• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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La bambina del ritorno

27 lunedì Lug 2015

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La bambina scese un po’ stranita, con le orecchie incantate.
–Grazie, disse all’autista, che le allungava la valigia.
Sentì la sua voce arrivare da lontano, fra pareti di lana o pannolenci.
E l’oscillare della terra, a barca: l’asfalto messo lì, un gradino sotto. Come  quando  ci si  sveglia  dopo un sonno lungo e si tocca il mondo, inaspettato, planando sopra  il  materasso.

Le altre della colonia erano già scese: lei era l’ultima, nella corriera vuota.
Aveva provato a fare la spaccata, tenendosi stretta a due sedili.  Anche una capriola.
E aveva cantato la canzone di tutte le mattine, quando si sfilava di fianco al tavolone,  col caffelatte nelle  scodelle e il pane già tagliato.
I chilometri sembravano più lunghi, così si era seduta ben davanti, dietro l’autista, per arrivare prima:  silenziosa e composta, il fiocco ripassato, convinto a tener fermo il ciuffo di capelli. Come piaceva alla  Iris  suamamma, che li tirava indietro dalla  fronte, solo lasciando un riccio per i baci.  Ah, ma  quella  virgola  adesso non la  voleva più: aveva nove anni ed era stata via due mesi interi per  scappare alla tosse dei bambini.

La corriera si era fermata con un sospiro a scatto e un cigolio di molle, sfiatando stanchezze e sospensioni, qualche minuto prima del previsto.

La bambina ci rimase male: alla fermata non c’era nessuno.
E  nessuno  neppure  sul sagrato, luogo di eterne chiacchierate di vecchi tiratardi.
L’una sembrava un tempo pigro, nel paese. Solo rumori  di stoviglia, a parlare  di tavola e  cucina.
Vero che la corriera era arrivata presto e lei chissà cosa aveva scritto a casa.
Vero che c’era solo da attraversare la strada, perché la trattoria era proprio lì, a prendersi tutte le ore giù dal campanile, la faccia in piazza, il dietro contro l’argine.
Però.

Fece i tre gradini e scostò  la tenda con  le  serpentine  che parvero dure, quasi viperine. Una frustata sulle braccia.
-I t’a scurtà la pataiiiina, le  fecero il verso due clienti che aspettavano pazienti le tagliatelle della Dina.
La bambina  si guardò la sottana e poi le gambe, gambe scure, lunghe e magroline: era tutto proprio come prima.
–Perché?, chiese la  bambina, il  vestito non è mica diventato  corto…
–Adesso  che è nata la putina, vedrai che per te c’è meno stoffa. Le donne son tutte là di sopra.

La bambina sentì una cosa dentro: un sasso tirato da lontano.
Ma come? Bastava star lontani un poco per trovare  il reame tutto preso?
Per non avere nessuno che t’aspetti alla corriera?
Neanche il nonno, sempre pronto  per i giri sull’argine,  al  mattino.
Neanche  la Iris  suamamma. In fondo quella nuova era solo la figlia di suazia.
Ecco, l’avevano mandata là in montagna perché non restasse a disturbare: faceva  bene a non volerci  andare altroché respiri l’aria buona.

Salì  le  scale con  pensieri che sembravano cattivi come la  tosse che aveva la  Selene, una  tosse  con l’unghia, forse col becco.
Ma la bracciata poderosa,  quella di sempre,  quella di suo nonno, la  sollevò da dietro.
–Ehi, signorina Tahitù, avevi scritto che scendevi al botteghino…

La gioia   prende forme  strane:  arriva allo stomaco o fa le gambe flosce.
Alla  Diana sciolse  il fiocco dei  capelli ed anche il dispiacere: pianse un attimo, in piccolo, sbirciando oltre la spalla di  suo nonno con occhi  lunghi  ed indagatori.

Nella stanza  oltre le scale  le donne, incuranti dei clienti in trattoria, legavano due poltrone  di vimini: una contro l’altra  per fare una culla,  anzi  quasi  un nido.
Le fecero festa con abbracci  e baci,  ma la Diana era decisa a non dare troppa confidenza:  prima  doveva   capire  la  faccenda della stoffa.
-Cocca, ma vieni  qui a vedere.

