c’era più allegria, non sapevo più cosa mi riservasse né quando.
C’era da vivere con un altro tempo, che aspettavo a orologi strani: la testa con il caldo dentro, il male alla schiena, gli occhi intorbiditi.
Ela malinconia….come se, nel corpo, nel cuore, scorresse una vena tiepida che scioglie i pensieri, toglie i confini, e lo star bene e lo star male non hanno più bordi, ma impigriscono nel medesimo stagno, nella lentezza dei viaggi mentali, alla ricerca delle spine e delle carezze.

Era meglio prima. Ora, che tutto era deciso, non provavo nessuna contentezza, sentivo solo il fastidio del corpo che decide per te. E non volevo segni definitivi, io, e rispondevo male anche alla Luciana magliaia, alleata di miamamma, nella crociata dei sostegni.
Molto meglio i miei metodi: fingere che non era cambiato niente e non guardarmi mai.

Passavo fra gli uomini dei camion misurando per un attimo le distanze con gli occhi: andare giù di là, per evitare il fisso, salire sulla cornicetta curva che segna il bordo della strada, oppure rasentare la siepe.
L’importante: non fissare in faccia nessuno, non cercare gli sguardi, e magari concentrarsi su un gioco.
Era in quei momenti che scommettevo con me stessa…. Se vedo un chiodo arrugginito per terra, se le ombre sono almeno sedici, da qui a là, va tutto bene, e anche se sono sedici gli alberi, e anche se sono sedici i confini fra cosa e cosa.

Rassicurante il mio mondo da contare, un mondo esatto che assorbiva tutti i pensieri e le paure, da raddoppiare coi multipli per farlo durare di più.
Sì, perché se ero sicura di avere davanti un tratto lungo, alzavo la posta : trentadue, sessantaquattro, centoventotto. Erano belli questi numeri, perché, a dividerli per due, si arrivava a uno. Il più bello e irraggiungibile era duecentocinquantasei.

Non ero neanche arrivata a contare trentadue sassi con la punta, quando la mano, da dietro, mi sfiorò l’attaccatura dell’orecchio, con la carezza dell’indice contro il collo, lenta.
E il calore sembrò venire, assieme alla vergogna, da luoghi lontani.
“La gala pel ad persac, la putleta”, rideva l’uomo coi peli rossi.
E io lì, coi miei numeri spezzati, non sapevo se ridere o se piangere, con tutto il sangue del corpo in faccia; io non la volevo la pelle di pesca e non volevo che nessuno la vedesse e ridesse e mi toccasse.
La Diana mica la toccavano, se passava, le fischiavano dietro, perché lei era già arrivata…, non era un po’ e un po’. Con lei nessuno si prendeva una confidenza così.
A chi sta in mezzo, invece, tutti si sentono in diritto di fare persino una carezza, di dire qualcosa.

“Me lo metto, il reggipetto – dissi tutto d’un fiato alla Luciana magliaia – però sopra la canottiera”.

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 Dolzùre…

19 giovedì Feb 2004

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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C’è tanto freddo fuori, neve pioggia e vento.
La tenda sbatte.
Si sono persino spente le luci del viale.
Per fortuna le parole non si spengono mai, a maneggiarle con cura.
Ho cercato  fra quelle  di un amico, perché, forse, la dolcezza passa anche attraverso il regalo di una rima, che tintinna sul palmo delle mani…

La Dolzùra

La dolzùra fa rimare. La memoria porta ai velati, la dolzura porta ai fatati.
I velati sono incerti, i fatati possiedono le rime, e le segnano per far desiderare.
A ciascuno che viene da loro …. una rima, grandissima, iniziata sulla più aperta delle due mani.
Se sono piccole, tutt’e due non bastano, e la finale della rima è da indovinare.
A ricevere “òbati” o “étte”, s’ingrandiscono gli occhi, come davanti agli acrobati e alle marionette.
Ma i più fortunati, quando compare “ura”, voltano rivoltano provano le mani, vedono

Dolzura

Fissamente la guardano per diventare rimatori.
Avessimo due memorie, l’altra fosse la dolzura.

(Gianfranco Maretti)

Cine

16 lunedì Feb 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Si andava il martedì, al Verdi: doppia visione.
Prima….o un drammone d’amore o un filmino alla doris day, roba di sentimenti, insomma, e, poi, al secondo turno, … l’azione: o un film di guerra o un western, o un mitologico pieno di sansoni.

