• Pesci di nebbia

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~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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La Bina

08 mercoledì Lug 2015

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Alla Bina piaceva stare sulla porta: avevano messo i sassi sulla strada, fin sotto il volto della torre, con le piastre di marmo lungo i lati, due strisce quasi rosa a far da marciapiedi.
La gente ora ci passava.
La Bina tirava un po’ la tenda e lasciava che lo stipite le tenesse su la schiena.
Restava lì a guardare.

Se c’era freddo, sceglieva il mezzogiorno, quando il tempo si ammucchia sopra il campanile e poi cade giù, fra tocchi spessi e grossi.
Erano svelte le donne  della spesa, con la testa ormai alla tavola e al marito: anche le chiacchiere c’erano già state e per la Bina restava quello scampolino, un breve buon giorno di passaggio.
Ma lei se lo metteva via, ogni saluto, anche il cenno della testa un po’ affrettato, ché poi li ripassava sul divano e diventavano il senso delle ore, nei giorni così lenti da passare.

Col caldo, la scusa si faceva buona: la porta sbiecata chiamava la corrente e teneva l’aria del mattino, sulle piastrelle  tirate con la cera. La casa prestava un poco di frescura per una sosta quasi di ristoro: vieni, diceva la Bina, con la promessa muta di acqua col limone e anche di una dalia, all’occorrenza.
Qualche donna si fermava volentieri, entrava nel corridoio fresco, stupita di quanto fosse tutto ben pulito eppure con l’odore della pelle vecchia, di un sudore che non si è più sfogato e resta freddo appena sotto traccia.

La porta scostata anche d’autunno cominciò a dare da pensare: la Bina era lì già dalla mattina, a inseguire con gli occhi facce nuove, a invitare almeno a una parola, a salutare senza riconoscere nessuno.

Quando la notte la videro nell’angolo, col grembiule leggero di cucina, sghemba e spersa come mai, la presero a braccetto: pochi passi, fino alla sua casa.
Non volle entrare: troppa gente, dentro, bambini e cavalli, voci e grida.
Troppo pieno quel vuoto. Troppo pieno.
Non c’era più posto per nessuno.

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La Palmira

20 mercoledì Ott 2010

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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margini

S’era sentita un colpo dentro.
Quando il cuore frana e poi pare poggiare sulla gomma.
Su e giù, a stringersi e a slargarsi come gli storni in volo.

Il podere verso la Contotta non ha più mezzadro, aveva detto il figlio grande. Se sposo, lo mando avanti io.
Certo che sposava.
Per esserci, la moglie c’era. Pronta già da un pezzo: bastava solo dire il giorno, anche a un’ora bassa, e la ragazza ci veniva sì, in chiesa, e senza tante storie.

La Palmira fece segno di niente e continuò a rompere le cime dei cornetti, come se il mondo, tutto il mondo, stesse nel cavo della gonna, fra le sue ginocchia.
Due colpi netti.
E nell’aria galleggiava quel rumore verde e secco. Senza cambiare nulla.

Il figlio così se ne era andato, nei giorni giusti del San Martino.
Anche l’altro, un anno dopo, a tenere la stalla delle Stoffe.

A fare i figli tardi, non li si vorrebbe più lasciare andare.

Uguale, la Palmira muoveva i materassi a settimana, nella stanza vuota dei ragazzi, perché la piuma non diventasse trista.
E le veniva da cercare i pantaloni da ripiegare bene e le giacche da riporre nell’armadio.
(Le tasche rovesciate e scosse, per togliere il tabacco, ché sennò le cuciture.)
Come, tanti anni prima, aveva imparato con la sua bambina: la stanza sempre rassettata, anche se non c’era più. Il pettine in linea con lo specchio, i mobili tirati con il panno, le lenzuola rinfrescate a primavera.

Perché le cose tengono.

E li mostrano, i segni della cura.
Restano lì, se non le cacci via.
A fare una quieta compagnia.

Eppure, in certe giornate dell’inverno lungo, la Palmira non sapeva darsi una ragione.
L’ombra, che arrivava nel cortile, entrava per la serratura e le passava diritta dentro il petto: allora la voce del fuoco si abbassava, gli odori restavano aldilà del muro.

Che ne sapeva il vecchio… Il vecchio se ne stava fuori: le carte, il vino, i conti sul libretto.
Ma lei.
Ogni gesto perdeva la misura. Il mangiare cucinato a mezzogiorno serviva anche la sera e il tempo aveva poca susta, fatto di lana da una maglia sfatta.

Allora lo chiese a suo marito, che l’ascoltò, incerto fra il ridere e lo sbattere la porta.
Voleva un torre. Una torre, come quella dei piccioni.
Una stanza piccolina sopra il tetto o un comignolo grande.
Che ci stesse una sedia.
Per guardare la sera le case dei suoi figli, da lontano: là dove c’era il lampione dell’incrocio, là dove il caseificio non spegneva il faro, là dove il buio sembrava un po’ più chiaro.

La Bina

21 mercoledì Lug 2010

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Alla Bina piaceva stare sulla porta: avevano messo i sassi sulla strada, fin sotto il volto della torre, con le piastre di marmo lungo i lati, due strisce quasi rosa a far da marciapiedi.
La gente ora ci passava.

La Bina tirava un po’ la tenda e lasciava che lo stipite le tenesse su la schiena.
Restava lì a guardare.

Se c’era freddo, sceglieva il mezzogiorno, quando il tempo si ammucchia sopra il campanile e poi cade giù, fra tocchi spessi e grossi.
Erano svelte le donne  della spesa, con la testa ormai alla tavola e al marito: anche le chiacchiere c’erano già state e per la Bina restava quello scampolino, un breve buon giorno di passaggio.
Ma lei se lo metteva via, ogni saluto, anche il cenno della testa un po’ affrettato, ché poi li ripassava sul divano e diventavano il senso delle ore, nei giorni così lenti da passare.

