• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: ottobre 2009

Il treno sapeva di mele

30 venerdì Ott 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 43 commenti

Chi continuava a studiare, dopo le medie, doveva scegliere fra il treno e la corriera.
La scuola veniva dopo.

La corriera era uno scassone blu che invadeva lo stomaco di curve odor di finta pelle.
La conoscevo bene, la corriera, troppo bene la conoscevo: ci passava sui piedi, nel viale della casa grande, e la prendeva mio papà, per andare a Mantova, quasi ogni mattina, se non era in giro in qualche posto lontano.
A turno capitava, in casa, di doverla fermare con segni agitati, finchè il ritardatario non correva fuori, con la cravatta in mano e le stringhe delle scarpe da annodare.
La prendevo anch’io, la corriera, in quei pomeriggi di caldo grande, schiacciato a terra da una mano sudata. La strada, che portava alle zie, si bagnava in fondo della morgana dei miraggi, come nei deserti.

Il treno, invece, era di un verde penicillina. Vecchie littorine, coi sedili di legno lucido: curano la scoliosi, diceva la Rosa miamamma, che trovava il buono anche in un moschino nel latte.
Littorine bruchi di ferro, sferraglianti di metallo, in forme arrotondate.
Il treno era Ferrara, fuori dalle rotte paterne, il treno era fare come aveva fatto la Diana miacugina, passare per i vagoni, cercare i posti giusti, darsi la matita negli occhi, con la Laura che ti tiene lo specchio, e anche il burrocacao, poi …poi…fare corsi di canto accelerato in nuove comunità di vicinanza. E scrivere con l’onda, che ti sbatte un po’ qua, un po’ là, l’ultimo compito dimenticato…

Andava così piano, il treno, che bastava mettersi nel primo vagone, scendere alla curva, quando quasi quasi si fermava, … al volo rubare, dai frutteti compiacenti oltre la ghiaia dei binari, le mele campanine, quelle dure spacca-gengive, infilarle nel maglione e di corsa risalire sull’ultimo vagone.
Catena umana di braccia a tirar su i temerari.
I ragazzi facevano così, poi, belli di mele e d’avventura, distribuivano i frutti con segrete strategie d’innamoramento.

Sarebbe stato giusto farle dormire al buio, le mele, perché s’ammorbidissero nella dolcezza dei muri, imparentate coi cachi, per strane leggi mai dimostrate.
Ma i furti richiedono sparizioni, così alle 7 e 33, nell’aria frizzantina del mattino, si mangiavano le mele.
Denti lucidi e succo di schiuma asprigna che chiama la saliva e fa venire un bruciore di gioia agli occhi .
In più, il sapore aggiuntivo degli sguardi.

Ciò che faceva preziosa la mela era il gesto che te la offriva, roba che capivi in pieno l’incavolatura della giunone con paride e tutto quanto.
Vedevano tutti chi riceveva la mela e chi no.
Mica era valido passarsela per dare un morso…: impossibile brillare di mela altrui, era la prima scelta che contava, erano gli occhi del trionfo di chi te la tirava o te l’allungava, più timido, o ti bussava sulla spalla.

A me arrivavano le mele del poeta, che non era svelto e si beccava le ultime, un po’ più rugginose e piccoline, con il sospetto inconfessabile che se le portasse da casa.

Il poeta era noioso, e con i capelli ricci che trattenevano la nebbia e il vapore. Però leggeva bene. Poesie scritte con la matita sul retro dei calendari, bei fogli grandi e un poco lucidi. I regali del tempo: quando i mesi volavano via, restava la pagina bianca da usare, dietro. Come scrivere sulla schiena dei giorni.

Le ascoltavo, le poesie, le mangiavo con le mele.
Sempre una lei che nella sera andava altera, sempre una lei con gli occhi scuri che ridevano e la pelle di porcellana, sempre una lei che non capiva e che il poeta voleva riempire di baci sulla strada lunga di pioppi…
Potrebbe anche leggerle a lei, mi dicevo io, quando incrociavo, interrogativa, gli occhi in galleggiamento del poeta.

Io avrei voluto altre mele e altri sguardi.

Arrivarono entrambi di sorpresa, a fare un giorno diverso dagli altri.
Non quelli che cumulano foglio su foglio.
No, un giorno individuo, nello scatto dal prima al poi.
Un giorno di vena azzurra, una crepa nel muro.
Un giorno in forma di mela d’ottobre.

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Colonialismo estivo

09 venerdì Ott 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 51 commenti

atto secondo

Le idee vendicative, chiamate a raccolta sotto un ombrellone a righe bianche e verdi, arrivarono sudate e un po’ cattive, al crepuscolo.
C’era da decider delle cose.
Pensare al qui e al là, con la testa persa nell’aria nuova del mare e nella preoccupazione della camerata, del bagno, della mensa, degli altri da guardare in faccia.
Su tutto, a ronzare come un calabrone, la voglia di dispetto.