Si andava, comparto femminile di casa, sdegnosamente assente il nonno: amava solo ernest borgnine o e.g.robinson (perché avevano la faccia da bulldog) e se ne restava in salotto col bambino piccolo: con noi l’unica compagnia maschile del Bigio, il gatto grigio, che prendeva la scorciatoia della ferrovia, quella della stazione porto, e ci aspettava davanti al cinema.

Il Verdi era un teatrone senza gloria e senza bellezza, senza boria e senza finezza.

D’estate si sfiatava nell’estivo, sul retro: un giardino con le sedie ballerine piantate davanti al muro bianco. Il proiettore, disposto nel camerino delle gazzose, fra le mastelle piene di ghiaccio, lo animava di vita propria, con figure incrinate da rughe di crepe.
Le parole si svaporavano, facendo il giro del giardino, passavano per le bocche dei portoghesi, affacciati alle finestre delle case intorno, e ritornavano sulla platea, che non stava mai zitta di suo…

A settembre il Verdi ritornava in casa.

A noi piaceva andare al cinema nelle prime sere fresche, quando si usciva col golfino, e si entrava nel tepore del teatro, senza preoccupazioni sulla durata: tanto le scuole mica erano cominciate e la Diana aveva già dato i suoi esami.  Pure quelli …. senza gloria e senza bellezza, senza infamia e senza lode, predicava mianonna, che usava i “senza” per spiegare ogni cosa, in un mondo raccontato per continue sottrazioni.

Mianonna camminava lenta, sottobraccio alle nuore, a cui non pareva vero di uscire la sera.
Dietro, io e la Diana…
La Diana tutta garrula, perché sicuramente avrebbe visto i suoi belli, qualche fila più sotto. Io con la sensazione che qualcosa doveva pure accadere.

“E tu ce li hai i morosi?” – mi chiedeva piano, miacugina…
Certo che li avevo, solo non avevo ancora capito che “moroso” è una parola reciproca e richiede mica solo un’andata, ma anche il ritorno.
Piena di morosi a una sola andata, ero….
Alla Diana, niente, non dicevo proprio niente, che poi lei….sai le bagole che si faceva…
Però ridevo, perché era più semplice ridere, in quel tratto breve fra la casa e il Verdi, coi pensieri già al cine doppio, alla gente, alla disposizione dei posti, ai beni di conforto….

Sì, perché non si dà cine senza beni di conforto, crocchianti e saporiti.

All’ingresso del cine stavano i due baluardi dei beni di conforto, a cui si riservavano le monete della settimana: uno piccolo e uno grande, uno chiacchierone l’altro muto, uno compagno l’altro democristiano, uno a sinistra del Verdi l’altro a destra, uno venditore di brustoline secche e d’un sapore di legno bruciato e l’altro venditore di ceci lessi, tristemente pallidi, spesso freddini e un poco umido-collosi in superficie.

Per motivi politico-gustativi si optava per le brustoline, con qualche ripensamento, qualche vacillamento di fede, quando le si trovava così salate, ma così salate: piccoli semi di zucca incrostati di cristalli, tiepidi tiepidi, che – e fu scoperta poco digeribile – covavano sempre al caldo, nell’ultimo sportellino in basso della cucina economica, in cartocci di carta da giornale, assieme alle pantofole.

Con le tasche piene di brustoline, ogni film, col sottofondo di un sommesso crocchiare anti-chiacchiera, diventava bellissimo, anche se il cinemascope usciva dallo schermo e si imprimeva su mattoni larghi .

Era bello vedere i baci, sbiecando di sottecchi miamamma per sapere se mi osservava mentre li guardavo …, era bello ascoltare le parole d’amore, mentre le donne di casa tiravano su col naso…, era bello sentire il calorino della sala che pareva una carezza col sospiro.

Si usciva un po’ intorpidite, strette, così ci si faceva tepore, a chiacchierare fitto di nomi storpiati e costellati di “ et vist..”

La Diana era muta, persa in chissà quali sogni.

Il Bigio andava avanti e indietro, a intrappolarsi fra le gambe.

Io mi passavo un dito sulle labbra….un bacio avrebbe fatto quell’effetto lì ?
Forse, chissà…sotto la luna.