Era  una   bambina rosa.  Rosa  davvero, di quel rosa  un po’ sciocco che fa pensare ai confetti e alle cose buone e rotonde da mangiare.
La Diana mandò in giù l’ultimo singhiozzo e la  toccò soltanto con un dito: era tiepida  e molle  e  senza camicino. Tutto poteva farle male.
Poi  ci  fu quel gesto.
Suazia scuoteva  la bottiglia di  vetro con  il ciuccio: il latte a  schiumare tumultuoso.
-Sentiamo se scotta o se va bene.
E ne fece uscire una  goccia, solo una goccia, sul braccio nudo della Diana: all’interno, dove  la vita è sottile  e chiara.
La briciola di latte aveva quel calore quieto che fonde corazze e resistenze: trovò la sua strada sotto pelle, perché i bambini sanno la mitezza bianca  dell’amore.
-Sì che va bene, disse  la Diana.

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La bambina del treno

20 lunedì Lug 2015

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Mare.
La bambina doveva andare al mare.
Il dottore aveva detto che proprio bisognava: la tosse poteva peggiorare e le ossa chiedevano del sole ché parevano fatte con la cera. Un sole mica di campagna, con l’umido che resta sulla pelle: un sole che sa di vento e sale.
Bisognava, proprio bisognava.
Il posto c’era, là nella colonia: il dottore aveva insistito con le suore. Era uscito un sì di malagrazia, ma solo perché Sesto tagliava il rosaio della siepe, dopo l’inverno.
(Almeno vederla in chiesa, la bambina, qualche volta, dicevano le suore. Eh, in chiesa. Giusto ai funerali. C’era un bel tempo per portarla in chiesa. Alle sei si era di trotto, a fare le giornate: persino a battere canapa nel macero, che non c’è fatica al mondo grossa uguale, no)

La Dilma era rabbiosa. Come quei cani che stanno alla catena e l’acqua è un po’ più in là. E non c’è verso. Neanche a tirarsi il collo.
Al mare servivano le cose: grembiuli leggeri, un costume, magari fatto a ferri, a maglie fitte fitte. La sera si poteva fare. Questo sì. Ma c’era da comprare un po’ di biancheria e cucire i numeri di dentro. E mettere la piccola sul treno, ché, gli altri, erano già partiti. Da andare fino a Ferrara.

La bambina si guardò intorno: il biglietto stretto nella mano, la valigia nella rete, sopra la sua testa, la carta dell’Italia con tutte le regioni, sul fianco del vagone. Scuro, col portellone che si chiudeva truce: uno schiaffo di ferro.
E la busta dei soldi, in tasca, perché non si sa mai.
-Guarda di portarli indietro tutti, aveva detto sua mamma
E la bambina – Sì.

La campagna correva davanti al finestrino. Il gioco era aspettare il colpo sghembo, un nodo lì, sulla rotaia o una curva ribalda all’improvviso, e sbattere qua e là: veniva voglia di accompagnare la scossa con i fianchi e ridere di dentro.
Però.
Il caldo, il giallo, il finestrino chiuso facevano venire una gran sete.
Passava il ragazzo con il secchio: le bottiglie ficcate dentro il ghiaccio. Aranciate con le gocce in corsa lungo il collo. Dovevano essere gelate. Lo diceva, il ragazzo, con grido modulato, ogni volta che passava in corridoio.
La bambina gli teneva dietro, con occhi innamorati di quel fresco, ma i soldi dovevano restare nella busta.

Il treno si fermò: il ragazzo lasciò il secchio lungo il corridoio, chiamato all’uscita da una voce.
La bambina fu svelta come non sapeva: la bottiglietta nascosta dritta, fra la schiena e il dorso del sedile. In un fermo egizio.

Tutto riprese, quasi come prima: tre vecchie dentro lo scompartimento, davanti a lei, quasi un tribunale, a parlare in italiano bello. La bottiglia a fare freddo fra le ossa, e la carne, intanto, già incantata. La sete a cementar la gola, con la parola ladra di traverso.
Il ragazzo passava e ripassava col suo secchio e col suo grido: a ogni giro la paura rospa saliva su dal basso e si gonfiava, quasi il respiro fosse la sua pompa e tutto il corpo cuore.
La bambina avrebbe voluto scappar via, ma l’aranciata si era fatta un nido di ghiaccio e di rimorsi, sulla schiena, e la teneva stretta.

