Il freddo prendeva alle gambe nude e alle mani. Anche al naso, se pedalavi forte.
Freddo ortica.
Perché i freddi non sono tutti uguali. Ad andare in bicicletta si riconoscono bene, nelle gambe nude.
C’è quello del mattino di settembre che formicola nell’aria: cerca la pelle, per il gusto di sentirla fresca, ma basta il riparo di una strada a imbuto fra le case. Si stempera ed è ancora sole.
Poi ad ottobre c’è quello frizzantino che conosce le rotte del vento: batte insinuante a media altezza, giusto per infilarsi nelle maniche. Prende in giro i bottoni (che non difendono) e li umilia. Si ferma sulla schiena, come una placca d’argento. O una mano d’acqua di Po.
Ma quando sale dal basso, a novembre, e sembra un fiato di terra e di buio, allora il freddo punge gli occhi e porta li putini, le lacrime bambine, amiche di magoni (mai risolti in pianto) e raffreddori, trucioli di lucciconi che non scendono, non scorrono, ma si arricciano ai bordi. Vetrini frantumati a orlare gli occhi.
Per questo, a navigare nella nebbia, ti veniva voglia di casa e del suo odore di caldo…
Solo dopo era bello guardarla, la nebbia, dalle finestre del pianterreno, da rigare col dito, vapore a lavagna.
Si era pochi ora, nella casa grande, e c’era da arrendersi all’evidenza che la giovane era proprio lei mia mamma, solo lei. Io, che prima, di madri, ne avevo altre due, la nonna e la zia, mi trovavo adesso ad avere per mamma la meno mamma, quella che ogni tanto piangeva perchè il suo uomo non era mai a casa, per uno strano lavoro che non dava né soldi né quiete.
La consolavo io, con parole sentite chissà dove. E la punivo anche, con bruschezze improvvise se, di colpo, la sentivo troppo debole, troppo collosa.
Così, con la mamma bambina e il bambino piccolo, la sera si era ben attenti a chiudere la porta di dietro e a dare la voce, se si saliva su per le scale da soli.
Tutti e tre nel letto grande, nelle sere di pioggia, io un po’ col fastidio perché non si ripassa la giornata e gli amori pensati con la mamma vicina, l’altra con il magone d’essere lì a metà, il bambino a chiedere ginocchia per giocare.
E la casa non più amica di voci, ma dura nei suoi scricchiolii, nei suoi rumori di stanze semivuote.
Fu a novembre, il giorno dei traslochi, che la casa cambiò. Di dentro, non di fuori.
Fu la camera da letto matrimoniale a scendere in soggiorno e il soggiorno si trasferì dal falegname, per eterni restauri.
Nella stanza della tavola quadra, il letto enorme di ciliegio rosso della Rosa miamamma fugò ogni altro mobile e poi si strinse da una parte, magnanimo, per fare spazio al mio mezzoletto, spinto contro il muro.
Il bambino non stava mai bene e le stanze di sopra sembravano ancora più fredde, vicino all’inverno; con la bava del vento che trovava la strada del balcone e si appiattava fino ad entrare fra il legno della finestra e il vetro. Scaldare di sopra per pochi … no, non si poteva. Meglio cambiare modi: il ‘sopra’ scese al piano terra, a pezzetti, a cercare tepore.
La Rosa, che era di decisioni svelte, fece tutto da sola, con l’aiuto del falegname.
Migrazioni domestiche.
La stufa della cucina fiatava calda, attraverso la porta, calda e vicina, come la lingua di un cane da caccia.
Dal letto quasi la potevi vedere, non minacciosa e pettuta come quella a carbone, sul pianerottolo del primo piano, accesa nei tempi d’oro e ora morta e fredda.
Questa era piccola e bianca, coi suoi cerchi concentrici, che aspettavano solo di essere lustrati col sidol per dare alla casa un odore di argento acido.
Il letto, da basso, ritagliò un’isola tiepida e mite nella casa fredda: due stanze zeppe, così zeppe che non c’era posto per la paura: zattera e soffitta, insieme.
Si poteva far merenda seduti sul letto, senza regole e orari, e, la sera, ridere delle briciole che si erano nascoste nelle lenzuola e si attaccavano alla pelle.
E, ancora, sul letto piaceva leggere i temi alla mamma giovane, innamorata delle parole belle, e commossa ai passaggi giusti, quelli che, forse, scrivevo apposta per lei.
Si saliva al piano di sopra solo per andare in bagno e correndo; in bagno non c’era il caldo gonfio della legna che brucia, ma un caldo a comando di una stufetta elettrica, con due torciglioni incandescenti, che, se lasciavi accesi per troppo tempo, facevano saltare le valvole e denunciavano chi aveva violato la regola del risparmio.
La casa si era ristretta, come un camicino mal lavato, aveva confuso le sue carte e i suoi piani, ma era più difficile ora vedere i buchi delle assenze, incontrare il silenzio della mancanza: c’era da guardare la cappa della stufa, fiorita di una balza arricciata, a quadretti bianchi e rossi. Invenzione materna, scaccia dolore.