Cara Elia,
in questo momento non riesco ad immaginare un modo per accostarmi a Golena che non sia quello della prossimità, e allora la forma della lettera mi pare la più vicina alla vicinanza e la più lontana da una lettura fredda e formale.
Ho passato giorni, sai, a ripercorrere la musica delle tue parole, ad ascoltarne il passo, a volte ritmato come un saturnio, appuntito nei suoi suoni duri e poi ammollato nella folla delle liquide.
Ho trovato gli echi, le parole che si raddoppiano per giocare a rimbombo o a rimbalzino, le ripetizioni che aggregano un significato, come il fischio sempre uguale di chi, in bicicletta, si fa riconoscere nella sera.
Ho sottolineato con puntiglio gli enjambement, le inarcature che se la ridono delle buone maniere e restano in bilico per non interrompere un discorso che avanza sforando i metri, invadendo di sillabe i versi che seguono.
Ho campionato le parole con pazienza baconiana, per registrare presenze e assenze (quanta anima, quanto soffio, quanto vento, quanta aria, quanta terra, amica cara, per parlare di ciò che è reale e di ciò che è sogno …).
Poi ho capito che al senso di Golena forse si arriva per altre strade, come le topine, come le cappe sotto il pelo della sabbia, perché la tua poesia ha una necessità così intima, così sotterranea che richiede non tanto la disponibilità allo scandaglio, quanto, invece, una nudità pavesiana, quella della cedevolezza alla pervasione.
E’ così che si sente.
E’ così che si diventa, insieme a te, vecchia carta assorbente che accoglie il dolore e gli trova posto in un regime di uguaglianza, ben sapendo che assorbirlo significa compromettere la resistenza del foglio stesso.
Prossimità, dunque, al sotto pelle, a cui le tue parole alludono in infinite varianti. E al pianto, perché il pianto è mostrare finalmente la faccia.
Prossimità, anche se non si è mai nel cuore di alcuno abbastanza/da vederne lo stringimento.
Non a caso questa parola proviene dall’area dei luoghi: credo si giochi tutto lì, fin dall’inizio o forse fin dalla fine. Perché il luogo non è solo la cornice della nascita, e poi di una vicinanza che dà il sapere dei tempi e degli spazi, dei volti e dei nomi, ma è la casa da cui si parte e in cui si torna:
venire al mondo al centro o di lato
è una questione di barre in cielo distrazioni
di stelle e magneti a braccio di ferro
ali di farfalle pelose e qualche cavalletta
con zampe d’acciaio a fusione rapida.
Qui o là è un capriccio che mette radici
da innaffiare notte e giorno di sale e fiele
prima che cerchino argini e, in dote, la nebbia. Forte e
densa come una colata d’altoforno, nutre viole
e regala una margherita parpagliona
puzzolente e chiara.
Non so per quale congiunzione astrale ci sia capitato di nascere proprio ‘qui da noi’, certo è che il fatto lascia una marca, nella vita come nelle dimore, un senso di terra bagnata e di salnitro sui muri, un vivere di sponda che non si asciuga mai compiutamente.
Quando poi si riceve in dote e in sorte la golena (invasa di schiume e limaccia /madreperla che scioglie e /ovatta veleni arrugginisce coltelli e sfaglia le lame …) si accoglie la responsabilità di rispondere alla sua chiamata, al suo invito di stare a lato , proprio come si fa col fiume, e di percorrerlo, decidendo la direzione.
Ci sono giorni che devi tornare a casa
anche se la tua è finita
e tu boccheggi da qualche altra parte
Tu dici.
E allora penso che ci si riappropri della golena, che è terra, acqua, pioppi, casematte, vento e infanzia, proprio dopo aver boccheggiato da qualche altra parte.
Presente la lingua che si ri-arrotola all’indietro, dopo aver sentito l’amaro o il dolce in punta di labbra?
Così.
Si arriva alla golena tornando a casa dopo un grande dolore, per riprendersi l’ombra, il grembo della mama, il primo maggio del padre, il paniere di nomi, rifacendo la strada all’incontrario, ovvero partendo dalla secchezza disadorna del presente e dalla sua coscienza, senza marce forzate e senza tentazioni di consolazioni.
Pochi gli strumenti e le regole di navigazione:
basta conservare nella tasca interna, a lato del cuore,
le tre monete e una melagrana secca
E camminare con la cerata gialla, finché regge il laccetto delle scarpe ballerine.
Perché si torna?
Per accogliere la propria vita e farsi accogliere in parità dalla propria terra: gli acufeni non sono forse i ronzii della terra/ che ti naviga in testa?
I giochi si sanno già, le mappe sono state esperite: che la vita sia una buffa sonagliera è cosa certa, che l’apnea sia uno stato dell’anima (o una parola impiccata che si rifiuta di salire), anche : in fondo quel che c’è da sapere lo sai la prima volta che anneghi.
Si torna alla golena, pur sapendo: forse il peduncolo della resilienza-poesia è lì. Come la vulandrina, ha bisogno di terra e di vento.