• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: ottobre 2007

Con Luzi

26 venerdì Ott 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 40 commenti

C’è una poesia di Mario Luzi a cui torno quando il vivere, di cui si sa il trascorrere sospeso tra oscuro / e manifesto, fuori della letizia e del dolore, mostra qualche smagliatura in più, qualche anello che non tiene, per eccesso di mobilità e di inquietudine.

E’ una poesia che va d’accordo con quei giorni in cui c’è bisogno di dar ragione alle cose e agli eventi. Alle mancanze, soprattutto. Annunciate e incombenti.
Allora sento le parole di Luzi come l’invito alla calma costruzione di un giusto, dialogante rapporto con la vita, nel suo magma.

Nei versi che mi regalo c’è il disegno di un paesaggio interiore attraversato, sbattuto, scrollato dal tempo. Il tempo, col suo affanno, sa essere turbine e vertigine.
L’albero di dolore scuote i rami…
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami.
Sono parole marcate dall’obliquità del vento: appare così ‘singolare’ l’albero, così numericamente in difficoltà, da risultare unico attore nello scenario desolato di uno sciame di anni che volano via.
Eppure, nel momento stesso in cui l’individuo sembra ancorarsi ad un destino di solitudine, Luzi rovescia la prospettiva e rilegge il senso o la vocazione dell’esserci.
Vivere è un andare corale, collettivo: si va, si va con i propri vivi e con i propri morti, si va in in-fusione,
penetrando il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite.
Si va ciascuno e tutti insieme, con un unico corpo che le morti non assottigliano: eterna compresenza, che esclude appelli e bilanci e fa continuare il viaggio.
Si va filando l’amore, fino ad illimpidirlo.

Il flusso della vita non è dunque vano, sembra dirci Luzi.

Certo, in chi vive di dubbi ed incertezze, spaventato in eguale misura dal sapere e dal non sapere, le domande non tacciono: l’uomo, albero di dolore, in quale senso scuoterà la sua inquietudine? Si voterà alla caduta, alla polvere, oppure guarderà all’alto, incrocerà un qualche fuoco, purificatore?

Non giungono risposte consolatrici.

Solo il dono di due preposizioni: con e tra.
Sono fili importanti su cui caricare o scaricare la propria presa di terra.

L’albero di dolore scuote i rami …
Si sollevano gli anni alle mie spalle
a sciami. Non fu vano, è questa l’opera
che si compie ciascuno e tutti insieme
i vivi i morti, penetrare il mondo
opaco lungo vie chiare e cunicoli
fitti d’incontri effimeri e di perdite
o d’amore in amore o in uno solo
dì padre in figlio fino a che sia limpido.
E detto questo posso incamminarmi
spedìto tra l’eterna compresenza
del tutto nella vita nella morte,
sparire nella polvere o nel fuoco
se il fuoco oltre la fiamma dura ancora.

(M. Luzi, Nell’imminenza dei quarant’anni, in Onore del vero)

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18 giovedì Ott 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 35 commenti

“Questo stare bene. E’ così stare bene.
stare molto bene è così come ora”
(Mariangela Gualtieri, Senza polvere Senza peso)

C’è da pensare a una Bonifica del secolo scorso, allungata e specchiante, con i fregi di ghisa, di quando il liberty sapeva coniugarsi col lavoro.
Il Po è di là, nella stanza bassa e fresca. La sera se lo mangia.
Fa buio presto, ora, e le fiaccole tornano ad essere quello che sono: non decoro ma luce.
I gradini da salire sono tanti e il corrimano è gentile.

Dentro la Bonifica, una persona minuta e sottile, che fa pensare al grigio di certe perle luminose.
E alla semplicità.
Una donna.

Dentro questa donna, una forza che spunta da una mano (non grande, aperta a conchiglia), brilla negli occhi e poi fiorisce nella voce. Rauca morbida bassa vibrata. Come raschiata senza sforzo. (Un sasso, dentro?) O carnosa, forse. Al punto che tu scopri, all’improvviso, quanto sappia essere sangue, la voce.