C’è da sapere che a casamia solo due cose erano guardate con lo schifo: la gomma da masticare e gli orecchini messi alle bambine.
La prima era considerata troppo americana e poco sana.
Secondo la Dina mianonna, a furia di masticar saliva, s’incantava il cervello. Delle belle albicocche, veh…
Per mio nonno, invece, la questione era di principio. La cicca era una imbroglia-stomaco a tradimento; faceva uscir di casa i succhi che abitavano nei dintorni: poveri, arrivavano tutti contenti, dicendo qui si sta mangiando qui si sta mangiando, nella speranza di un crostino di pane, invece non trovavano niente, così diventavano acidi e facevano venire il brusacoeur.
Con tutto ‘sto teatro nello stomaco, c’era poco da provare.
L’altro tabù era finemente estetico: le bambine piccole, tutte infiocchettate d’oro, secondo le donne di casa, erano molto brutte, come delle vecchine formato mignon. Guai a bucar le orecchie, guai a infilar orecchini, guai.

Bene, la vendetta sarebbe passata di lì, tanto per cominciare.
Dopo una cena volutamente saltata e una nottata su un materasso di antiche umidità, la prima mattina di mare comprai in spiaggia la cosa più vicina agli orecchini e più lontana dai gusti familiari: una collanina di conchiglie piccole e di grani celesti.
Non farle prendere l’acqua’ -disse l’uomo che vendeva le cose.
(In effetti, ubbidiente, per quindici giorni non mi lavai il collo nell’area impreziosita)
E poi.
E poi subito, la stessa mattina, esaurii le mie finanze e feci il secondo investimento (differenziato): comprai dieci, forse dodici, quadratini di gomma, dei dadi rosa mono-gusto, che sapevano di cipria zuccherata e di fragola, un po’, e di caramella, un po’.
Con calma determinazione li infilai in bocca, tutti.
Effetto impastatrice intasata.
Mica riuscivo a masticare (neanche a parlare, neanche a respirare bene, se è per quello…): a guance gonfie come una criceta obesa, potevo solo mandar giù, ogni tanto, un po’ di saliva. Dolce.
Si sparse la voce: la bambina muta aveva mangiato un sacco di cicche e adesso le aveva tutte in bocca.
A semicerchio le altre guardavano con occhi sgranati la criceta umana.
Buone?- chiedevano.
Io facevo sì sì con la testa, molto felice.
Sputa- dicevano le signorine vigilantes spazientite.
Io facevo no no con la testa, molto felice.
Ci pensò, dopo un po’, la bambina spilungona del gruppo a farmi cambiare idea, chè tanto le ganasce cominciavano pure a farmi male.
Lo sai neh che santa lucia non esiste e che è tua mamma. Anche la befana– mi sibilò nell’orecchio, viperina.
Io naturalmente non sapevo.
La faccenda andava approfondita a voce e nello scambio: una tragedia nella tragedia.
Dopo una complicata operazione di estrazione ciccosa, cominciai a chiedere per capire bene. Per la befana, pazienza, ma, per santa lucia che la notte del 12 dicembre portava i doni con l’asino e tutto quanto, era dolore grande. Dunque vero niente: le letterine sante sul davanzale della cucina, i campanellini santi nel buio, i regali santi….macchè, solo cospirazioni casalinghe.

Vero che la solidarietà nasce dalla sofferenza: più debole dopo questa rivelazione, ancora più offesa con le donne di casa (non solo mandata in colonia, ma pure imbrogliata per una vita) mi avvicinai alle altre.
Lo scambio fu proficuo.
Imparai altre cose interessanti: il gioco con i cinque ossi di pesca appoggiati sulla sabbia, da far saltare e acchiappare per aria, alcune parolacce necessarie e significative, una conta (unci dunci trinci quari quarinci meri merinci un franc gess) e il passa zoccolo danzato con le mani…
Robe belle.
A casa non pensai più. Neanche scrivevo.

Ninina, stai bene? Mangi? Ti diverti? Cosa ti manca di casa?
La voce della Rosa miamamma, preoccupata dei miei silenzi, arrivò una sera nel telefono della direttrice.
Il panettone Pineta- risposi all’ultima domanda. Perché il panettone Pineta, un mattone molle e rettangolare che sapeva di panettone vero con tante uvette e pochi canditi, era una cosa meravigliosa. Si tagliava a fette: certi quadrati cedevoli e umidicci, morbidi morbidi, che si potevano arrotolare a fingere sigari di panettone o spiaccicare bene bene con le mani così diventavano ancora più larghi e sottili. Era meglio della gomma da masticare: in bocca resisteva uguale.

La mattina dopo, l’apparizione.

Reduce dal caffelatte con l’orzo, in fila per andare in spiaggia, pagliaccetto munita, vidi, incollate alla rete come alla grata di un confessionale, due sagome familiari che facevano cenno con la mano e chiamavano il mio nome.
La Dina mianonna e il mio zio preferito, bello e geometra.
Mi avevano portato il panettone Pineta. Anzi due. Tagliati a fette.
Venuti apposta.

Sentirsi amati riconcilia con la vita. Anche con la colonia.