Scese per ultima, dopo la vecchia che le aveva calato la valigia.
La bottiglia intatta sul sedile. L’ombra bagnata sulla schiena. La suora ad aspettarla sul binario.
–Sei sudata, le disse.

I tempi del fiume

15 mercoledì Lug 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Le suggestioni che nascono da Lungo il fiume di Ermanno Olmi vengono da molto lontano.

Sono il frutto di una filigrana di sovrapposizioni.
Sovrapposizioni non solo di linguaggi (immagini, colori, musica, citazioni…).
Sovrapposizioni di referenti di significazione (cioè di orizzonti di interpretazione, di sfondi per la lettura) in dialogo fra loro, perché è l’immagine stessa del fiume ad appartenere a sistemi culturali diversi e distanti, capaci di operare un continuo rilancio di donazioni di senso.

Quattro fiumi celesti delimitano i confini del mondo originario, secondo l’Antico Testamento.
Un fiume è il confine della Vita, nell’Aldilà.
Nei fiumi vivono i draghi, secondo le leggende cinesi, e grande è l’imperatore che sconfigge le divinità fluviali: da questa sfida acquisisce il suo eponimo più glorioso.
E’ presso il fiume che il Siddharta di Hermann Hesse impara le sue verità….. “Non è vero, amico, che il fiume ha molte voci, moltissime voci? Non ha la voce di un re, e quella di un guerrigliero, e quella di un toro, d’un uccello notturno, e d’una partoriente, e d’uno che gema e ancora mille altre voci?”. “Così è,” ammise Vasudeva “tutte le voci delle creature sono nella sua”.

“L’umanità, con tutti i suoi confluenti , grandi e piccoli, scorre sempre avanti, proprio come fa il fiume, dal¬la sorgente della nascita al mare della morte,- due oscuri misteri all’una e all’ altra estremità, e, fra essi, gio¬chi vari e vari lavori e incessante chiacchierio……… Centinaia di anni sono passati ronzando, mentre si eleva il ritornello del fiume: Io vado innanzi per sempre!” -dice l’indiano Tagore, riflettendo sulla somiglianza fra la vita del fiume e quella dell’umanità, accomunate da un incessante movimento progressivo.

Nell’opera di Olmi torna, dunque, l’elemento del grande fiume, con una ricchezza pluridirezionale di messaggi.
La parola del Narratore, poi, mediata dall’Antico e dal Nuovo Testamento, dal Libro di Isaia, messianico per eccellenza, come dai Salmi o dal Vangelo di Giovanni ( a sua volta, libro di Luce), non fa che infittire questa trama di rimandi, che cercherò di fissare in una costellazione di riferimento, prendendo come cardine il concetto di tempo, di cui il fiume è per antonomasia o per tradizione “ figurazione potente”.

Gilbert Durand, nella sua opera Le strutture antropologiche dell’immaginario, pone l’acqua fluviale che scorre fra “i volti del tempo”, figura dell’irrevocabile, dell’inarrestabile, “clessidra definitiva” .

Da Eraclito agli Stoici il fiume conserva questa connotazione.
Rientra nella galleria dei topoi che cercano di fissare la peculiarità del tempo.
Il tempo
• è profundum, abisso che precipita,
• è punctum, attimo atomo,
• ma è soprattutto flumen, che scivola, scorre.
Il tempo “fluit” e “rapit”….

Per parlare del tempo Seneca usa il linguaggio del fiume, i verbi del fiume che conferiscono movimento, rapidità, impetuosità.

L’opera di Olmi si appropria di questa metafora, la rivisita e va oltre: già il titolo lancia un termine ambiguo, a metà strada fra spazio e tempo; “lungo” , infatti, è vocabolo bifronte, capace di individuare un cronotopo: sa di spazio e di tempo; al primo regala la connotazione di filo, di nastro, e, avverbialmente, l’idea del costeggiare; suggerisce un bordo, una riva da profilare, una riva che si estende come linea, non come segmento. Proprio questa suggestione evoca un’ idea sequenziale, una successione temporale, che produce durata.
Con la parola “ lungo” si procede dinamicamente sul filo dello spazio, che si dipana nel tempo.

Tutte queste connotazioni vengono assorbite e rivitalizzate nell’idea di viaggio, situazione che, appunto, si fa, prende forma attraverso le coordinate dello spazio e del tempo.

