• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: agosto 2018

Pensieri in fuga 14.

30 giovedì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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Stanotte, la civetta.
Stride (o piange) su un tetto. Sveglia paure bambine, di presagi e cieli neri.
Le paure che accompagnano i ricordi assomigliano alle paure bambine. Sono il terrore di perdere qualcosa, quando, invece, non si vorrebbe lasciar andare nulla, neppure le pieghe dei segni. O dei sogni.
Torno spesso ai ricordi: tocco porte (che si aprono piano) con la promessa di non disturbare e di richiudere per bene.
Non so mai chi troverò dietro la porta e non so chi perderò, portato via dal tempo.
La paura batte, trattiene sulla soglia, perchè rende così deboli, ma così deboli, il ricordo.
Più ricordo, più amo.
Si rinnova, ogni volta, così, il sogno del trattenere.
Illusione di un meraviglioso baratto: cedere tutti i verbi intransitivi, persino il restare e il durare, pur di trattenere.
Trattenere.
La paura è che quel secchio, che sa di poesia, scompaia, appena toccato.
In un attimo, in quell’attimo, la memoria diventa rimpianto. Magro bottino, quello del passato, se è sigillato dal rimpianto.

Il rimpianto sa di pianto. Fa troppo rumore.
Non devono far rumore i ricordi, devono scivolare, fuori dal secchio, fuori dalla porta, umidi pesci assonnati.
Non sopportano i rimbombi.
Che la scrittura, allora, li prenda, ma assottigli la voce, fino al bisbiglio.

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Cronache dal terrazzo 7.

24 venerdì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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Guardavo, sul terrazzo, la seconda fioritura della rosa che amo, qui.
E’ una vecchia rosa inglese, che ha perfezionato l’arte della grazia. Si curva con mollezza sempre stanca e lo fa con l’opulenza dell’eccesso, non per privazione.
Ha il colore delle pelli sottili e delicate, non pallide e malate di grigio, ma luminose nella trasparenza. Non è facile capire dove l’avorio sa diventare carne: certo è che giunge al bordo col rossore di un compito finito con passione.

Pensavo alla seconda fioritura.

Non ha lo stupore della prima, quell’incedere malcerto di modestia e di timore, che fa spiare il boccio con ansia materna.
(Si schiuderà, scioglierà domani il suo riserbo? )
Questa avanza rapida e impudìca: si apre al caldo, quasi sapesse di essere così breve, così breve.
(Non ci sarà un’altra fioritura, forse neppure la certezza di un ritorno)
Cerca il lato tenero della vita e deborda, ampia, a succhiare il suo sole.
Bella a scadenza, eppure quieta.
Bella ora, paga della sua seconda volta.

Assomiglia a certe età piene, la seconda fioritura.
Con la luce dentro.
A stornare malinconie, basta abitare il punto, a strati, in compagnia di tutte le età accarezzate.

Pensieri in fuga 13.

20 lunedì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in pensieri in fuga

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“Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro, che l’uomo sia nessuno senza memoria”, dice Gesualdo Bufalino.
Avere memoria per esserci, insomma. Per darsi contenuti che accostino o differenzino, che segnino distanze e vicinanze rispetto a fatti e idee. Per scrivere chi si è e chi non si sarà, né oggi né domani.

Anche per questo amo i verbi della memoria e credo occorra praticarli assiduamente, specie nei giorni offesi.
I verbi della memoria rimandano alla grande molecola degli atti necessari alla vita: ripensare, risentire, ricordare, rammentare, rivisitare, rivedere, rivivere…
Dicono gli atti della ‘seconda volta’, quelli che sollecitano ogni parte dell’intero, sensi corpo mente cuore, perché qualsiasi ritorno ‘all’indietro’ attraversa tutta la mappa dell’uomo.
Fra i tanti, amo il rimembrare, volto com’è a ricompattare in schema corporeo i frammenti sciolti, le schegge di ricordo in libera evaporazione, quelle che lascio in giro per la casa o tengo appese con fermagli di parole o di fotografie nomadi.
Mi piace pensare alla memoria come al luogo in cui nulla si perde, in cui la briciola non solo si riconosce ma può collocare la sua traccia in un disegno dai contorni materni.

Memoria melagrana. Da far rotolare in avanti, dentro il presente, perché dica la rotta, nutra vecchie speranze e sposti i birilli che impediscono di guardare oltre.

Per Genova

15 mercoledì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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A Genova ferita, il mio affetto, sul filo degli amici cari e, ora, del dolore.

Appoggio qui lo stralcio di un vecchio post per dire come l’ho vissuta, come la vivo nei ricordi e come spero di viverla ancora, questa città.