Col caldo, la scusa si faceva buona: la porta sbiecata chiamava la corrente e teneva l’aria del mattino,sulle piastrelle  tirate con la cera. La casa prestava un poco di frescura per una sosta quasi di ristoro: vieni, diceva la Bina, con la promessa muta di acqua col limone e anche di una dalia, all’occorrenza.
Qualche donna si fermava volentieri, entrava nel corridoio fresco, stupita di quanto fosse tutto ben pulito eppure con l’odore della pelle vecchia, di un sudore che non si è più sfogato e resta freddo appena sotto traccia.

La porta scostata anche d’autunno cominciò a dare da pensare: la Bina era lì già dalla mattina, a inseguire con gli occhi facce nuove, a invitare almeno a una parola, a salutare senza riconoscere nessuno.

Quando la notte la videro nell’angolo, col grembiule leggero di cucina, sghemba e spersa come mai, la presero a braccetto: pochi passi, fino alla sua casa.
Non volle entrare: troppa gente, dentro, bambini e cavalli, voci e grida.

Troppo pieno quel vuoto. Troppo pieno.

Non c’era più posto per nessuno.

La Palmira

15 giovedì Gen 2009

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 64 commenti

S’era  sentita un colpo dentro.
Quando il cuore frana e poi pare poggiare sulla gomma.
Su e giù, a stringersi e a slargarsi come gli storni in volo.

Il podere verso la Contotta non ha più mezzadro, aveva detto il figlio grande. Se sposo, lo mando avanti io.
Certo che sposava.
Per esserci, la moglie c’era. Pronta già da un pezzo: bastava solo dire il giorno, anche a un’ora bassa, e la ragazza ci veniva sì, in chiesa, e senza tante storie.

La Palmira fece segno di niente e continuò a rompere le cime dei cornetti, come se il mondo, tutto il mondo, stesse nel cavo della gonna, fra le sue ginocchia.
Due colpi netti.
E nell’aria galleggiava quel rumore verde e secco. Senza cambiare nulla.

Il figlio così se ne era andato, nei giorni giusti del San Martino.
Anche l’altro,  un anno dopo, a tenere la stalla delle Stoffe.

A fare i figli tardi, non li si vorrebbe più lasciare andare.

Uguale, la Palmira muoveva i materassi a settimana, nella stanza vuota dei ragazzi, perché la piuma non diventasse trista.
E le veniva da cercare i pantaloni da ripiegare bene e le giacche da riporre nell’armadio.
(Le tasche rovesciate e scosse, per togliere il tabacco, ché sennò le cuciture.)
Come, tanti anni prima, aveva imparato con la sua bambina: la stanza sempre rassettata, anche se non c’era più. Il pettine in linea con lo specchio, i mobili tirati con il panno, le lenzuola rinfrescate a primavera.
Perché le cose tengono.
E li mostrano, i segni della cura.
Restano lì, se non le cacci via.
A fare una quieta compagnia.

Eppure, in certe giornate dell’inverno lungo, la Palmira non sapeva darsi una ragione.
L’ombra, che arrivava nel cortile, entrava per la serratura e le passava diritta dentro il petto: allora la voce del fuoco si abbassava, gli odori restavano aldilà del muro.

Che ne sapeva il vecchio… Il vecchio se ne stava fuori: le carte, il vino, i conti sul libretto.
Ma lei.
Ogni gesto perdeva la misura. Il mangiare cucinato a mezzogiorno serviva anche la sera e il tempo aveva poca susta, fatto di lana da una maglia sfatta.

Allora lo chiese a suo marito, che l’ascoltò, incerto fra il ridere e lo sbattere la porta.
Voleva un torre. Una torre, come quella dei piccioni.
Una stanza piccolina sopra il tetto o un comignolo grande.
Che ci stesse una sedia.
Per guardare la sera le case dei suoi figli, da lontano: là dove c’era il lampione dell’incrocio, là dove il caseificio non spegneva il faro, là dove il buio sembrava un po’ più chiaro.

La bambina dello zucchero

21 domenica Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini, storie di seconda mano

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La bambina non sapeva dove stare.
Sarebbe  salita volentieri per  quelle scale di  marmo così bianco  e ci sarebbe scesa, facendosele tutte col didietro, gradino per gradino: sentire il freddo liscio sulle gambe e passare  la mano sui ferri  di  ringhiera.
Ma  la casa  era grande  e  non la conosceva.
E poi  l’Armida s’era raccomandata tanto. Ferma,  doveva  stare  ferma. E zitta. E non chiedere niente: sua mamma sposava, finalmente.

Erano arrivate la mattina presto, sul furgone di Bindo, loro due: i fagotti della dote,  con la mezza dozzina di lenzuola, il  paletò di nozze per la sposa e la sottana nuova, sua, col bordo di passamaneria, due giri tutt’intorno.
L’Armida era restata a casa, forse per via del suo grembiule vecchio, pensava  la bambina.

Alla bambina pareva cosa bella, questa del matrimonio.
Starete in una casa vera, anche col bagno, le diceva l’Armida, che aveva un suo modo quieto di  prenderle i capelli e di tirarli in treccia, assieme alle parole. E vedrai tutti i giorni tuo papà.
Ché, lei, suo papà, lo vedeva  solo la sera della festa, quando veniva lì, ai Torelli, a  parlare fitto con sua mamma, nella stanza chiusa. Per lei, c’era e non c’era: la prendeva in braccio qualche  volta, e la guardava in faccia, come nello specchio. La metteva giù e se ne andava via: sua mamma restava col nervoso e l’Armida piangeva.
Finiva a stare male, il giorno della festa.
La vecchia a dire disgraziata come me.
La giovane a lavare i piatti e  a sbatterli sul piano di graniglia, velenosa. A parlare col muro di una figlia senza nome e adesso...
Alla bambina veniva voglia di sapere chi era mai  quell’altra figlia senza nome, ché, lei, il suo, ce l’aveva eccome, con la luce dentro e forse anche le lucciole, e sapeva già scriverlo per terra, con il bastone di robinia dolce. Taceva, però, e ballava intorno alla tavola, in quella casa di donne e basta. Perché questo era da fare.