E viaggio dall’alta alla bassa pianura, viaggio irregolare e discontinuo ( mai le riprese dell’acqua seguono lo stesso verso….)… è questa ricognizione di Olmi attorno al fiume:
viaggio fra uomini e cose, fra paesaggi che cambiano e riti e gesti che restano;
viaggio che conosce la dimensione dell’orizzontale e del verticale, perché il passaggio dall’acqua- terra al cielo è continuo, suggerito dalle simmetrie di volo degli uccelli, pascolianamente epifanie dell’alto.

“Affresco” lo ha definito Piavoli, affresco animato, contenitore di tante diverse temporalità:

• c’è il tempo della natura, scandito dal ciclo delle stagioni, dall’alternanza della luce e del buio, dallo sfumarsi dei colori, dall’avvicendarsi di sole, nebbia, vento e gelo; è il tempo degli elementi, ora amici ora tanto nemici da assumere la forma violenta del pericolo, della piena che tracima e minaccia; si tratta di un tempo auto-regolato, ricorrente, scomposto in una serie infinita di piccoli vettori a sé stanti, tanti quante sono le forme di vita, che fanno brulichio e partecipano al tempo con diverse velocità e con diversi ritmi, reciprocamente prestati e confusi : e allora la danza delle farfalle bianche diventa la danza dei piumini del pioppo che planano a terra e questa, in un gioco di metamorfosi, lascia la sua eredità d’immagine a un greto poroso che si anima di girini. E’ un tempo ciclico che incorpora il concetto di varietà , dove la nascita e la morte sono uguali, identici principi vitali.

• c’è il tempo delle cose, che è tempo dell’uso e del disuso, della rapina e del degrado.
Sulle cose il tempo diventa segno, traccia, ruga : il tempo diventa età. E’ la ruggine degli attrezzi, è la tenda cadente, è la barca sfasciata, dalle doghe slegate, è la facciata della casa che forse suggerisce un passato glorioso, ma ora denuncia il passare del tempo che è soprattutto declino, perdita della funzione, invecchiamento. Non è, questo, il tempo che si rigenera e rinasce, è il tempo della deprivazione e della logorazione: una fila di poltroncine da cinema, senza uno schermo.

• c’è il tempo degli uomini, che comprende uno sciame di direzioni e di parcellizzazioni:
1. il tempo del lavoro e della fatica,
2. il tempo del riposo e della contemplazione solitaria,
3. il tempo dei riti collettivi della festa, col suo strascico di carnevali, e canzoni, e fuochi d’artificio,
4. il tempo della velocità e della tecnica che amplificano la misura dell’uomo e le imprimono il guizzo del canotto, contrapposto alla lentezza indolente della barca.

• e c’è il Tempo del Fiume , che è il tempo del sempre, indifferente alla misura temporale degli uomini e delle cose, eppure capace di contenerli. E’ il tempo dell’ubiquità : “ Il fiume si trova dovunque in ogni istante, alle sorgenti e alla foce, alla cascata, al traghetto, alle rapide, nel mare, in montagna…..dovunque in ogni istante” .

Ma è anche il tempo che conosce l’offesa dell’uomo e l’assorbe, che sente la ferita e la rimargina, perché è il tempo della rigenerazione, che nella chiusura del cerchio , nella calata al mare, trova un nuovo inizio.
E’ il tempo del ritorno che produce e completa il ciclo della Vita.
Ed è in questa adesione al tempo della Vita che il fiume si riappropria, grazie al commento sonoro, di un’altra preziosa e fondante figurazione : torna al fiume il mito della sacralità dell’acqua, che è purezza feconda, perché dà vita .
Ed è su questo terreno che classicità e cristianesimo si incontrano e si prestano reciproche significazioni.
La sacralità dell’acqua è valore trasversale alle due culture: è sacra l’acqua del fiume nella cultura latina , sacra come tutto ciò che segna la rottura della continuità della terra, è sacra come lo è lo stretto, il ruscello, il lago , è sacra perché smagliatura che l’uomo non può rimagliare senza empietà….ecco perché , per Orazio, è empia persino la barca che solca il corso, ecco perché è così forte la nostalgia dell’ulterioris ripae transactae….sogno di armonia-unità perduta….., tanto sacra che , perché possa essere violata dal sacrilegio-profanazione del ponte, che congiunge ciò che per destino è stato separato, occorre una figura tutelare, un flamen, dal cappello dal lungo filo avvolto, e un pontifex….ovvero un sacerdote….

