• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: febbraio 2006

Altre sirene

22 mercoledì Feb 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 64 commenti

Leggo ricordi (e talvolta nostalgie) di mari e di isole in tante scritture.
Ne arriva il profumo fin qui, a confondersi con gli odori di altre acque.
Altre acque.
Quelle che conoscono le sponde e ne conservano un senso amaro di luppolo e gramigna.
Quelle che non disdegnano i ponti, ma ne sanno il sacrilegio (mai annodare quanto è diviso…).
Quelle che scorrono e tentano al viaggio battelline lunghe e nere, ferme a riva per nodi antichi, poi finiscono col convincere solo sabbie e ghiaia.

Da questa mescolanza di acqua (tracimata o sortiva) e di terra (gonfia e portata via) nascono presenze.
Anche qui ci sono sirene, pertanto.
Sirene di superficie, sirene di fiume, con petto di rosatea e fianchi accoglienti.
Memoria o promessa del mare, chiamano destini malcerti e incantamenti brevi.

Proprio a ridosso dell’argine stava la più bruna.
Aveva rubato la pelle alle nespole d’inverno: solo a guardarla, dorata, se ne sapeva la polpa.
Non chiamava, non cantava, ma, se rideva, se guardava e rideva di gola, non c’era dolore, non c’era male che restasse identico a prima.
Un riso di latte e di miele.
Lo sentì il suo ulisse, risalito dall’altra sponda del mare, vagabondo senza mappe e senza mestiere.
Si fermò.
Lei lo lavò, lo vestì, lo prese nel letto, nella casa del caco, esploso d’arancio.

Lui dipingeva il mare su assi di porte e d’armadi: perchè in un noce, nelle macchie dei muri, nella brina sui rami vedeva acque con veli di sale e trine di schiuma.
Conchiglie e conchiglie.
Con questa moneta pagava.
E le case fiorirono di squame azzurrate: collezioni di sabbia, di onde e marosi, costrette in piccole tavole di legno…

Se ne andò, lo straniero, senza dire dove e perché.
A noi restò il mare sui muri.
E una donna sirena, senza latte né miele.
E il sapere che l’amore ha radici nell’aria.

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A proposito

20 lunedì Feb 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 53 commenti

(divagazioni fumose)

Mi pare fosse alle Jene.
Qualche settimana fa, ma non più di tanto.
Casini e Rutelli sottoposti alle stesse domande.
Anche circa lo spinello.
Rutelli, con la faccia alla San Luigi Gonzaga (giglio automunito) che dice mai e poi mai, Casini che dice sì sì, una volta in un piccolo prato.
Piaciuta tanto la precisazione del “piccolo” prato, funzionale alla riduzione della trasgressione.

Spinello è una parola che mi fa venire in mente l’odore dell’olio 31.
E allora mi metto a ridere.
Perché mi riporta alla mia capacità di essere imbranata in qualsiasi situazione: basta prenderne una a caso e so darne una interpretazione estemporanea, ma adeguata.
Io non fumo: per una questione di imprinting.
Non fumo proprio nessuna cosa: l’odore delle sigarette mi dà fastidio, il fumo mi fa venire male agli occhi, mi chiude il naso e via scocciando. Però non disturbo chi fuma: gli chiedo solo di farlo in bagno o sul terrazzo o passeggiando davanti a casa. Solo questo.

Bene.
In uno dei miei primi anni di insegnamento  (diverso tempo fa, quindi), capito in un Liceo di città, la stessa in cui mio padre, da pendolare come me, riveste una carica molto esposta.
Una sera di gennaio avanzato, la riunione a scuola finisce tardissimo: sessanta chilometri di nebbia fitta, come sa esserlo dalle nostri parti, e pure sul ghiaccio, spaventano anche i coyote. Da fare in macchina: impossibile. E non ci sono più treni.
Sono con un’amica cara, del mio paese, con me nella stessa scuola.
E con un altro gruppetto di prof. pendolari e stanche.
E con la nebbia a parete, cui si può appoggiare una bicicletta, senza farla cadere.
Telefonata a casa.
Mio padre mi fa: si dorme lì, pensione V., dove vado sempre io. Mi conoscono, vedrai che vi trovano ‘na stanza.
Si fa così: danno a me e alla mia amica la stanza di mio padre.
Alle altre due colleghe una contigua.
Si va a mangiare una pizza, si ride come si può ridere solo dopo un collegio docenti, quando la vita ha il sapore di un’evasione e tutto ti pare leggero leggero, anche se c’è la nebbia.
Si va in camera: pensioncina piccolina, stanze con muri di vetro: quella dei padroni sullo stesso piano.
Dopo cinque minuti dalla buonanotte collettiva, bussano alla porta della stanza: sono le altre due colleghe che ridono e ridono, entrando con fare furtivo.
Ci fumiamo uno spinello: dicono. In compagnia.
Spinello?
Mai visto da vicino, io.
Molta letteratura in proposito, avanzata e improntata ad un sano antiproibizionismo, ma nessun desiderio di presentazioni ravvicinate. Né contatti.
Sotto sotto, però, mi lavora per bene la vergogna di parere una di campagna e pure bacchettona, una di strapaese, mai stata in treno, mai vista una credenza.
Le due fumano.
Tranquillamente e odorosamente.
Non gliene può importare di meno se noi non si condivide.
Nella stanza c’è l’odore che immagino appartenere ad una fumeria d’oppio. È dolce e appiccicoso.
Naufrago nell’imbarazzo, che mica è legato alla fumatina in sé, ma a quella fumatina nella MIA stanza, che poi è la stanza di MIO padre, nella pensioncina di MIO padre, nella città di MIO padre, in cui MIO padre può fare una brutta figura.
Mio padre comincia a sembrarmi gigantesco.
Potrebbe uscire dall’armadio e dirmi… belle cose che fai in giro e io non mi stupirei. Anzi sarei felice se lo facesse subito, almeno mi tolgo il pensiero.
Mio padre comincia a sembrarmi un gigantesco aspirapolvere che può sentire l’odore spinelloso stando a casa sua.
A sessanta chilometri.
Ancora di più lo potrebbero sentire i proprietari della pensioncina.
Allora geniale intuizione: spalanco le finestre e mi metto, con l’amica che mi conosce a memoria e ha la mia stessa disinvoltura di marmo, al davanzale.
Come le sorelle Materassi.
E facciamo anche finta di avere caldo: pertanto ci facciamo vento.
La gente passa sotto le finestre e guarda in su un tantino perplessa: due ragazze alla finestra di un alberghetto che si sventagliano a mano aperta.
Realizziamo che forse non è un gran bel vedere.
Le due finiscono e se ne vanno, ridanciane e spensierate. Noi restiamo pensierose e col mal di testa, lì, a spolverare l’aria e a versare ovunque gocce di olio 31.
La stanza sembra la succursale di una caramella svizzera.
E noi ora ridiamo come cretine.
Uno spinello all’olio 31.
Altroché.