Dentro la donna, la bambina che sa  il dolore dei grandi e dei piccoli, il grido murato, la tosse, il fallimento e il volo incerto.
E dei piccoli, nel letto dei piccoli, conserva la pietà e la fede: nei giuramenti e nei sermoni, nei sortilegi e nei gesti che salvano.

Dentro la voce, la poesia.
Una poesia che parte su file di parole formiche, poi si gonfia, lievito di pane, vola, guarda le mappe siderali, questo ‘mondìno sghembo’ e i fiori, uno scenario storto e l’ ‘orlo/ del cominciamento’.
Con l’accoglienza antica dei grembi e delle mani.
Così schiusa, la poesia s’abbassa, ad avvitarsi ai cuori: entra e rivolta come un guanto.
Per fermarsi nel lustro che si annida nell’angolo dell’occhio.

Mariangela Gualtieri.

Due ore fa, qui.

Come fra muri

06 sabato Ott 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 51 commenti

Era un’ora da uscire a malincuore.
Con quel sole a ombra breve: esangue e senza piede. Un’ombra conficcata diritta nel terreno.
E le cicale.
Le cicale sono una trivella e sanno un’unica canzone: la senti fino al  cuore, che s’intorcìna tutto.
Poi sulla pelle. Te la strapperesti, come fa la biscia con la buccia, per lasciarla lì, alle api e al vento.

Non era sicura di volere andare.
Un po’ per la fatica di fare tanta strada, sola.
Un po’ per il buio che lavorava dentro. Come una prova: salire in alto, volare su un nido arruffato di cornacchia. Poi, di colpo, perdere le ali.

La strada era di polvere. Lunga e bianca.
Si legava ai pedali, quasi avesse i denti.
Per scapparle occorreva andare forte con la bicicletta. Il sangue friggeva nelle braccia: si alzava sotto velo, in un bruciore di lievito e sudore.

La strada era come fra muri.
La ferrovia da un lato, al sommo di una monta di cascami. Le tife a nascondere a nascondere, con le testine dure. Cattive. Odore di macero morto, nel gambo.
E, di faccia, all’altro lato, il campo. Picche di granturco scartocciato: una parete fitta di schiocchi e di squittii. Sapeva farsi mano, mano da taglio, e prendere improvvisa, fra occhi addormentati di pannocchie.
Il frumentone ha sempre le sue storie: di bambini inghiottiti e più tornati, di scarpe vuote sulla porta del fosso, di donne uscite con la pancia grossa senza saper di chi, ché non basta l’ulivo benedetto crocifisso ai margini del campo.

Ma.
La medicina era rimasta sulla tavola e il padre già in campagna.
Nella corte, oltre la strada lunga fra i muri.

Proprio il giorno che la madre col bambino aveva preso il mattino la corriera. Per tornare la sera.
Guarda che lui  prenda la pastiglia, la madre aveva detto, sistemando la camicia del bambino.
La figlia, un sì con la testa e intanto la guardava: era bella la madre in quel momento, la sottana docile sui fianchi e ben tirata dalla piega dei ginocchi. Con quelle forme morbide e piene che le madri rivelano, improvvise, quando si chinano ad altezza di bambino. E il corpo grande si fa più piccolino, ma in un gioco di carezzevoli fattezze.
Tutta la bellezza promessa dal mondo, lì: matura.

La medicina era rimasta. C’era da portarla, anche se il sole, anche se la strada, anche se l’ora.

Almeno non fosse morto, pensava la bambina.
Almeno passasse il treno.
Almeno il granoturco stesse fermo.
E il caldo le saliva per la schiena e le cercava il collo.

Poi nella corte vide.
Era una macchia nera sotto la barchessa. Di sangue vivo e raggrumato. Una macchia grande e silenziosa. Di respiro strano. Un groviglio di fessure verdi, a tratti.

Il padre apparve dietro, con occhi curiosi, come di sorpresa.
La vide muta e ferma, sulla bicicletta.
Indovinò lo sguardo e batté le mani: la macchia si sciolse in tanti gatti neri.
Anche la paura.
Sono selvatici, disse, allungandole un mestolo d’acqua del secchio.

L’acqua dei padri.
Come sa esser fresca.

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