Poi una volta era arrivato ai Torelli suo papà e non era festa.
E’ morto, disse, ‘st’inverno ci si sposa, prima che nasca l’altro.

Quel giorno. Tutto pareva di silenzio lustro, nella  casa dov’erano arrivate: le porte con  la   cornice  intorno, gli specchi e le finestre  alte.
La bambina non sapeva dove stare.
Sua mamma di là, a puntarsi la veletta, il cappotto  poggiato sul divano: neanche una parola.
Suo papà nel bagno lì vicino, a infilare  la camicia bianca, e la vecchia mai vista, con la giacca in mano.
La  bambina scostò la porta del servizio e provò un sorriso, piccolino.
Va’ a prendere lo zucchero, di sopra, dentro l’armadio delle scale.  Per il caffè dei testimoni… disse la voce nuova.
La bambina salì le scale più presto che poteva: c’era da farsi voler bene.
Lo zucchero stava nel vaso grosso: meglio prenderlo con tutte e due le mani, a costo di far senza  ringhiera.

Le scale di marmo così bianco diventano burro,  all’improvviso, o  lacci traditori.
Lo zucchero per terra brillava in mezzo ai vetri.
Un luccichio a punte.
Alla bambina  tornò, come un sapore agro, la storia bella dell’Armida.
La contava di sera, quando il sonno tardava e il vapore fermava sul muro la forma dei mattoni.
Storia di principessa e granellini, il dono delle fate. Da non sciupare mai, da tenere più cari  della vita: gli azzurri per l’acqua, i gialli per il sole, i bianchi per il bene. I bianchi per il bene.

Si mise a piangere, forte, col singhiozzo.
Lacrime di zucchero e di malinconia, di granellini scappati per le scale. Bianchi.
Tutti pensarono si fosse fatta male.

Armando e Nerone

08 lunedì Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Bastava  un’imposta da  fermare o uno sfiato d’aria da  implorare al sonno, per aprire una finestra e vederli  camminare: Armando e Nerone, presi in eterni conversari e impennate di pause  teatrali.
In quello scuro che si lascia attraversare da brevi fenditure d’arancione: la brace di una sigaretta, un fiammifero di luce repentina…

Cosa avessero da andare e riandare, parlando tutta notte, restò uno dei misteri della Bassa.
Su e giù per i sentieri a pettine dell’argine, fino alla golena.
Su e giù  per  la via grande e per la piazza, per poi finire al cospetto dei Due Mori, quando pure gli ultimi nottambuli chiudevano giornata: le biciclette  incerte, nel pensiero del vino di domani.

Allora  le voci dei due  amici picchiavano nel buio, come le campane.

A ben sentire, la voce era una sola, tale quale il tocco che diceva l’ora.
Alta e massiccia,  sempre sopra il palco, a cercare la  luce del  lampione  e  il sìsì  di Nerone,  pubblico e applauso.

Anche una biscia sarebbe uscita rotta a costeggiare il lungo discorso dell’Armando, che prendeva nell’ansa del suo giro ogni muro, ogni siepe a marca di cortile, ogni biolca di terra del paese.
Qui c’è bisogno di una strada vera, diceva al  suo  compagno, una strada che si faccia corta e larga, per arrivare svelta. C’è da tagliare  giù per  la campagna, stringere la corte, quella a squadra, e poi andare dritti, oltre il loghino…
Le  braccia si aprivano nel gesto per spiegare meglio il suo  pensiero.
E  le mani disegnavano le mappe,  carte notturne di transiti nuovi, per passi di sogno e di leone.

C’è che le idee nascevano al mattino, nel caseificio o nella porcilaia,  ma solo la  notte  si scioglievano in parole,  che l’Armando allargava, tirava per la giacca e  portava  dove voleva lui.
In città, soprattutto.
Perché  quella era la meta della strada: la città coricata di  pianura, morbida  e  lenta. Coi  negozi di pantaloni bianchi e panama con la  tesa larga, i tavolini messi sulla piazza, col vermouth fermo nei  bicchieri: discorsi e quiete chiacchierate sotto i portici con la  pietra vecchia, fra i mediatori di tutta la  provincia.

Ma ogni  città   sarebbe andata  bene, coi  suoi odori di macchina  e petrolio…
La città era fedele morgana di ogni giorno, il senso del pane e del lavoro.
Di notte sembrava più vicina: come un amore, da cercare e vivere dal nome.

Le donne coi nomi di città son sempre le più belle, e le censiva, con l’aiuto di Nerone, sotto il fico fiorone dell’Ernesto: la Roma, l’Ancona, la Ginevra, la Parisina…

Forse pensando alla sua Zara, chiara come una piazza sotto il sole, l’Armando salutava il suo compagno con un  A n’in parlarem, che galleggiava in aria, promessa di altro tempo, parlato e vagabondo: inarcatura lasciata alle parole.
Un po’ come la  frutta raccolta verso sera, acconto e speranza della conserva buona.
Quella di un giorno che ha proprio da venire, fedele a questo pegno.

