• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: Maggio 2011

Sorelle

30 lunedì Mag 2011

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 44 commenti

Bisogna pensare a certe strade che sembrano farsi da sole, in mezzo ai campi: un diradarsi improvviso delle spighe, che si tirano da parte per il passaggio di un carretto. 

Specie, bisogna pensare ad una strada bianca: il nome non deve far scordare i sassi, ma abbagliare, forte. Nei giorni di calura.
(Quando gli occhi si stringono alla luce e le cose si sfrangiano, dentro la fessura, scomposte dall’orlo delle ciglia. Pungono, anche, perché il sole qui da noi è argilla sminuzzata, polvere che si alza dalle cavedagne e aspetta l’acqua per drizzarsi in punte dure: piccole creste quasi risentite, unghiate di  ruote appesantite)

E bisogna pensare al pomeriggio che si cuoce lento, slana le gambe e le fa malate, col gonfiore a tendere, lucida, la pelle. La domenica.
(Quando la giornata ha una forma incerta e lascia il lavoro ad un trattore, giusto verso sera, perché, tanto, qualcosa si può ancora fare, se le donne se ne stanno quiete nella corte:  a parlare e guardare i gerani dentro le latte di conserva  o  maledire l’odore dei maiali nel porcile)

Poi bisogna pensare a due sorelle ragazze, sulla strada bianca, con la veste buona, che ha maniche a coprire, lo scollo piccolo e quadrato. Non si deve mostrare la pelle tutta scura, dice di troppe ore passate a trapiantare: l’acqua e limone si può, ma solo per le mani.

Stanno andando alla benedizione.

Una pregusta il senso di incenso e di frescura del primo passo nell’ombra della chiesa. L’odore dei gigli già trascorsi ancora appiccicato alle statue e ai legni delle panche. L’altare con i pizzi in devozione, preghiere fatte a tombolo, regalo del tempo e della cura a sanare peccati e desideri. Le tele stirate con lo zucchero, neanche la piega di un pensiero. E la giaculatoria coi nomi dei santi tutti in fila, che si smemora in lunghe cantilene, lunghe come il fiume, che tutto porta, tutto…Si sta protetti dentro quel candore e obbedire pare il solo gesto.

L’altra si leva le scarpe e le tiene entrambe per le stringhe. Dondolano in gioco, le scarpe, docili alla mano che segue una sua musica, lontana. Cammina sicura a piedi nudi, la Elsa. Non appena la curva della strada la salva dallo sguardo di sua mamma.
(Si laverà alla pompa con la spranga di ferro per timone, sul bivio del rosario, spigolando l’ombra della colonnina e basterà traversare di corsa il trifoglio per asciugarsi bene. Le scarpe salve da polvere e sudore)

Guarda e capisce, la Livia: Allora tu non vieni.
La Elsa fa no no e conta i passi che mancano alla Elge, che tiene il ballo, nella sala grande del caffè, con le pale al soffitto e il biliardo tirato da una parte, la limonata fresca appannata sui bicchieri. A pochi passi dalla chiesa., col prete avanti indietro, a vedere chi si perde e chi si salva.
La musica si sente da lontano, a favore di un alito di vento: violino, fisarmonica e piano verticale, pronti a straripare dai muri  della piazza. La Elsa si è tenuta le scarpe belle fresche, pronte per ballare, perché il ragazzo che le ha ben fatto segno in chiesa,  la mattina, di certo ci sarà. E saranno polche e mazurche e parole dolci nell’orecchio e quel senso di pienezza al petto.

A casa non c’è da dire niente.
La Livia lo ripete a voce bassa.
Ma già lo sa come andrà a finire: si arriverà più tardi, mute tutte e due,  la Elsa con gli occhi che sono ancora altrove.
La madre capirà col senso delle donne, altro odore sulla pelle e quel rosa che viene dagli amori. Paura, memoria e gelosia, a fare fitto, insieme.

Due schiaffi, uno per sorella.

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La bambina del treno

20 venerdì Mag 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

≈ 31 commenti

Mare.
La bambina doveva andare al mare.
Il dottore aveva detto che proprio bisognava: la tosse poteva peggiorare e le ossa chiedevano del sole, ché parevano fatte con la cera. Un sole mica di campagna, con l’umido che resta sulla pelle: un sole di vento e sale.
Bisognava, proprio bisognava.
Il posto c’era, là nella colonia: il dottore aveva insistito con le suore. Era uscito un sì di malagrazia, ma solo perché Sesto tagliava il rosaio della siepe, dopo l’inverno.
(Almeno vederla in chiesa, la bambina, qualche volta. Eh, in chiesa. Giusto ai funerali.
C’era un bel tempo per portarla in chiesa. Alle sei si era di trotto, a fare le giornate: persino a batter canapa nel macero, che non c’è fatica al mondo grossa uguale, no)

La Dilma era rabbiosa. Come quei cani che stanno alla catena e l’acqua è un po’ più in là. E non c’è verso. Neanche a tirarsi il collo.
Al mare servivano le cose: grembiuli leggeri, un costume, magari fatto a ferri, a maglie fitte fitte. La sera si poteva fare. Questo sì. Ma c’era da comprare un po’ di biancheria e cucire i numeri di dentro. E mettere la piccola sul treno, ché, gli altri, erano già partiti. Da andare fino a Ferrara.

La bambina si guardò intorno: il biglietto stretto nella mano, la valigia nella rete, sopra la sua testa, la carta dell’Italia con tutte le regioni, sul fianco del vagone. Scuro, col portellone che si chiudeva truce: uno schiaffo di ferro.
La busta dei soldi, in tasca, perché non si sa mai.
Guarda di portarli indietro tutti, aveva detto sua mamma
E la bambina, sì.

