• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: agosto 2007

Carta da zucchero

16 giovedì Ago 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 43 commenti

Cosa c’era da stupirsi, in fondo, se, sulla carta stradale, il paese non c’era più.
Se la scala è alta, si scivola fuori. Se si è piccoli, poi…
Spariti, si era spariti. Ma già da trent’anni.
Erano partiti in tanti: saluti da Varese, baci da Biella e un calar giù di magnapui a ferragosto, per tener leggeri i pollai e castigare le ragazze.
Il paese strizzato contro la provinciale.
La golena vuota.
Le corti come zattere fra la plastica delle serre.

C’è che al bar si parla perché si ha la lingua in bocca.
Fa rumore anche un passero.

Avesse dovuto scriverla lui, la mappa di quella fetta di pianura, l’avrebbe fatto su un foglio di carta da zucchero, di grana grossa, che tiene il vento meglio del giornale.
Da giovane se la metteva sullo stomaco, la carta da zucchero, sotto la maglia, quando partiva assieme al freddo: motocarro Guzzi, grigio e carcassone, le sponde ad ali.
Piegata due volte: unta e bucata, passata col ferro da stiro, così serviva anche per la tosse.
Nell’andare, si crepava un po’ e sbiadiva, se l’aria era dura. Diceva se si era corso il  tanto o il poco.
Le donne lo aspettavano anche d’inverno ché, ai mercati, chi mai ci andava, in quei loghini di riviera, con la barchessa a squadra e le bestie in bocca, attaccate a casa.
E allora il Guzzi cercava le calate nella nebbia, giù dall’argine, con le scatole delle calze che ballavano dietro.
Arrivava nell’aia, lui, il Bindo, con un colpo di clakson: calze ed elastici, limoni e naftalina.
E cartine di uncinelli, maschio e femmina, a penzoloni dalle sponde.
Con l’odore della fumana attraversata di corsa.
Di corsa per modo di dire.
Andare forte non si poteva, con le curve della Bonifica e l’ansa piantata nel fianco dell’argine, davanti all’isola.
Come una mangiata di topo.
E la merce che sbatteva.
E poi coi sassi e con le buche:  ancora lì, dai tempi dell’argine incestato con le frasche e le reti di ferro, per tenerlo stretto.
Veh, tenerlo stretto.
Ma te lo dà lui, il Po.
Il Po fa quel che gli pare e gli vien da ridere, di notte, quando arriva con la piena. A questa gugliata di paesi, a debito: almeno un metro sotto.
Te lo dà lui, il Po.
Un bel fontanazzo a sorpresa, lì sotto la chiesa, per ridere in faccia anche a dio.
Schizzato per bene, a dire chi comanda.

Ah, la mappa. Certo: sulla carta da zucchero.
Quella sarebbe andata bene per scrivere i paesi che non ci sono più.
Su quel turchino grigio, come è il Po verso sera, certe giornate di grazia, che l’afa gli lascia i suoi colori.
Avesse dovuto scriverla lui, col gesso della galaverna l’avrebbe fatto, o con la cenere: per raccontare il freddo.
E con la farina gialla per fermare il caldo.
Perché le mappe hanno da dir qualcosa, ma non coi nomi. Cosa si fa coi nomi, che non dicono mai la verità. Spariscono e tu ci sei.
Servono dei segni.
Avrebbe tirato un bel segno bianco per disegnare la strada di terra e di brina.
E un bel segno più scuro per la strada di acqua.
Due righe storte e compagne.
E un quadrato avrebbe messo, in mezzo, fatto col carbone, per il paese  rimasto solo, fra le strade.
Già.
Paese di gente matta, scura dentro.
Scappato anche il prete.
Rimasta la chiesa in abbandono, con gli occhi spalancati e due dita di polvere e  di foglie, in mezzo al granoturco.
Con le mani sante, graziate, appese alle pareti.
E un piede d’argento, attaccato alla catena.
E un occhio.
Coi bambini a entrare di nascosto,  per sentire la paura.

Bel paese, però: col suo boscone di pioppi e zucche riccioline, a fare da sudario, verde, ai tronchi.
E tante calate, da graffiare con l’unghia sulla carta da zucchero.
A facile scomparsa, dentro il buio.
Tranne la più diritta, al cuore del quadrato.
Calata larga.
Il Bindo lo sapeva.
Fatta tante volte.
Per la corte dei milanesi.
Gran corte. La più grande.
Da scriver con un cerchio, nel cuore del quadrato.

Bisognava chiamare, per entrare: un palo a chiudere la strada.
Quel giorno no.
Eran tutti dietro il frumentone, ché mettevano grandine e c’era da far presto, con quel caldo poggiato sulle spighe, a cielo basso.
Quel caldo.
Aveva detto anche “con permesso”, nello spingere la porta, per lasciare gli elastici sul tavolo.
Dentro la cucina.
Ma c’era la ragazza con il busto nudo e la pelle azzurra, che si lavava con il mestolino, in piedi,  dentro la mastella.
E l’acqua era fresca sì, lungo la schiena.
Era fresca tutta, lì, quella cucina.
Azzurra d’acqua e di pelle e d’ombra.

Non lo sapeva che era stato il primo.

Bisognava farlo rosso, quel cerchio sulla carta.
Rosso.
E vederlo diventar color di violacciocca, al tempo.

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