La chiesa

01 lunedì Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 37 commenti

La chiesa venne su rossa fiammante, coi mattoni cotti  al fuoco, sotto il sole.
Dava le spalle alla fornace e ne pareva la continuazione: una vampa che si era fatta soda, una lingua di pietra tenuta dalla siepe. Con i trafori, ché i vuoti fanno luce.

Avevano tanto lavorato, i braccianti e anche i possidenti.
A fare malta e pietre, giù d’orario.
A tirar su i muri e a mettere di piatto il pavimento.
(I  disegni del mastro sotto il naso e i vecchi sotto l’ombra, a contare i giri di carriola.)
Nei giorni della stanca, quando la terra diventa tutta secca.
La canapa già a pìroli e mannelli.
Il granturco fermo a maturare.
E tempo avanti, ancora, per arare.

Tutto per portare dio anche lì: in un pezzo di terra di nessuno, in litigio pure col suo nome, un nome di maledizione. In mezzo ai fossi e alle piantate, alle biolche di medica e di grano.
E’ che si era stanchi di una chiesa a prestito, per sposare, nascere e morire.
Meglio sotto gli occhi del santo di borgata: la croce di ciliegio dell’Ulisse e le dalie dell’orto sull’altare, alto come il calvario o come il sacrificio. Con la sua bella tovaglia ricamata.

Si sperava fosse un matrimonio ad aprire le porte della chiesa.
O un battesimo, con l’acqua nella conca nuova.
Invece.
Morì il vecchio Berto, che si fece controvoglia la navata intiera, nel saluto di un prete grande e grosso, dal passo contadino e l’orapronobis mangiato troppo in fretta.

La cosa sembrò di segno strano: un inizio partito dalla fine e con quel vento che veniva dal cortile, alitate di fornace a pizzicare  il naso, ad aggricciare gli occhi.

Sul piazzale il lavoro continuava. Non bastava morire per fermarlo.
Così il caldo soffiato nella volta, fra i mattoni crudi ad asciugare, usciva dal camino, sbatteva contro il cielo basso e poi tornava giù, a fare da condanna, a diventare  fumo fra la gente, nella chiesa.

Il fazzoletto stretto sulla faccia, la Palmira se ne stava immagonata, con l’anima che voleva uscire dalla bocca, insieme  coi singhiozzi tamponati.
No no,  si sarebbe pensata no che fosse proprio Berto suomarito  a passare per primo fra quei banchi, lui che, la messa, neanche la sapeva e metteva lo straccio rosso attorno al collo, il giorno del comizio.
Ma che male farà, una benedizione, si consolava per questo tradimento.
Levò gli occhi verso il parroco per trovare  conforto: due dita in aria, don Enzo andava a benedire, eppure  aveva una smorfia sulle labbra.
Non era una smorfia: era una risata.
Rideva, il prete. Lo sguardo un po’ smarrito.
E rideva l’Ulisse. Rideva la Celesta.  Rideva anche l’Argia: tutta la borgata rideva sottovoce, in chiesa, durante  il funerale.

La  Palmira si liberò la bocca e tirò su, forte, con il naso.
Allora capì, perché tornò bambina, quando sua mamma le faceva il grattino sotto i piedi, il  solletico sulla carne viva, e il riso le saliva per la gola  ed era  come i grilli, una colonia di grilli che nessuno sapeva più fermare.
Rise anche lei, che altro mai poteva. Come se a ridere fosse la sua pelle.

Quel riso a pioggia e a serpentina: scherzi  del canuin, degli scarti  di canapa  bruciati  alla  fornace  e  soffiati contro  il  cielo  dal camino.

Scosse la testa più leggera, la  Palmira, e pensò che questo fosse un bene, la bonaria vendetta del suo uomo.

Pranfiiin

01 martedì Gen 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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La chiesa se lo guardava come un figlio piccolo, il chiosco di legno e finestrina, messo lì, sull’orlo del sagrato. A vegliare sull’ingresso bello, matrimoni e funerali, ché l’altro era per intrusioni mattiniere, alla messa dell’alba, o per qualche preghiera d’emergenza.
Così, nell’edicola l’incenso era di casa.
Ne restavano impregnati giornali e giornalini.
Quelli un po’ impudichi (soltanto un po’, sia chiaro) non reggevano a tale vicinanza: si lavoravano una nicchia sotterranea, per calarsi a piani bassi e oscuri. Vi restavano nascosti.
A riveder le stelle tornavano soltanto se l’ammicco brufoloso di un tardo adolescente implorava.
Allora la vecchia con sciallino, atermica regina del chioschetto, cedeva, ma con riprovazione.
Son meglio le castagne – diceva e se le girava con mani brustolite sul braciere: la Lollo in costume infilata a testa in giù, dentro ad un sacchetto.

Ma se era estate, la lusinga c’era e aveva effetto.
Si chiamava granita.
Quattro gusti: Amarena, Tamarindo, Orzata, Menta.
Poi uno misterioso, offerto con promessa di bontà assoluta.
Il gusto Pranfiiin.
Di colore incerto, variabile in un giro di giornata, attirava col segreto e con il nome.
Come resistere al richiamo che dice l’effetto, mica la sostanza, con quelle iii protese come spade, puntute e dolci sopra i dubbi?
La granita Pranfiiiin non deludeva mai, col suo sapore migrante e vagabondo.

Con senso campagnolo del risparmio, la vecchia usava un’alchimia.
Sotto il banco, dentro a una boccetta, aggiungeva a strisce e a strati le gocce di sciroppo rimasuglio, i fondi di bottiglia. E scuoteva, il giusto.
Così la felicità bianca dell’orzata si spegneva un po’ nel tamarindo, ma si alleava col rosso d’amarena. La menta a fare il resto, con il suo acuto, tutto di frescura.

A dire che, spesso, si vive di gioie di risulta.
E della mescolanza che sanno regalare.