Una pausa di tempo lento

12 giovedì Feb 2004

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Una poesia di Sinisgalli.
Non per malinconia, solo per sostare un attimo.
In questa giornata di sole e di vento (che cuoce un po’ di freddo, lo sento), il vecchio che rincorre le foglie, qui nel mio viale, sta ora stendendo le gambe, seduto sulla panchina.
Ha il cappello di primavera, quello chiaro.
Mi è sembrato un bel segno.
Una lumachina che interrompe un pianto invernale.

I vecchi hanno il pianto facile.
In pieno meriggio
in un nascondiglio della casa vuota
scoppiano in lacrime seduti.
Li coglie di sorpresa
una disperazione infinita.
Portano alle labbra uno spicchio
secco di pera, la polpa
di un fico cotto sulle tegole.
Anche un sorso d’acqua può spegnere una crisi
e la visita di una lumachina.

(Leonardo Sinisgalli)

La vecchia grossa (2)

08 domenica Feb 2004

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“Ve’ chi putina” …

Mi fermai, la mattina che il ginko biloba dei Castellani era così giallo da sembrare un’estate rubata, ma l’aria diceva che anche quella finestra si sarebbe accostata, perchè ottobre filava novembre e ci sono giorni in cui non si è tanto sicuri di voler crescere, anzi…
Pare che crescere sia tutta una cosa in perdere.

Fermarsi e tacere, perchè non ci sono parole per una vecchia non di casa tua, solo intravista fra i ricami di una finestra, sullo sfondo di una stanza scura.

“Ve’ dentar, che sono nati i gattini della grigia”.

Erano piccole cose tenere, con la pancia bianca e il dorso azzurro, che facevano il pane fusando contro le tettine gonfie della grigia, buttata su una coperta, vicino alla porta della cucina, tra il secchiaio e il muro.

Era strana una gatta in casa, di parto, poi, con quell’odore di sudore vecchio su una maglia bagnata, di urina e di latte, e la zuppa vicino, e stracci di pelle di gallina, secchi accapponati.

Si affrettò a buttar giùle briciole dalla tavola, la vecchia, e diede uno scopaccione alla gallina sulla sedia; ma io avevo già visto, e avevo visto anche la mastella bassa, di latta, piena di piatti e di posate unte, e la tovaglia macchiata sull’altra tavola, nella stanza vicina, ancora così, dalla sera prima o da chissà quanto tempo.

Tutto nella casa aveva una faccia spiegazzata, di sporco polveroso e appassito.
Roba bella andata a male come l’ottomana, azzurra sotto le macchie, e le cartoline con gli angoli accartocciati, infilate nello specchio della pettiniera dell’ingresso.

Si pensava solo ad andare fuori, a scappare via perchè l’aria sembrava piena di santonina, la polvere che in segreto il farmacista preparava per far scappare i vermi dalla pancia dei bambini piccoli.
Forse proprio con il suo odore di noce moscata rancida faceva scappare i vermi.
La ricordavo apposta, quando non volevo mangiare e volevo avere la faccia murata di grigio, per protesta, di fronte a un piatto di pasta puglia, con troppi occhi di brodo.

…dio se ci si sentiva bambini dentro quegli odori di palude, di panni che han preso la pioggia e poi si ritirano in casa, in quelle camere dai quadri grandi e le rose dipinte che pendevano dai muri, sotto il peso dei punti neri di mosca.

Dovette capire il mio schifo, la vecchia, perché non tentò di trattenermi né disse qualcosa.

Solo mise una mano in una certa tasca del suo grembiule, che pareva scavare in profondità estreme, da cumuli di sottane sovrapposte.
Ne trasse un uovo.
“To’, è pulito questo”.

Mi avevano insegnato che non si poteva rifiutare un regalo.
Presi l’uovo, che mi sembrò caldo, quasi un uovo di gatta grigia.

Non andai a scuola.
Andai a casa.
Avevo la malinconia.