E sacra è l’acqua che lava e purifica e toglie il peccato , nel referente cristiano. Acqua che dà la vita e pulisce .
Non stupirà, allora, la sovrapposizione dell’immagine del Po con l’immagine messianica : l’offerta del sacrificio, del tempo della mondanità, del corso terreno per la conquista dell’altro Tempo, che richiede l’offerta della vita piccola per il trionfo della vita grande.

Non credo sia catechesi quella che Olmi offre, piuttosto l’occasione per una riflessione sull’uso del tempo e quindi sull’uso del fiume.
A noi che viviamo nel tempo, senza la consapevolezza, talvolta , del suo essere continuo, ma piuttosto come elementi soggetti a scadenza, come unità discrete, forse potrebbe spettare il compito di arginarne lo spreco.

 

La Bina

08 mercoledì Lug 2015

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Alla Bina piaceva stare sulla porta: avevano messo i sassi sulla strada, fin sotto il volto della torre, con le piastre di marmo lungo i lati, due strisce quasi rosa a far da marciapiedi.
La gente ora ci passava.
La Bina tirava un po’ la tenda e lasciava che lo stipite le tenesse su la schiena.
Restava lì a guardare.

Se c’era freddo, sceglieva il mezzogiorno, quando il tempo si ammucchia sopra il campanile e poi cade giù, fra tocchi spessi e grossi.
Erano svelte le donne  della spesa, con la testa ormai alla tavola e al marito: anche le chiacchiere c’erano già state e per la Bina restava quello scampolino, un breve buon giorno di passaggio.
Ma lei se lo metteva via, ogni saluto, anche il cenno della testa un po’ affrettato, ché poi li ripassava sul divano e diventavano il senso delle ore, nei giorni così lenti da passare.

Col caldo, la scusa si faceva buona: la porta sbiecata chiamava la corrente e teneva l’aria del mattino, sulle piastrelle  tirate con la cera. La casa prestava un poco di frescura per una sosta quasi di ristoro: vieni, diceva la Bina, con la promessa muta di acqua col limone e anche di una dalia, all’occorrenza.
Qualche donna si fermava volentieri, entrava nel corridoio fresco, stupita di quanto fosse tutto ben pulito eppure con l’odore della pelle vecchia, di un sudore che non si è più sfogato e resta freddo appena sotto traccia.

La porta scostata anche d’autunno cominciò a dare da pensare: la Bina era lì già dalla mattina, a inseguire con gli occhi facce nuove, a invitare almeno a una parola, a salutare senza riconoscere nessuno.

Quando la notte la videro nell’angolo, col grembiule leggero di cucina, sghemba e spersa come mai, la presero a braccetto: pochi passi, fino alla sua casa.
Non volle entrare: troppa gente, dentro, bambini e cavalli, voci e grida.
Troppo pieno quel vuoto. Troppo pieno.
Non c’era più posto per nessuno.

Piccola protesta stagionale

01 mercoledì Lug 2015

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 23 commenti

Sono reduce da un pomeriggio di sole eccessivo.
Presente il caldo grigio?
Non quello che passa a sbuffo, s’accende e si spegne a seconda del traversare la piazza o del costeggiare un muro.
No, quello che invece grava con le ‘a’ tutte aperte, a zampe divaricate, nell’indifferenza dell’ombra.
Limaccioso e lento: si addormenta  sulle antenne e cola. Predilige le ringhiere di ferro, per renderle incandescenti.
Ogni fessura è buona per entrare: la piega del gomito, il soffio fra due pagine, l’intervallo di un respiro.
E poi i buchi dei pensieri.
Li forza, li slarga e li allenta. Gli orli si arricciano e non collimano più.
I pensieri restano aperti, con le idee che svaporano o si snervano, a penzoloni.

Non si vede, il caldo, e io soffro la pesantezza delle cose che non si vedono.
Soffro la pesantezza del caldo e le sue dispersioni opache.
Il freddo stringe, tiene e fa tenere.
Il caldo è ottuso come un silenzio di stoffa.
Non sa legare.

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