Un anno pranfiiin, amici.
z.

La vecchia delle peonie

01 sabato Dic 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Che i bambini ne avessero paura era già scritto nelle mani.
Conciate di rughe, come certe grife d’aia e di pollaio.
O, forse, più parevano zampe di tordo. Di picchio.
Per quegli unghioli spessi.
E per la sella che slargava l’indice dal pollice, nella presa propria degli uccelli: ritornava anello solo per stringere il collo dei sacchetti, al ferro della bicicletta.
Quasi un possesso antico.
Quasi la vita fosse tutta lì.

Era la vecchia dell’orto lungo.
Uscita dalla crosta di un albero, con la faccia di radice.
I vestiti a strati, su chissà quale magrezza.

Era una vecchia di terra  e di robinia.
Suora ricca e barbona, in quell’orto preso in petto come un figlio, nutrito e dissetato ogni giorno.
Uno scarnarsi in fatica di zappa, in acqua portata con i secchi.
Barcollando sulla bicicletta, con le sporte che impedivano il pedale, in traccia di un butto da rubare, nel tempo quieto della mattina presto.
Vergogna dei nipoti che allargavano le braccia, senza fare, senza dire.
E tutto per i fiori.
Per avere l’orto colmo di gigli e ortensie bianche, bordate dai cuori della hosta. E rosso di sassifraghe in primavera, che son tappeti di spade.
Uno spago di terra: usciva dalla casa vuota e andava giù, fino a ficcarsi in chiesa, in un rigoglio che il muro a stento conteneva, correndo a drittofilo parallelo.
In cima, il caprifoglio rompeva clausure ed anche il gelsomino debordava dal colmo della cinta, con la forza o il luccicore di foglie brillantine.

Che i bambini ne avessero paura era già scritto nei bisbigli.
Nelle voci alle spalle, che facevano scappare dentro casa e portavano disgusto: un odore di limaccia ferma al sole e di acqua inchiodata dentro l’ombra.

C’è che alla terra non basta  la fatica.
Succhia  vita e sudore, prima di pagare con gladioli e dalie.
Sangue, forse.
Così c’era chi diceva di gattini finiti nella sporta, quelli stenchi, figliati a santa rosa d’agosto, che nessuno si sarebbe messo in casa.

Quando il portone di legno s’apriva (giusto il tempo d’un ingresso in bicicletta), chi passava rubava un  lampo di colore forte, ma, nel rosa ciclamino di peonia, carnoso di  mollezza stanca, credeva di vedere altro.
E non reggeva quella bellezza dolorosa.

Spagna

25 domenica Nov 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

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Qui da noi c’è un sogno senza età, che ormai cammina assieme alla persona.
Si fanno buona compagnia.

E’ un innocente sogno un po’ spagnolo, di affabile signora d’altri tempi.
Suggerito dal nome, che taglia l’aria, in fondo, con coda sibilante.
Annunciato dal rosso delle labbra, dal guizzo dell’occhio ben segnato.
Poi coltivato, come un vizio fino, nei capelli. Blu-corvini, incuranti del cenno bianco e contrariato delle tempie.

Ora il sogno si è accampato.
Ha preso casa fissa e se la sta arredando. In forma di vestito. Con le balze. A strati fitti fitti e colorato.

L’ho visto affiorare stamattina, rosso, dall’orlo di un cappotto, mentre pioveva grigio.
Un sogno sorridente con l’ombrello.

A ridare una speranza à pois.

Donne

19 mercoledì Set 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Lo aveva rubato lunedì.
Perché il lunedì era il giorno giusto.
Specie la mattina.
Quando il fattore andava per Ostiglia, a portare la vecchia dal dottore.
La vecchia Desolina: coi dolori e i lamenti nella voce. E dentro il nome.
Col millecento nero, lustro. Olio di gomito dell’Ilda e quanto mal di vita nelle ore piane della festa.
Purché non ci fosse da ridire.
Purché.

C’è che la signurina aveva un carattere brusco, d’uva spina.
Sempre a chiamare, sempre a comandare, a dir che no, le cose si facevano altrimenti.
All’ordine teneva: un obbligo in veste d’accoglienza.
Quasi dio venisse tutti i giorni a farsi un vermouthino lì, vicino al letto.
Che mai la trovasse con la camicia storta.
Che mai, sulla scala di legno, inciampasse in un gatto di polvere a piumino.

La Ilda se la scarnava col sapone, quella scala bionda, e con la spazzola: a secchiate di acqua calda.
La vecchia non se ne stava quieta finché non sentiva la terza rovesciata.
Dal letto sapeva la schiuma che grondava e lasciava, a  gocce bislunghe, lo scalone.
‘Ssuga ben, ché l’acqua ha fame di tutto e il legno se lo mangia’
Così restava nell’aria un ché di ben pulito, d’assi da bucato, ad annodare il sopra al sotto.

Il letto freddo della Desolina era cassa e timone, registro di anatre e pulcini, di sacchi di farina del mulino.
Era piazza di liti con il prete che smangiava i confini a fil di vanga.
Tavola, salotto e scrivania.
Mica  camminava più, la signurina: vecchia com’era, c’era troppo rischio a pencolare su quelle gambe secche, che eran sempre state debolezza. La malattia.
Restava a letto.
Il fattore se la prendeva in braccio, il giorno del dottore, con muta pazienza allevata nella stalla: quattr’ossa di bambina e aceto, e uno sciame di moschini, pieno di acrimonia.
‘Oh ma fa’ ben piano. Se vuoi che muoia, molla pur le braccia, ché forse c’è meno da patire’.

