• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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La Lida

27 mercoledì Gen 2016

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La Lida non sapeva come fare.
Se è una sposa, quella da vestire, per una sarta tutto è complicato.
Specie se il tempo è poco e le idee grandi come chiese, copiate da cento figurini e messe insieme come i giochi dei bambini.
Specie se la Necchi è vecchia e ferragliosa, nell’angolo chiaro di cucina: poco spazio intorno, fra quei muri stretti e la cicoria che cuoce sopra il gas.
E lei era di seconda scelta, questo lo sapeva: la prima sarta, quella vecchia e brava, aveva detto no, già troppo presa. Adesso bisognava essere all’altezza, nascondere timori ed imbarazzi.

La Silva era sposa di giugno, decisa tutta in fretta, perché, d’aspettare settembre, non era proprio il caso. Aveva un suo segreto, da nascondere bene con un vestito impero: lo scollo a madonna e le pieghe, sul davanti, da tenere d’occhio giorno dopo giorno, giusto per inseguire le misure.
Poi alla Lida era venuta quell’ispirazione: compensare il segreto con la coda, lunga, sul dietro: che a reggerla servissero almeno due bambini, addestrati dal Vero, il sagrestano, perché non rastrellasse i sassi del sagrato. Una coda avrebbe distratto le occhiate più curiose e avrebbe dato un grande movimento: ci vuole morbidezza, e mentre lo diceva si sentiva sarta degna non solo del paese.

Madre e figlia furono d’accordo con convinzione svelta e portarono una stoffa fragilina, d’un bianco abbagliante persino verso sera. Chiffon, dissero in tono sostenuto.
La Lida guardava, riguardava e toccava il tessuto con fare circospetto.
Aveva già cucito abiti da sposa. Tre, per essere precisi.
Altri ne aveva sistemati, perché in paese, si sa, se sposa una ragazza, l’abito serve persino alle cugine: basta togliere maniche, aggiustare un fiocco, aggiungere un vezzo alla sottana. Coi rasi c’è da stare attenti: sono come i gigli, si segnano con niente, ma davanti all’ago se ne stanno dritti e dicono la strada. Pure la batista si lascia lavorare, ma questo chiffon, con le cannette tremule e sottili…

Ahhhh, la piega non la tiene, aveva messo in chiaro la sartina, poi se si stira, si slarga e fa pallone…
Pallone. Alla parola, la Silva diventò di cera…
Niente pieghe. Fulminea decisione.
Si ripiegò su un’arricciatura, appena disegnata, con la madre che sempre ripeteva la cosa del far presto, presto, più che si poteva. Le prove fuori dagli sguardi più indiscreti, la sera, magari, dopo cena.
Ma giugno era cominciato e il vestito tardava ad iniziare: la cucina era piena di stampi di velina, le pinces disegnate con il gesso azzurro, l’intarsio della coda che partiva alto e poi si apriva a dare sfondo alla gonna, anche sul davanti. Sì, la carta pareva aver ragione, mancava, però, la prova della stoffa.
Il momento del taglio fu supremo: la Lida mandò sua mamma persino da sua zia, per non avere intorno anima viva, il gatto chiuso nella lavanderia.

Sul manichén tutto filava bene, con un gioco di spilli e imbastiture: ora bisognava cucire, piano piano, con un piedino nuovo e l’ago più sottile, ma c’era così caldo, nella stanza. E tutto così stretto, la Necchi contro il muro, la stoffa a scivolare in ogni direzione.
Pareva che il vestito volesse tracimare.
La paura era anche di sporcare, di lasciare tracce su quel fiume bianco.
Non bastava neppure alzarsi presto la mattina, quando la casa era ancora addormentata: il caldo arrivava a balzelloni, se la rideva della tenda a fronteggiarlo e colava lungo le pareti.
La Lida se lo sentiva tutto addosso, a fare appiccichino con la seta.
Mancavano sei giorni a quello dell’altare. Sei giorni.

Fortuna che ci furono le calle, una mattina. Fiorite insieme con le ortensie.
Sotto le finestre alla dispensa, in fondo, a dare pace.
Così fresche, nell’ombra, e delicate, nello spiazzo d’erba, prima del brolo.
Come poteva non averci mai pensato?
Si stesero due belle lenzuola, di quelle fitte, tessute col telaio: nel mezzo la Necchi, come una regina, e lo chiffon, finalmente a casa sua, a scendere per terra e a stare vaporoso.
Così la Lida, nel primo pomeriggio, faceva l’atelier nel suo cortile e lasciava che la macchina trottasse, cucitura dopo cucitura.
Ormai restava solo l’orlo, quello della coda. Tagliato di sbieco, faceva disperare.
Arrivò la Marta, allora,  col ditale e un cuscino, da appoggiare sul lenzuolo, perché a cucire mica si sta in piedi. Non mancarono neppure le ragazze da marito.
Tutte con l’ago e con la scusa che, se una sarta cuce nel cortile, è quasi meglio di un filò, la sera.