“Bella, Genova. Per me.
Piace per via del nome, anche: lì mi sento chiamare dappertutto, perché Genova suona Zena in dialetto, con quella zeta defilata, comune ai suoni della mia parlata. Più a casa di così, certo non si può.
Piace, ‘sta città, per il suo cuore a grinze di strade e di stradine, che si aprono e si stringono: quelle grandi hanno segni di ricchezze appena un po’ sgualcite e le piccole tengono le tracce di mestieri antichi, di tutti i mestieri, pure di quelli che richiedono l’attesa, il muro alle spalle per appoggio. La sigaretta accesa.
E piace, Genova, per la pelle rosa che prende verso sera, quando c’è il sole (se la liscia sul collo delle case alte, in faccia al mare). Mi piace persino per il brutto: la strada per aria che la sega, ma pure l’attorciglia con la vita, lavoro&fatica, la stessa che ritrovi giù, al porto, nella mezza luna dei portici (odore di ferro, di cani e di panissa).
Ma è la Genova delle storie che, ogni volta, io mi porto a casa.
E’ quella di Pino, che mi racconta del Paciugo e la Paciuga e della barca triste senza più ritorno, e dei bambini che si attaccano ai camion con un salto, per fare vendemmia del poco necessario: la frutta che rotola in sveltezza, a consolare la fame della guerra…
(Pino racconta con gli occhi e con le mani, con le parole del porto e della strada e con pause di belin a fare fitto: sa di navi e di tatami, di viaggi per mare e per materassina, forte di una cintura bianca e rossa…)
La sua è la Genova dell’orgoglio di chi ha fatto la guerra partigiana e pure ha nascosto qualcosa di “pesante” dietro muri bugiardi, perché non si sa mai. Non si sa mai. E adesso si prende cura dei ragazzi perché anche il tatami è una finestra di speranza.
La Genova di Paolo, invece, sta nell’indignazione rossa di chi ha tanta voglia di cambiare, ma intanto  mi mostra quella chiesa sparsa, tenuta insieme solo dalla colla del colore…”

La mia, adesso, è la Genova che piange, dignitosa.

(ai nostri amici)

Cronache dal terrazzo 6.

09 giovedì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in cronache dal terrazzo

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E’ una giornata calda, col riverbero negli occhi.
Il terrazzo si affloscia sotto il peso dell’afa: foglie rattrappite dell’ibisco e chiusura difensiva della spirea, che stringe i suoi rametti in un faccia a faccia consolatorio.
La bomba d’acqua di ieri è servita soltanto a rinfocolare il caldo e a rovesciare due vasi. Il risultato ora sta tutto nel melograno obliquo, che promette un incerto destino. Cadrà? Forse sì.
Di azzurro c’è ben poco, in giro. Lo spicchio di cielo fra muri non parla, si limita a versare una luce vischiosa, sulle cose di cartone. C’è intorno l’odore bruciaticcio della terra che si asciuga subito e chiede ancora.
Occorrerà aspettare la sera, per nuove iniezioni di vita.

Durante il giorno si cattura la voglia di buio e si pensa alla notte come al porto da cui far partire una vela, perché viaggi, fresca, e scivoli senza rumore sull’acqua che gronda dai vasi…

Foderette

07 martedì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Tutta colpa di quelle foderette.
Nate per cuscini gonfi, con piuma in esultanza: orlo a giorno fine di pazienza, rado come le chiese di pianura.
Tessuto di telaio molto bello, disse la cognata, e pure sostenuto: bisogna farci dentro un gran vestito.

La Iris con l’ago faceva meraviglie ed era nota per un taglio così esatto che la veste ti nasceva addosso senza neppure una pince di salvataggio. Le spalle, poi: diritte, anche senza imbottitura. Grande perizia di conti gestativi, calcoli col lapis sulla squadra, con l’occhio ai numeri in cartella. La sagoma di carta disegnata, nell’estro perfetto del momento.
Poi, la stoffa trafitta da gessi e da spillini, docile distesa sulla tavola.
E il rumore di trancio delle forbici, sicuro come un’esecuzione.

E’ sarta diplomata, di scuola SNOB, Torino, annuivano le amiche, che in coro compitavano a rosario, di dito in dito: Signorilità, Nobiltà, Originalità, Bellezza…
Doni di un altro mondo che arrivava per posta sotto le spoglie di un giornaletto rosa, miniera di modelli tratteggiati e di silhouettes moooolto parigine.

Dire alla Rosa facciamoci un vestito era come invitare un’oca a bere. Forse di più.
Però.
Era sposa fresca, fresca d’aprile, e aveva portato poca dote.
Già la Dina, suocera severa, era stata di sbieco a vigilare sui bauli in transito, di sopra: non era contenta, no, di vedere solo vestiti, tanti bei giacchini (pure col pelo di coniglio), ma lenzuola sotto la dozzina, resti di mature vedovanze degli zii di casa, col giallino che chiedeva varechina.

La Rosa si faceva un po’ vergogna, in quel maggio già caldo, a sacrificare due belle foderette. Ma la Iris in testa aveva già il vestito. Stretto in vita, dunque malizioso, ma castigato da una mantellina che si chiudeva al petto, restando un po’ discosta. Una mantellina dentellata con il filo rosso, per disperdere eccessi monacali.