La Ilda lo rubò col cuore gonfio, lei che neanche un uovo, neanche un bruscolino in tanti anni di servizio s’era messa in tasca.
Invece, sparita la macchina alla curva, spalancò l’armadio, un armadio tutto di ciliegio, grande che pareva quello della chiesa.
L’aveva voluto in bella vista, la Desolina, proprio di faccia al letto.
Dozzine di lenzuola da telaio, spettacolo di mani e di pazienza, che la vecchia guardava e riguardava, contava e ricontava, nei pomeriggi brevi dell’inverno, con la sera piantata alla finestra.

La Ilda aveva il piciacor, che è peggio di una spina sotto l’unghia: tutto il sangue chiamato dentro il collo a tamponare il fiato.
In piedi sulla sedia, col nervo delle gambe in tiradora, a smontare la pila dei lenzuoli in alto.
Se ci trovo un grillo lascio tutto, si diceva per cercare un segno che sapesse muovere il destino.
Se ci trovo almeno una mangiata…
Se mi viene un crampo nella gamba…

Ne rubò uno, di lenzuoli. Uguale a tutti gli altri.
E ne tagliò un secondo: una beccata di forbice alla tela e, con le mani, uno sbrego diritto e fenditore, che spaccava mondi e silenzi. Per farne due, di lenzuoli, coi giornali dentro, a camuffare la stoffa che non c’era. E a far tornare il conto.
Poi, in fretta, rimise tutto a posto.
Col tremore stavolta nelle mani, rosse che pareva di vergogna.
E il magone per la figlia sposa, di lì a una settimana, con l’armadio che piangeva dote e neanche contava fino a sei.

‘Ilda’, chiamò la signurina, per fare intendere che era già tornata.
Il fattore la mise sul suo letto, il lenzuolo con la piega aperta, i cuscini dritti, come piaceva a lei.
‘Non si muore per questa settimana. La chiesa è per tua figlia. Va’, prendi un lenzuolo, che se lo goda lei. No, no adesso, quando non ci sono. Così rimane in ordine.’

La Ilda disse un grazie, con la voce molle.
Nella testa un senso di cicala, a fare confusione.

Carta da zucchero

16 giovedì Ago 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 43 commenti

Cosa c’era da stupirsi, in fondo, se, sulla carta stradale, il paese non c’era più.
Se la scala è alta, si scivola fuori. Se si è piccoli, poi…
Spariti, si era spariti. Ma già da trent’anni.
Erano partiti in tanti: saluti da Varese, baci da Biella e un calar giù di magnapui a ferragosto, per tener leggeri i pollai e castigare le ragazze.
Il paese strizzato contro la provinciale.
La golena vuota.
Le corti come zattere fra la plastica delle serre.

C’è che al bar si parla perché si ha la lingua in bocca.
Fa rumore anche un passero.

Avesse dovuto scriverla lui, la mappa di quella fetta di pianura, l’avrebbe fatto su un foglio di carta da zucchero, di grana grossa, che tiene il vento meglio del giornale.
Da giovane se la metteva sullo stomaco, la carta da zucchero, sotto la maglia, quando partiva assieme al freddo: motocarro Guzzi, grigio e carcassone, le sponde ad ali.
Piegata due volte: unta e bucata, passata col ferro da stiro, così serviva anche per la tosse.
Nell’andare, si crepava un po’ e sbiadiva, se l’aria era dura. Diceva se si era corso il  tanto o il poco.
Le donne lo aspettavano anche d’inverno ché, ai mercati, chi mai ci andava, in quei loghini di riviera, con la barchessa a squadra e le bestie in bocca, attaccate a casa.
E allora il Guzzi cercava le calate nella nebbia, giù dall’argine, con le scatole delle calze che ballavano dietro.
Arrivava nell’aia, lui, il Bindo, con un colpo di clakson: calze ed elastici, limoni e naftalina.
E cartine di uncinelli, maschio e femmina, a penzoloni dalle sponde.
Con l’odore della fumana attraversata di corsa.
Di corsa per modo di dire.
Andare forte non si poteva, con le curve della Bonifica e l’ansa piantata nel fianco dell’argine, davanti all’isola.
Come una mangiata di topo.
E la merce che sbatteva.
E poi coi sassi e con le buche:  ancora lì, dai tempi dell’argine incestato con le frasche e le reti di ferro, per tenerlo stretto.
Veh, tenerlo stretto.
Ma te lo dà lui, il Po.
Il Po fa quel che gli pare e gli vien da ridere, di notte, quando arriva con la piena. A questa gugliata di paesi, a debito: almeno un metro sotto.
Te lo dà lui, il Po.
Un bel fontanazzo a sorpresa, lì sotto la chiesa, per ridere in faccia anche a dio.
Schizzato per bene, a dire chi comanda.

Ah, la mappa. Certo: sulla carta da zucchero.
Quella sarebbe andata bene per scrivere i paesi che non ci sono più.
Su quel turchino grigio, come è il Po verso sera, certe giornate di grazia, che l’afa gli lascia i suoi colori.
Avesse dovuto scriverla lui, col gesso della galaverna l’avrebbe fatto, o con la cenere: per raccontare il freddo.
E con la farina gialla per fermare il caldo.
Perché le mappe hanno da dir qualcosa, ma non coi nomi. Cosa si fa coi nomi, che non dicono mai la verità. Spariscono e tu ci sei.
Servono dei segni.
Avrebbe tirato un bel segno bianco per disegnare la strada di terra e di brina.
E un bel segno più scuro per la strada di acqua.
Due righe storte e compagne.
E un quadrato avrebbe messo, in mezzo, fatto col carbone, per il paese  rimasto solo, fra le strade.
Già.
Paese di gente matta, scura dentro.
Scappato anche il prete.
Rimasta la chiesa in abbandono, con gli occhi spalancati e due dita di polvere e  di foglie, in mezzo al granoturco.
Con le mani sante, graziate, appese alle pareti.
E un piede d’argento, attaccato alla catena.
E un occhio.
Coi bambini a entrare di nascosto,  per sentire la paura.

