• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: novembre 2015

Traslochi (parte prima)

27 venerdì Nov 2015

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Il freddo prendeva alle gambe nude e alle mani. Anche al naso, se pedalavi forte.
Freddo ortica.
Perché i freddi non sono tutti uguali. Ad andare in bicicletta si riconoscono bene, nelle gambe nude.
C’è quello del mattino di settembre che formicola nell’aria: cerca  la pelle, per il gusto di sentirla fresca, ma basta il riparo di una strada  a imbuto fra le  case. Si stempera ed è ancora sole.
Poi ad ottobre c’è quello frizzantino che conosce le rotte del vento: batte insinuante a media altezza, giusto per infilarsi nelle maniche. Prende in giro i bottoni (che non difendono) e li umilia. Si ferma sulla schiena, come una placca d’argento. O una mano d’acqua di Po.
Ma quando sale dal basso, a novembre, e sembra un fiato di terra e di buio, allora il freddo punge gli occhi e porta li putini, le lacrime bambine, amiche di magoni (mai risolti in pianto) e raffreddori, trucioli di lucciconi che non scendono, non scorrono, ma si arricciano ai bordi. Vetrini frantumati a orlare gli occhi.

Per questo, a navigare nella nebbia, ti veniva voglia di casa e del suo odore di caldo…
Solo dopo era bello guardarla, la nebbia, dalle finestre del pianterreno, da rigare col dito, vapore a lavagna.
Si era pochi ora, nella casa grande, e c’era da arrendersi all’evidenza che  la giovane era proprio lei mia mamma, solo lei. Io, che prima, di madri, ne avevo altre due, la nonna e la zia, mi trovavo adesso ad avere per mamma la meno mamma, quella che ogni tanto piangeva perchè il suo uomo non era mai a casa, per uno strano lavoro che non dava né soldi né quiete.
La consolavo io, con parole sentite chissà dove. E la punivo anche, con bruschezze improvvise se, di colpo, la sentivo troppo debole, troppo collosa.

Così, con la mamma bambina e il bambino piccolo, la sera si era ben attenti a chiudere la porta di dietro e a dare la voce, se si saliva su per le scale da soli.
Tutti e tre nel letto grande, nelle sere di pioggia, io un po’ col fastidio perché non si ripassa la giornata e gli amori pensati con la mamma vicina, l’altra con il magone d’essere lì a metà, il bambino a chiedere ginocchia per giocare.
E la casa non più amica di voci, ma dura nei suoi scricchiolii, nei suoi rumori di stanze semivuote.

Fu a novembre, il giorno dei traslochi, che la casa cambiò. Di dentro, non di fuori.
Fu la camera da letto matrimoniale a scendere in soggiorno e il soggiorno si trasferì dal falegname, per eterni  restauri.
Nella stanza della tavola quadra,  il letto enorme di ciliegio rosso della Rosa miamamma fugò ogni altro mobile e poi si strinse da una parte, magnanimo, per fare spazio al mio mezzoletto, spinto contro il muro.
Il bambino non stava mai bene e le stanze di sopra sembravano ancora più fredde, vicino all’inverno; con la bava del vento che trovava la strada del balcone e si appiattava fino ad entrare fra il legno della finestra e il vetro. Scaldare di sopra per pochi … no, non si poteva. Meglio cambiare modi: il ‘sopra’ scese al piano terra, a pezzetti, a cercare tepore.
La Rosa, che era di decisioni svelte, fece tutto da sola, con l’aiuto del falegname.
Migrazioni domestiche.

La stufa della cucina fiatava calda, attraverso la porta, calda e vicina, come la lingua di un cane da caccia.
Dal letto quasi la potevi vedere, non minacciosa e pettuta come quella a carbone, sul pianerottolo del primo piano, accesa nei tempi d’oro e ora morta e fredda.
Questa era piccola e bianca, coi suoi cerchi concentrici, che aspettavano solo di essere lustrati col sidol  per dare alla casa un odore di argento acido.

Il letto, da basso, ritagliò un’isola tiepida e mite nella casa fredda: due stanze zeppe, così zeppe che non c’era posto per la paura: zattera e soffitta, insieme.
Si poteva far merenda seduti sul letto, senza regole e orari, e, la sera, ridere delle briciole che si erano nascoste nelle lenzuola e si attaccavano alla pelle.
E, ancora, sul letto piaceva leggere i temi alla mamma giovane, innamorata delle parole belle, e commossa ai passaggi giusti, quelli che, forse, scrivevo apposta per lei.