La campagna correva davanti al finestrino. Il gioco era aspettare il colpo sghembo, un nodo lì, sulla rotaia, o una curva ribalda all’improvviso, e sbattere qua e là: veniva voglia di accompagnare la scossa con i fianchi e ridere di dentro.
Però.
Il caldo, il giallo, il finestrino chiuso facevano venire una gran sete.
Passava il ragazzo con il secchio: le bottiglie ficcate dentro il ghiaccio. Aranciate con le gocce in corsa lungo il collo. Dovevano essere gelate. Lo diceva, il ragazzo, con grido modulato, ogni volta che passava in corridoio.
La bambina gli teneva dietro, con occhi innamorati di quel fresco, ma i soldi dovevano restare nella busta.

Il treno si fermò: il ragazzo lasciò il secchio lungo il corridoio, chiamato all’uscita da una voce.
La bambina fu svelta come non sapeva: la bottiglietta nascosta dritta, fra la schiena e il dorso del sedile. In un fermo egizio.

Tutto riprese, quasi come prima: tre vecchie dentro lo scompartimento, davanti a lei a parlare in italiano bello.
Forse un tribunale.
La bottiglia a fare freddo fra le ossa, e la carne, intanto, già incantata.
La sete a cementar la gola, con la parola ladra di traverso.

Il ragazzo passava e ripassava, col suo secchio e col suo grido uguale: a ogni giro, la paura rospa saliva su dal basso e si gonfiava, quasi il respiro fosse la sua pompa e, tutto il corpo, cuore.
La bambina avrebbe voluto scappar via, ma l’aranciata  si era fatta un nido di ghiaccio e di rimorsi, sulla schiena, e la teneva stretta.

Scese per ultima, dopo la vecchia che le aveva calato la valigia.
La bottiglia intatta sul sedile. L’ombra bagnata sulla schiena. La suora ad aspettarla sul binario.
Sei sudata, le disse.

La bambina della Morgana

01 domenica Mag 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

≈ 59 commenti

Come cerva che assetata
brama l’acqua di un ruscello…
Entrò cantando, l’uomo coi capelli grigi. Nella bottega attaccata al forno, con le spose a fare fitto, nell’attesa del pane.
La bambina vide suo nonno diventare allegro, come quando la domenica prendeva lo sgabello e andava a predicare sul sagrato.
Fu svelto a sciogliere il grembiule e a rispondere con l’abbraccio dello stesso inno, ma appena sussurrato,
così l’anima turbata
con speranza volgo al ciel.
E ancora si abbracciarono e uscirono insieme, nel cortile: la porta del negozio spalancata e le donne  a bocca aperta. Aspettavano coppie, crocette e schiacciata.  E invece lì, a far le statuine.
Doveva ben esserci qualcosa, perché Bigìn mica era uno da prendere e andare, senza dire né come né quando.

La Matilde  sbatté la cesta sul banco, quasi i baguloss  fossero cornacchie da stornare col rumore, e poi, giù, grandinate di pane nei sacchetti e neanche una parola.

La bambina era un poco incerta se tener dietro a suo nonno oppure no. Seguirlo era avere gli occhi della vecchia piantati nel coppino, ma stare lì, a guardarla,  era perdersi il nuovo.
Allora si mise con la scopa a spazzare briciole e farina fra i piedi delle donne.
Ah, che non mi sposo più, disse la grassa con la voce in gola, e le altre a ridere a ridere.
Fuori, fece la Matilde, tutta risentita.

Era quello che voleva. La bambina infilò tre piroette e traversò il cortile fino alla porta di lato del teatro, quella che dava sull’orto: suo nonno stava dicendo sì, che andava tutto bene, che si poteva fare, che non c’era bisogno d’aspettare. Allora l’uomo coi capelli grigi, la donna ed anche una bambina cominciarono a portare le casse nel teatro, scaricate piano piano dalla pancia del carretto.

Avremo i burattini domenica, in teatro. Ci costeranno niente, disse suo nonno, a tavola.
La parola niente regalò al suo piatto un altro mestolo di riso, che sua moglie elargì di buona grazia. La bambina prese quel gesto quasi per sorriso.

Dalla  porta piccola del teatro, veniva l’odore di chiuso, un fiato  di velluto vecchio e legno umido.
E  di polvere che usciva o entrava.
Un senso di segreto rivelato, ché, a vederlo di giorno, il teatro, era come entrargli nel fianco, con una fitta di luce a tradimento, quella che  mostra  macchie e crepe.

La bambina non era ben convinta che ci fosse del bello in quella cosa: si mise a guardare.
Sul palco, un baldacchino rosso, facile come nei disegni: una finestra, sotto un tetto appena profilato e i burattini con la testa bassa, poggiati a cavallo, come asciugamani.

La donna si sedette vicino alla bambina, coi gesti indicò la gola: era senza voce e parlava come con le piume in bocca.
Poi le fece ssssh.
E fu la fisarmonica, con una musica che non si era mai sentita, una musica che diventava tutta pelle d’oca e voglia di cantare e muovere le gambe, le mani, la testa.
Come  Fagiolino che cercava la sua dama.
La bambina aveva gli occhi grandi. Tornò alle prove ogni giorno, vicino alla donna con le piume in bocca.

La domenica, la Matilde era in prima fila, inquieta, con la poltrona vuota accanto. Dov’era la bambina? Dalla Ghelfa a comprare le carrube?
Poi il buio. E la fisarmonica. E una voce sottile, quella voce sottile che conosceva bene…

La fata Morgana
Sarà a te vicino,
Nessuna tema
Mio buon Fagiolino…
Corri, vola…
La principessa t’ attende
Da te dipende
La sua libertà.
Da te dipende
La sua libertà.

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