Ora non era più così terribile sfilare, scorrendo lungo la tavolata, a fianco di piatti di minestra rossa e schifa, grondante di pomodoro.
In tasca avevo una fetta di panettone Pineta.
Antidoto molliccio a effetto rapido.
Felicità arrotolabile.
A lenta cessione di briciole. Nel tempo.

Ne facessero ancora…

Colonialismo estivo (tragedia in due tempi e una riconciliazione)

07 mercoledì Ott 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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atto primo

L’estate dei bambini, quell’anno, fu nel  bel mezzo funestata dall’avvento della colonia.
Colonia spartiacque ideologico.
Le amiche spedite a Riccione, in privato odor di parrocchia, con un gruppo di vigilantes signorine del paese,  all’ombra  del don.
Io a passare il mare con la pubblica colonia del comune.
A Igea Marina.
Perché avevo fatto la tosse cattiva, d’inverno. Quella secca secca, con retrogusto sonoro d’organetto.

Bisognava, dicevano in casa.
Non si poteva fare come quell’anno, a Viserba, tutti insieme. La mia estate subacquea.
(Perlustrazione della  fontana della pensione, fontana grigia con pesce rosso, caduta verticale, a testa in giù, per acchiappare il suddetto, salvataggio per acchiappamento di piedino  emergente da parte del nonno. Bello, anche l’intontimento acquatico successivo)

Il nonno ora aveva lo stringimento di cuore, quel dolore forte al petto  che chiamava le pastiglie col nome di gioco. Su Ninina, trentatre trinitrine tornavano da trento tutte trentatre trottando, canticchiava con me, dopo, perché  anche il male diventasse filastrocca e io non avessi paura di quel disco bianco e piccolino, che, pallido come la terra, metteva sotto la lingua.
Non c’era modo di fare le vacanze di famiglia, ecco.
E se non era felicità perfetta, almeno andare con l’Anna e suasorella, dicevo io, coi preti insomma, a prendermi la benedizione tutte le mattine e a cantare prostrati nella polvere davanti al santo altaaaaaaaaaaaaar.
Questo volevo, ma mio papà macchè, sempre a fare le cose diverse.
Così, mentre miamamma e miazia cucivano i numeri rossi su ogni vestito, su ogni costume e persino sui fazzoletti, a  me veniva la malinconia.
E barattavo.
Se sto a casa non scivolo più sul borotalco in bagno.
Se sto a casa non mangio più gli amici del sole.
Rinuncia grossa perchè quel trifoglietto dolce e brusco dallo stelo trasparente era quasi meglio della liquirizia e non costava niente, solo qualche scapaccione.
Le donne a testa china continuavano a puntare 3 , 1, 7 e a me non restava, allora, che giocare la carta del sentimento.
E se cado in una fontana?
E se mi fanno mangiare la minestra di verdura?
E se la sera mi viene il dispiacere?

Partii senza risposte, targata 317, con le donne di casa coccodrille che adesso piangevano giù dal finestrino della corriera. Fa’ bel Ninina, fa’ bel…
Ma la Ninina era inferocita e non sapeva più cosa dire fare pensare pur di castigare le artefici della partenza.
Sedile davanti, impettita, con la scrufna: occhi viperini sotto le sopracciglia a tettoia, non addolcita neppure dal vestito con le alette.
Neanche a guardare chi saliva dalle frazioni e dai paesi vicini: che nella colonia rossa del comune quelli di piazza mica ci andavano, allora c’era da ripiegare sulle forze di campagna, sui figli dei braccianti che sudavano in campagna. Altroché mare.

Si arrivò col vomito, sotto un sole scottone.
Dopo un viaggio murato. Col magone muto, quello che cementa dentro  i pensieri. Potevo dire, potevo fare…
E la testa piena delle canzoni urlate dai veterani della colonia: storie di briganti tristi che pensavano alla loro bella, di macchine del capo piene di buchi nelle gomme e di rumori, e di  porte che si dovevano aprire per farci passare.

La colonia era una scatola da scarpe, col coperchio rovesciato davanti, pieno di sabbia con striature di catrame: un muretto a separare l’altra sabbia e un mare color cacchetta.
Caldo grigio dappertutto e odore di minestra di verdura.
Era pomeriggio: ci fecero andare nella sala dei bagni.
Una donna senza sorrisi era lì, vicino ad una pila ripiegata.
– Prima di sistemare le cose negli armadi, mettete il costumino: uguale per tutti, così in spiaggia vi riconosciamo.
Un colpo al cuore. Un pagliaccetto a quadretti bianchi e rosa, con pettorina di pudore.
Arrivai ultima. Ultimo pagliaccetto raso terra.
Scarafaggio, grasso e lucido. Sotto la pettorina. A pancia in su. Un po’ nervoso.
Il mio urlo arrivò in cucina, scese in camerata, passò per la direzione e planò sui piedi della sorvegliante.
Per quel giorno l’orrido costumino rimase là.
Nessuno riuscì a convincermi del contrario.
Io, vestita di tutto punto, sotto l’ombrellone, a meditare una sussiegosa vendetta.

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