L’uomo che aveva sempre fretta

15 mercoledì Feb 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 60 commenti

(racconto ‘margine’ in motorino)

Qui da noi c’era un uomo che aveva sempre fretta e non faceva mestiere alcuno. Passava fra la gente come i pensieri che risparmiano parole.
Per la fretta non salutava anima viva.
Così non c’era da fermarsi, un piede a terra, giù dalla bicicletta.
Per la fretta non cambiava la camicia.
Così non c’era da aspettare che il sapone facesse schiuma.
Per la fretta non lasciava che, in casa, cuocessero i tortelli: li intascava crudi e li mandava giù, secchi come un’ostia di messa. In piedi. Contro la porta.
Così non c’era bisogno di tovaglia.
Per la fretta non lasciava maturare il vino: lo beveva giovane e annacquato.
Così non c’era bisogno d’ allungar le gambe sotto un’ombra, dopo mangiato.
Per la fretta perse il nome: un pezzo restò impigliato in una siepe di pungitopo o mise le ali e volò via, un giorno di vento basso.
Così gli restò un mucchietto di consonanti, magre e strette.

Non prese moglie e non fece figli.

Gli restò molto tempo per la noia.

Vorrei una pince

07 martedì Feb 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 61 commenti

Vorrei una pince.

Uno degli indizi, che gli scrutini seminano per casa, è la sparizione precoce del divano. Dalla camera da letto. Piccolo e gentile. Blu Cina. Sparito, sotto i vestiti. A strati, come le ere geologiche.

Quello di oggi è stato il primo pomeriggio di commiato dalle schede di valutazione: lasciarle è sempre un po’ così; ti perseguitano fantasmi di scritture frettolose, di furtive fughe di accenti, d’invasione di cellette altrui…, tutte umane imperfezioni che vengono alla luce solo sotto gli occhi dei genitori.
Giusto per non pensarci più e per punirmi in anticipo, ho cominciato a rimettere i vestiti negli armadi, per rivedere il divano, di cui, dopo un po’, sento la nostalgia.
Piegato cose su cose.
E poi una rapida realizzazione: io non possiedo vestiti.
Possiedo calzoni gonne sciarpe maglie magliette sciarpe golfini camicie sciarpe gilé giacche sciarpe giacconi giacchette sciarpe guanti cappotti sciarpe.
E scarpe.
Ma, d’inverno, io non ho quelle cose che si chiamano “vestiti”.
Cose tutte d’un pezzo.
Intere.
Grave discontinuità col passato, quando frequentavo l’università della moda nella cucina di casa mia: donne e donne che si muovevano come api attorno alla zia, sarta ufficiale di paese.
Luogo in cui tutto, dalle maniche alla raglan al plissé, ruotava attorno al vestito.
Lì si parlava una lingua contaminata e irreale, in cui le parole venivano addomesticate e non sapevi più dove finiva il dialetto e cominciava il francese, fra uciaduri e tailleur, redingote e rissaduri accomunati nella stessa pronuncia.
Lì assistevo ai misteri della messa in prova e comprendevo la differenza fra ciò che si vede e ciò che non si vede: fra il sotto (un labirinto di nodi  e di rinforzi o di imbottiture bugiarde…) e il sopra, ad esempio, levigato e perfetto…
Capivo la pazienza dell’ago e del filo, che già soffrono se lavorano sul pieno, ma letteralmente impazziscono se giocano col vuoto e fanno i funamboli per inventare un’asola.
Imparavo, soprattutto, quanta elasticità ha l’abito che trucca il corpo con quell’incredibile, strumento rettificatore, nonché riequilabratore universale, … che si chiama “pince”…
Pince.
Pieghetta truffaldina che finge gonfiori, pienezze inesistenti o sottolinea quel che c’è, magari tentando di contenerne l’esuberanza.
Pince che si apre e si stringe, nasconde o fa sbocciare, accompagnando il respiro.
Pince, ovvero medicina magica che risolve ogni problema di tecnica e di armonia, ogni errore umano… “Qui facciamo una bella pince”, ho sentito ripetere mille volte come un apriti sesamo capace di rimettere a posto ogni cosa, ogni difetto umano o di natura.
Ecco, io non possiedo un vestito. L’unica cosa che indosso, tutta intera, ogni giorno, per tutto il giorno, è la vita. La scuoto un attimo, la mattina. La tolgo la notte. La re-infilo alle 7, il giorno dopo.
E non ha neanche una pince.  A sistemare le cose.
Cavolo.

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