Si saliva al piano di sopra solo per andare in bagno e correndo; in bagno non c’era il caldo gonfio della legna che brucia, ma un caldo a comando di una stufetta elettrica, con due torciglioni incandescenti, che, se lasciavi accesi per troppo tempo, facevano saltare le valvole e denunciavano chi aveva violato la regola del risparmio.

La casa si era ristretta, come un camicino mal lavato, aveva confuso le sue carte e i suoi piani, ma era più difficile ora vedere i buchi delle assenze, incontrare il silenzio della mancanza: c’era da guardare la cappa della stufa, fiorita di una balza arricciata, a quadretti bianchi e rossi. Invenzione materna, scaccia dolore.

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La memoria bella

20 venerdì Nov 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Guardo i vasi di vetro dell’estate, già pronti a prove d’olfatto e di sapore.
Mostarde globose e senapate.
Marmellate di marasche e di prugne, di pesche e di cotogne, che ora maturano in dispensa, fra odori di mandorla e limone, insieme alla conserva rossa.
Quiete.
I ricordi sono più indisciplinati.
Non stanno appiccicati come pere, nello sciroppo che le accoglie.
(Un vecchio sogno,  quello di condensa: candire il dolore, fissandone la vena di dolcezza)
Non stanno separati nei vetri di bottiglia.
(Un vecchio sogno, quello di unità discrete: riconoscere per grazia d’etichetta)
I ricordi s’arrampicano, ad essere sinceri.
I ricordi sfidano le leggi della gravità.
I più pesanti e nuovi, quelli impastati di lacrime e di ansia, scoppiano in bolle a rapida espansione.
Salgono in alto, cercano la gola, gli occhi.
Stringono, non lasciano la presa.
E sono schianto e nodo. Un nodo avviluppato, che si vorrebbe un poco stemperare nella schiuma della memoria bella.

La memoria bella.

Certo ritornerà.
Per lei, per la sua vena d’acqua, si  chiede tempo al tempo, perchè diventi spazio dove galleggiare.
O aria.
O pagina, chissà.
Per lei non si preparano fiale trasparenti, brave a separare, né vasi rotondi come grembi: solo un riquadro bianco per crespi di parole.

Qui come altrove 45.

12 giovedì Nov 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Qui come altrove c’è il vecchio che accompagna il fiume per ripassare tutte le sue età.
Si vede bambino fra i salici, generosi di rami per la fionda, quando la banca dell’argine più basso diventava la nave dei pirati.
Fra i pioppi ascolta il suo fischio di ragazzo, incantatore di fringuelli e di cince senza nido.
Il cuore gli si ferma presso l’ansa, che è fuga e tana: lì c’è ancora il giovane in cerca di miele nel ventre bianco della prima volta.
Gli anni a seguire sono tutti uguali fra i pieni e i vuoti delle case matte, nella golena rigata di filari, fra l’argine maestro e la sponda.
All’altezza dell’abete secco, solo fra tanta selva di pianura, il vecchio incontra il tempo che non sa: guarda  quel viottolo a sinistra, che svolta improvviso verso riva, vuoto come una pagina bianca.
Il vecchio ne sente ogni volta la chiamata, ma torna indietro, per la strada nota.

 

Qui come altrove 44.

01 domenica Nov 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 31 commenti

Qui come altrove, c’è la donna che raccatta le parole perse, sporche di polvere e silenzi, perché mai giunte a destinazione.
Sono quelle implose all’improvviso per una timidezza di cemento, o incrinate da una delusione (la voce si spezza e la parola muore in gola come ingoiata dall’angoscia). Sono quelle rese monche da un addio, murate dall’orgoglio, dal disprezzo o da un eccesso di miele che s’inagra.
La donna le trova sulle panchine più nascoste, nelle stazioni di seconda mano e negli alberghi che contano le ore. Anche nelle fessure delle case vuote, dove neppure l’eco dà risposte.
Non ha cuore di lasciarle in abbandono, allora le buca e le infila nello spago, come da piccola faceva con gli spicchi sottili di mele campanine. Da questa vicinanza nascono prestiti e compense, un transito di sensi amari e dolci, nell’unico, e infinito, romanzo dell’amore.

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