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Era l’inverno che …

06 mercoledì Gen 2016

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 17 commenti

Era l’inverno che s’ammalavano i bambini.
Arrivava la febbre con la tosse, quella cattiva che s’attacca come colla e fa caverne velate nei polmoni. E lo stringimento in gola.
(lo strazio del gattino quando ingoia un boccone troppo grosso)

La bambina era ferma a letto.
Tanti giorni chiusi, coi rumori che parevano lontani, fasciati con il feltro.
Erano venute anche le suore, mentre il nonno di nascosto faceva gli scongiuri.
A portare certi cartoncini bianchi con cani e casine da passare a filo, punto su punto, con l’ago dalla punta grossa: giochi per passare il tempo a letto.
Molti bambini erano scappati dal paese, dal suo cordone di maledizione.
Il dottore diceva Via, portateli in montagna, a cambiare l’aria nei polmoni.
La bambina era rimasta lì: troppo alta la febbre per andare.
Non bastò il brodo di pollo a tenere basso il calore.
Neanche l’alcol sfregato sul torace, che mostrava il telaio delle ossa, perché i giorni passavano digiuni.
Né il chiodo arrugginito che la nonna aveva nascosto nel cuscino.
La febbre saliva saliva e stampava sul muro le paure. Aquile nere e predatrici, topi con la coda che si faceva ragno o forse scarafaggio, mentre la tosse smuoveva tutto il corpo: la  sentivi arrivare dall’addome con un gorgoglio che diventava soffoco.

Polmonite, ormai è polmonite, il dottore sembrava spazientito, quasi la bambina non l’avesse curata sempre lui. Penicillina e tante inalazioni.
La bambina sentiva le cannule di vetro rampicare dentro il naso, gli sbuffi di sapore marcio e avrebbe voluto strappare i filamenti, ma la mamma le teneva tutte e due le mani strette strette.
(mamma nemica, mamma cattiva, mamma che tiene prigioniera)
E le cannule ormai erano serpenti che prendevano la strada della testa e andavano a imbucarsi nei pensieri: il sonno arrivava e poi sfiniva, tutto il caldo stampato sul cuscino e il sudore che svuotava il corpo. Tanta sete. Voglia di gettare le coperte, alzarsi e correre in giardino, coi piedi nella neve, ma la mamma rimboccava le lenzuola e le fermava come bende.
(mamma nemica, mamma cattiva, mamma che tiene prigioniera)
La febbre prese a scendere pian piano: restavano le ossa tutte molli, la fatica a mettere le gambe giù dal letto, il fastidio delle cannule nel naso subite ogni mattina, il freddo del vetro che voleva entrare.
La bambina cominciò a pensare alla storia che sua nonna aveva letto ad alta voce dal giornale, nell’estate.
Una madre infilava di nascosto gli insetti nelle narici di sua figlia, piccolina. Insetti con le tenaglie adunche, quasi scorpioni di pianura: forbicine scure, lucide  e guizzanti, a invadere le strade della testa.
La  bambina adesso guardava con sospetto la sua mamma e non voleva più mangiare.
E se le cannule di vetro altro non fossero che quelle forbicine? Pronte a scavare, scavare nel cervello, a formicolare dentro gli occhi, a graffiare condotti nel silenzio, a scendere nel sangue?
(mamma nemica, mamma cattiva, mamma che vuole far morire)
Meglio fingere di dormire sempre, a pancia in giù, con la testa nascosta nel cuscino. Muta, più neanche una parola. Per giorni e giorni.

Poi una notte sentì un tremito caldo sul suo corpo: sua madre era lì vicino e piangeva con voce di bambina, un miagolio di gatta disperata, tante i i i a pungere il silenzio, le braccia abbandonate sopra il letto, a carezzarle le gambe e le ginocchia. La luce della lampada smorzata.
Così giovane e stanca, con gli occhi pieni di dolore, come avrebbe potuto far del male?

La figlia si drizzò. Ho sete disse, finalmente. E’quasi  primavera?

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