La vecchia grossa

05 giovedì Feb 2004

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Ci si rendeva conto che l’autunno non era soltanto la nebbia quando, per via della scuola, si percorreva la prolunga del viale, per arrivare alle medie.
La scuola nuova era in una casa del prete, almeno per la parte riservata alle femmine, e nell’asilo di una volta.
Qui stavano i maschi.
In mezzo, frontiera e barriera, un muro, scalato durante l’intervallo dai ragazzi, che sbucavano a mezzo busto, come burattini di carne, per gridare qualcosa.
Era vicina la scuola, appena spostata a destra, dietro il monumento, tanto che cominciavi a vederla, se rasentavi il muro della casa col giardino staccato. La strada si strozzava a intervalli irregolari, e, superata la casa della bambina col ventaglio, si stringeva proprio in bocca ad una casa piccola, la soglia sull’asfalto e il giardino dall’altra parte, col suo bel numero pari sul muro e un continuo travaso della famiglia: un po’ qua e un po’ là, a seconda del tempo.

D’estate, a passare per quel segmento stretto fra case grigie o coi segni di un qualche giallo, era come entrare nelle piccole vite.
La signora dei bottoni e la camiciaia chiudevano il viale, ma continuavano nei sarti della casa col giardino staccato. Con la porta sempre aperta e la finestra sfacciata, che   quasi sentivi l’odore misto e leggero del caffelatte col pane, che non è amaro e non è dolce, la mattina.
In ottobre le finestre si chiudevano e io, che ormai arrivavo a specchiarmi nei vetri alti della cabina della luce, alta abbastanza per sbirciare anche in casa, non potevo più giocare a indovinare il colore della vestaglia della vecchia o se il vecchio con le spalle strette mangiava nella scodella in canottiera,

Dietro le finestre chiuse, ciascuno si riprendeva la sua vita. Senza più confidenza con il fuori.
Solo l’estate fa teatro. Ai giorni freddi restano il pudore e gli odori forti, i fritti che sfiatano dalle imposte e gravano nelle strade strette.
Come vecchie abitudini.

L’unica finestra aperta nei giorni d’ottobre era quella della casa d’angolo, con le inferriate a ricamo e la ruggine ferrosa a scaglie piccoline.
Dietro la finestra era sempre seduta la vecchia grossa, di cui io sapevo solo il soprannome, quello che le donne dicevano ridendo, facendo intendere che la vecchia era sporca e un poco matta. Ricca e un poco matta da quando la figlia si era sposata lontano e a lei era andato il sangue alla testa per il dispiacere. Il sangue alla testa.

“Ve’ chi putina”.
Sempre la voce col lamento chiamava. Ma il lamento non faceva che rendere più vere le chiacchiere delle donne.
E il sentirsi tanto forti da non rispondere costruiva piano la distanza del disprezzo. O forse la repulsione. La repulsione verso ciò che vecchio e non gradevole, verso ciò che è vecchio e non è di casa tua.
Ci si può abituare alla dentiera dentro il bicchiere, rosa e impudica sopra il comodino o alla pelle sottile delle gambe crespe, come sfogliate, o a quella che grinza dal gomito al polso, se si accompagnano ai riti del mattino , quando il vecchio di casa tua è anche bello di profumo e strano nel suo bere la Ferrochina Bisleri nel caffè, la camicia bianca che sa di sapone.
È il vecchio dalla stilografica col pennino d’oro, che ti fa sentire piccola perché ha spalle forti. E ti lascia ciucciare, strusciandolo tra l’indice e il pollice, il lobo dell’orecchio, che è morbidofresco del fuori, della nebbia o del buio.
E scrive a svolazzi verdi giustificazioni che ti fanno arrossire, ogni volta che sei stata a casa da scuola. La bambina è stata a casa perché c’era il sole e siamo andati a fare un giro sull’argine. La bambina è stata a casa per salutare Bigio che è venuto apposta a raccontarle l’opera di Verona.

È sentirsi grandi coi vecchi la cosa terribile.
Sentirsi forti, di fronte al loro bisogno, sentire il fastidio dei grandi che odiano la debolezza,  perché la propria forza non è ancora così ben rodata, da essere magnanima….

“Ve’ chi putina”
Scappare veloci, fingendo un punto lontano da inseguire, inventare un amico all’orizzonte e dirne forte il nome e fingere di corrergli incontro, mentre uno strano disagio urta lo stomaco. E non sono farfalle di sorpresa.

“Ve’ chi putina”
Scappare veloci, avendo negli occhi tutte le storie strane di quel giardino col muro alto, di quella casa,  tutti i racconti di gatti spariti per far dar concime alle peonie, rosse e carnose.

“Ve’ chi putina” …

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