Bel paese, però: col suo boscone di pioppi e zucche riccioline, a fare da sudario, verde, ai tronchi.
E tante calate, da graffiare con l’unghia sulla carta da zucchero.
A facile scomparsa, dentro il buio.
Tranne la più diritta, al cuore del quadrato.
Calata larga.
Il Bindo lo sapeva.
Fatta tante volte.
Per la corte dei milanesi.
Gran corte. La più grande.
Da scriver con un cerchio, nel cuore del quadrato.

Bisognava chiamare, per entrare: un palo a chiudere la strada.
Quel giorno no.
Eran tutti dietro il frumentone, ché mettevano grandine e c’era da far presto, con quel caldo poggiato sulle spighe, a cielo basso.
Quel caldo.
Aveva detto anche “con permesso”, nello spingere la porta, per lasciare gli elastici sul tavolo.
Dentro la cucina.
Ma c’era la ragazza con il busto nudo e la pelle azzurra, che si lavava con il mestolino, in piedi,  dentro la mastella.
E l’acqua era fresca sì, lungo la schiena.
Era fresca tutta, lì, quella cucina.
Azzurra d’acqua e di pelle e d’ombra.

Non lo sapeva che era stato il primo.

Bisognava farlo rosso, quel cerchio sulla carta.
Rosso.
E vederlo diventar color di violacciocca, al tempo.

Il tempo delle formiche sulla tavola

23 lunedì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

≈ 17 commenti

Qui da noi c’è stato un momento che le cose andavano male.
Era arrivata la mietiliga, che si mangiava, dicevano i braccianti, il lavoro di tutti, coi suoi dentini di ferro.
La buttarono nel canale, e restò piantata col muso in giù e il resto in su, impudica come le galline d’acqua.
Fu riparata e rimessa fra le spighe.
I braccianti, allora, seminarono ferro e vetro fra le canne verdi, perché la mietiliga provasse a mangiarsi pure quelli.
Ma la macchina andava, andava, con la canzone del motore che sembrava uno sgarbo.
Ci fu lo sciopero e finì il pane.
Le formiche non trovarono più briciole per terra e le cercarono al sommo della tavola vuota.
Bisognò andare con le donne sul camion alla stazione in città, perché i crumiri arrivavano e le fedi d’oro erano già andate sulla bilancia per essere vendute.
Dal treno, facce grigie di fame e di paura a guardare altre facce grigie di fame e di paura.
La miseria si riconosce a fiato.

L’uomo scese dal treno, col bambino per mano.
Andò dal capolega con la voce grossa e le braccia d’olmo.
Parlarono un poco.
I crumiri non vennero in campagna.
Quella volta lì.
I braccianti tornarono e il bambino con loro, nella casa che dava sul canale, a contare le formiche sulla tavola, con le figlie del capolega, a raccogliere il radicchio selvatico e a cercare le uova fuori dai pollai.

Restò un anno e non parlò mai.
Giocava, si sporcava, mangiava, picchiava le bambine e sorrideva quieto.
“Se si picchiano e si sporcano vuol dire che stan bene”, diceva il capolega alla moglie, che scuoteva la testa.

Ancora oggi si parla del tempo delle formiche sulla tavola, nella casa che dà sul canale, e si pensa al bambino, scuro di pelle e di ricci, chiaro di sorriso, che non regalò mai la sua voce.

La Ginia

18 venerdì Mag 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 57 commenti

Il chierichetto imbambolato sbadigliava, coi ricordi della notte secchi ai bordi della bocca.
E il prete andava così in fretta che fece la croce benedetta con un dito, nello spazio stitico di un amen.
Si era sposata alle sei del mattino, col vento a rendere certi i contorni e stupite le cose.
Si era sposata con le gambe nude sulle scarpe.
E col vestito a fiori di sua madre.
Di rasatello crema, le rose rosse che parevano dipinte: stretto in vita, la sottana ampia e il collo largo che girava torno torno. Tre bottoni d’osso a non nascondere il petto.
Ci aveva fatto la richiesta, sua madre, e non era stata fortunata, ché, il suo uomo, tanto suo non era e se l’era ripreso la suola delle scarpe, che sa  portare lontano, quando non si ha giudizio.

Solo quel vestito e neanche un parente della sua vecchia casa: voleva così la Ginia.
Arrivò alla chiesa che sapeva di gerani, contro l’argine: l’erba sulle porte.
In mezzo al granoturco.

Sul carretto del Doru: l’aveva aspettata sulla strada bianca dei Torelli, ché non ne avesse da far troppa a piedi. Poi lì, insieme, senza una parola.
Cosa c’era poi da dire.
Di cose se n’eran dette tante.

Al prete, che raccontava in piazza degli sposi muti e della chiesa vuota, si rispondeva con la stessa storia.
Cosa ci si poteva mai aspettare da una sfacciata che ne teneva in ballo tanti e sbatteva il suo bel no sul muso del padrone (come un cancello di ferro arrugginito), perché voleva il figlio, dio se lo voleva il figlio.
Come una matta. Come una stria. Come una gatta in estro.
Lo sapevan tutti: disposta ad andare nel frumento, a farsi trovare di sera in camporella, sulla spiaggia di Po che va nel bosco come una lingua, fra le zucche selvatiche e gli alberi che sembrano crocefissi.
La testa se l’era persa sì.
E lo sapevan tutti che il figlio del padrone la usava per dispetto al padre. E a casa si sarebbe portato l’altra, con le sue belle dozzine di lenzuola ricamate col gigliuccio, mica la Ginia con i piedi scalzi, piegata sotto il sole a trapiantare.