Galeotto fu il dentello di viva tentazione: la Rosa disse sì e senza pentimento. Le foderette non conobbero mai il letto, ma fasciarono vita e fianchi con gran soddisfazione, sotto lo sguardo corrucciato della Dina, che guardava la dote assottigliarsi come la sfoglia sull’asse di cucina: le nuore in complotto modaiolo, mentre nell’acquaio i piatti chiedevano sapone.

Al mercato di Revere la Rosa andò in corriera col suo marito nuovo e il vestito bianco coi dentelli. Contenta di quella diversione che un poco almeno compensava un viaggio di nozze mai avvenuto. E decisa a rimpinguare il tolto: le mance dell’ufficio a questo potevano servire, a comprare della tela buona, per la tavola ed anche per il sonno.

Non lo avesse indossato, quel vestito, mai avrebbe capito quanto le cose chiamino a gran voce, con una prepotenza che toglie ogni rigore e sa essere forte di catena.
Seppe, invece, quasi con stupore, che un filo rosso, un filo di cotone, è un laccio di colore per certi sandalini, di pelle a strisce e pure con la zeppa. Un laccio che non ignora neppure la borsetta (una trousse, per essere precisi).

Meno male che non ho promesso niente, si diceva la Rosa, mentre guardava il trionfo fiammante dei suoi piedi e l’espressione felice del suo uomo.

(A tutte le donne care di casamia, proprio a tutte)

La bambina del Pranfiiin

02 giovedì Ago 2018

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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La chiesa se lo guardava come un figlio piccolo, il chiosco di legno e finestrina, messo lì, sull’orlo del sagrato. A vegliare sull’ingresso bello, quello per matrimoni e funerali, ché, l’altro, era per intrusioni mattiniere, alla messa dell’alba, o per qualche preghiera d’emergenza.
Così, nell’edicola, l’incenso era di casa. Ne restavano impregnati giornali e giornalini.

I ragazzi più grandi cercavano quelli almeno un poco sporchi, da guardare di nascosto sotto le lenzuola e da passare agli altri, fogli che non reggevano a vicinanze mistiche: presi da vergogna, si lavoravano una nicchia sotterranea, per calarsi nei ripiani bassi e oscuri. Vi restavano nascosti. A riveder le stelle tornavano soltanto se l’ammicco brufoloso di un tardo adolescente implorava.
Allora la vecchia con sciallino, atermica regina del chioschetto, cedeva, ma con riprovazione.
Sono meglio le castagne, diceva e se le girava con le mani abbrustolite sul braciere: le donnine svestite infilate a testa in giù, dentro ad un sacchetto.

La bambina andava per comprare ogni settimana il giornalino che aveva Arturo e Zoe e anche Superbone.
Era Il Monello, che regalava figure ma anche racconti lunghi una pagina.
A lei era piaciuta la storia della bambina che non voleva andare a scuola e aveva messo il termometro dentro la tazza della camomilla calda, così pareva avere un gran febbrone.
Il Monello dava molte idee.
Ai maschi toccava L’Intrepido, pieno di pugni e lotte: il regno dei fumetti era un dominio separato, a ciascuno il suo, senza scambi e senza concessioni.
La vecchia dello scialle non diceva niente, nel porgere il giornalino: quello andava bene e ci scappava anche un sorriso.

Quel giorno però Il Monello era finito: la bambina si trovò davanti a una scelta del destino. Portare i soldi a casa, come chiedeva sempre la sua mamma, quando un acquisto non andava a segno? Cambiare il giornalino per un Nonna Abelarda di giornata o uno striminzito Soldino dal testone grosso? Oppure …
Era estate, la chiesa non faceva arrivare neppure una bricia di frescura, e lì, nel chiosco, la lusinga c’era.
Si chiamava ‘granita’.
Del bel ghiaccio tritato sul momento e a manovella, con un gracchiare che ‘sgrisolava’ nella schiena.
Quattro gusti: Amarena, Tamarindo, Orzata, Menta.
Poi, poi uno misterioso, offerto con promessa di bontà assoluta.
Il gusto Pranfiiin.
Di colore incerto, variabile in un giro di giornata, quel gusto attirava col segreto e con il nome.
Come resistere al richiamo che dice l’effetto, mica la sostanza, con tutte quelle iii protese come spade, puntute e dolci sopra i dubbi?
La granita al Pranfiiin non deludeva mai, col suo sapore migrante e vagabondo. Si poteva scommettere sulla nota dominante, dopo averne visto il colore.
Con senso campagnolo del risparmio, la vecchia usava un’alchimia.
Sotto il banco, dentro a una boccetta, aggiungeva a strisce e a strati le gocce di sciroppo rimasuglio, i fondi di bottiglia. E scuoteva, il giusto.
Così la felicità bianca dell’orzata si spegneva un po’ nel tamarindo, ma si alleava col rosso d’amarena. La menta a fare il resto, con il suo urlo acuto, in fondo, tutto di frescura.
A dire che, spesso, si vive di piccole gioie di risulta.
E della mescolanza che sanno regalare.

Granita al Pranfiiin, disse, sicura, la bambina, Il Monello stavolta me lo farò prestare.

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