E adesso… all’improvviso, lì, a sposarsi col pastore che poteva esserle padre. Quello della Ca’ triste, alla svolta larga del fiume. Uno che tre mesi stava e tre mesi andava. In piazza mai. Come se i pioppi fossero meglio dei cristiani.

C’è che l’aveva vista piangere in boschina, come succede nelle fiabe agre.
Gridare persino con le unghie e picchiarsi la pancia con i pugni.
E le aveva dato uno straccio pulito. Con le pecore zitte lungo il braccio morto di fiume.

Ci sono gesti che parlano da soli.
Han strascicato dentro il senso di un mestiere e il pieno di un sentire. Anche uno straccio può essere carezza.

Si sposarono in tre e senza pentimento.

La Nina

25 domenica Mar 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 53 commenti

Aveva cominciato con un barattolo di cannellini, bianchi.
Verso febbraio.
(Sono già contorno, con un po’ di cipolla trita e un niente di prezzemolo. Una goccia d’aceto. Meglio averne in casa, di fagioli, ché, tanto, cosa fa un barattolo in più nella dispensa?)
Poi, erano arrivati i tegolini.
Di carciofi un vaso solo.
E gli asparagi, che parevano patiti, di colorito chiaro. Nei barattoli con la carta incollata.
Erano arrivati i fogli sui ripiani, perché i tesori vogliono accoglienza.
Una carta fiorita di giaggioli: un quadro a fare da tappeto a fondi di olive in salamoia, a piselli di provata tenerezza e a quel tonno rosa, un fiore di mare sotto l’olio.

S’impilavano giusti, a meraviglia, barattoli e lattine.
Se li guardava, la Nina, con occhio adoratore.
Così bella la dispensa, con le assi in scala e la finestra piccolina: non per la luce, ma per l’occhiata sul giardino di cemento, un’occhiata sola, fra la rete fitta.
Qui non è casa e non è cortile, pensava.
Nel cortile c’era da rispondere: allora come va la schiena? paura, la sera? e lui, avrà ben telefonato?
In casa, tanto posto vuoto. Il divano sfondato da una parte.
C’era da tirar via lo sguardo dalle ciabatte sotto il comodino, dall’altra parte del letto.

La dispensa era un’altra cosa, con la porta là in fondo al corridoio: bianca con la maniglia ottone.

Stare lì dentro, questo le piaceva.

Stare lì dentro e poi guardare i fiori, fuori: col primo caldo s’erano aperti i gerani doppi, a edera (all’ombra stanno così bene, tutte le foglie lustre). Di un rosso vicino al ciclamino, un piattino scheggiato per di sotto. E c’era la latta grande, di tonno del mercato, piena di terra grassa e di miserie pendule. Cose da cartoline, lo sapeva.

Stare lì dentro e poi contare le sue scorte: le bottiglie di olio, le zucchine sposate alle carote, ben tagliate, anche se l’artrite…E pensare che all’estate mancava così poco. Ah cos’era mai l’estate, con tutte le verdure in giardiniera. Scottare l’aceto, giusto una salata, poi buttare cavolfiore e peperoni, sedano e cornetti. Ci voleva niente. Ci sarebbero stati i vetri opachi di bollore (la salsa fatta in casa, con quel caldo).

Si poteva far bella figura.
Si doveva far bella figura.
Il figlio aveva detto ‘sì, st’estate vengo, ché sei lì da sola’.
Bisognava ben dargli da mangiare.
Che non mancasse niente a quel figlio fatto tardi e partito così presto. Quasi per dispetto.
Il vecchio non l’aveva perdonato. C’era da andare proprio là, a Milano? In una fabbrica a respirar vernice?
Ed era morto ancora impermalito: mai al telefono a sentire la sua voce, neanche al matrimonio in municipio, nella Milano fredda dell’Alzaia. (Ma si può? A casa neppure per sposarsi? Allora, non venga nemmeno al funerale).
La Nina muta in mezzo a tanto gelo.

Ma adesso, adesso bisognava preparare. La stanza del mezzo letto come prima, le cose pronte, a posto sulle assi, in quel bell’ordine pulito.

L’estate durò poco. Mangiata dalla febbre del bambino. Le ferie d’agosto andate su, per il camino.
Magari per Natale.

Pasta. Ora serviva della pasta. Quell’inverno, alla Nina tornò il piacere del mercato: scegliere tele sottili per farne dei sacchetti. Un colpo con la Singer, lungo i lati. Due cuciture due.
C’era più gusto a maneggiare grattini e pasta puglia. Mezze penne, conchiglie e quadrettini. Era quasi come cucinare: tagliare con le forbici i pacchetti, travasare i grani tutti uguali, sentirli con le mani cadere nella tela, come i giorni passati nell’attesa.
Nella tela la pasta un po’ respira, anche il riso si trova a casa sua.
Tanti sacchetti, in fila sulle assi, con il collo chiuso.

Il figlio ascoltò i suoi passi d’uomo fatto, lungo il corridoio. Piastrelle di graniglia, ancora un po’ incerate.
Guardò la tavola, nella cucina vuota. Il sole della Pasqua sapeva dir le cose.
Ci avevano pensato le vicine, a dargli una voce, così, proprio all’improvviso, in quel venerdì che era stato di passione.
Di corsa all’ospedale. Né presto né tardi. Nel momento.
Non c’era modo di venire prima.

Mancava l’ultima porta in fondo al corridoio.
L’aprì piano: fra pile di vasi e di sacchetti, una nuvola densa di farfalline grigie, ali pesanti, fredde e impolverate.
Un senso di ripugno, come ad entrare nel cuore di qualcuno.

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