• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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Un ettaro di cielo

28 giovedì Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Non so come dire  quando arriva un regalo inaspettato, specie in un pomeriggio pigrocaldo, sulla coda dell’estate.
In casa grattano gli infissi: una finestra, una porta, poi chissà, se resterà il tempo buono.
C’è polvere e rumore.
E io, poi, non so fare.
Allora al cine in bici, che qui c’è il festivàl.

Il primo film scende giù freschetto: mi ripasso un po’ Torino, gli amici che ci stanno. Ciò non è male.
Ma poi, ma poi… portato addirittura da lontano, spazio e tempo in combutta, Un ettaro di cielo.

Io neanche sapevo che esistesse, questo film, nato dal delta per mano di Guerra, Petri, Flaiano e Casadio, nel ’58, ma non dal delta di Visconti, quello col dolore dentro, la fame e la malaria: case di giunco tenute insieme con carta di giornale e colla…
Questa è un’operina che sa di tagliatelle fatte in casa, farina sbattuta con le uova, nella terrina rigata di verde, di pesce fritto all’aria, così buono.
Un Mastroianni giovane e la Schiaffino. La bassa che dà al mare, lì a Volano, i casoni, l’osteria e la fiera, da trombettina di Govoni, con la festa dentro, la donna cannone e i ciarlatani che vendono il sale (fa bene ai piedi e salva dalla atomica…).
Poi, i vecchi e i capanni, soprattutto: comunità senile, con sogni in gerarchia, che vive fra canne e ponti storti.
Uno raccoglie gli ossi di seppia e li carica in barcone, un vagabondo anarchico caccia le volpi, munito di un ombrello, tanto povero da avere solo letti in condominio, un altro fa barba e capelli sotto il sole, al modico prezzo di 1 anguilla o 3 anguille, a seconda del servizio.

Tutti lì ad aspettare il Severino, che arriva col furgone: professione rappresentante e uomo dei miracoli, giovane e spaccone, sguardo a trapano e mano che sa le strade delle donne.
Bugiardo e sognatore quel che basta per far ronzar di storie le teste dei vecchi.
Racconta di un mondo che non c’è: una città dove si vende il cielo.
Un po’ per via del sonno eterno, un po’ per speculazione: ché c’è traffico in cielo, non si creda, una cometa oggi, una stella cadente poi, un razzo che ti passa sotto i piedi. C’è pure da affittare, da far pagare pedaggio…

Scherza il Severino, con bonomia incosciente, ma i vecchi non lo sanno.
Se ne comprano un ettaro, di cielo, tremila lire e rotti nelle tasche di Severino, che crede sia un gioco innocente, da far camminare un po’, per allegria.
Ma han fretta di cielo, gli amici dei capanni: è meglio morire subito e far la vita dei signori prima che si può, poggiati alle nuvole, a riscuotere tasse di dogana.
Sulla barca, pietre al collo, cercano il punto per buttarsi giù: ma l’acqua arriva alle ginocchia e in compenso ci son tante anguille lì, ma tante tante tante. Fritte sono una delizia.
Mangiano e bevono i vecchiotti: s’addormentano sulla barca che piano piano scende a picco, mentre Severino, scoperta per caso l’intenzione, rema per tutto il delta coi custodi, con la vergogna d’aver troppo giocato con i cuori.

Finisce bene, come nelle fiabe: si fa pace, si trova l’amore, si torna a vivere, nella pancia del Po.

Resta la malinconia sottile di quel sorriso che non è ironia: l’intenerirsi all’ingenuità di certe creature senza male, che si contentano di sogni di seconda mano, prestati da un rappresentante con furgone…

(Però, …un ettaro di cielo non sarebbe male.
Io ci farei un allevamento di aquiloni.
E voi, amici cari?)

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La bottega di ceramiche

21 giovedì Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 68 commenti

C’era una bottega vecchia di ceramiche, nella strada sghemba.

Chiedeva scusa, nei giorni d’estate, per il sole incollato alle vetrine, per il caldo che, qui da noi, viaggia basso, all’altezza della gola e tira su gli odori di terra e di selciato. Come fosse olio giallo. Appiccicoso.
Gelosa del portico di fronte, caro ai clienti per certi abbracci d’ombra e abbagli di frescura, la bottega vecchia abbassava contrita la sua tenda e domandava acqua fresca sull’assito.
Schizzata da una boccalina azzurra. Per mano di padrona.
A tener buone polvere e calura.

Sapeva di piazza, l’acqua su quegli assi, di selci vissute e passeggiate, di cani a zampa corta, pelo bagnato e tiepido.
E sapeva di fiume, di riva selvatica al chiuso dei cespugli, di transiti di tinche e lucci nel fango, di vilucchio pestato.
Odore di zampate arancio.
Acqua non asciugata al sole, ma  poi risucchiata al fondo, dal  calore.

Pure, disegnava un lontano.

Allora pulivi i piedi ed entravi con un po’ di soggezione.
Come pestare tanta grazia in forma di arabesco?
Roba da cielo o mare, non da pavimento.
Mappe di isole segrete, costellazioni a spruzzo, trine di macchie, su passi di muti minuetti.

Una semina di dita delicate, una semina d’acqua e cortesia.

Nel silenzio di stoffa, scodelle a piede alto e damine di gesso pitturato diventavano regali del destino: tanta bellezza finita lì per caso, per accontentare un desiderio bambino…
Sembra vera, neh? Una meraviglia. Sì, costa un po’, ma piacerebbe anche a mia figlia…

Così compravi e ti sentivi addosso il bene di un’inattesa sorellanza, di una figlitudine adottiva.
E il fresco germogliato da un’antica gentilezza.

Pensieri di acqua e di terra

17 domenica Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 41 commenti

L’acqua è rimasta su, per ore, tenuta a bada da un cielo cinerino: gli si leggeva in faccia un rancore accumulato, da sospensione imposta e non voluta.
Poi di colpo, il livore si è disfatto: giù, gocce a corona, sul vetro, quasi un po’ ingiuriose.
E un senso lieve d’interna soluzione.

Piace la pioggia forte che si dice: non centellina più, né dilaziona.
Se ha da arrivare, arrivi: i giochi sono svelati.
C’è nulla, ormai, più da volere.
Se non questo sfuggire ad una obliquità.
Un trovarsi a chiedere catastrofi nel piccolo, rido fra me, obolo pagato al pendere precario.
La pioggia, il freddo vero, non truccato da un po’ di umidità, il buio alla sua ora…
Se han da arrivare, arrivino.

Si è tornati per l’argine, a salutare l’acqua con altr’acqua ancora.
E rivedere lavati certi borghi di costa, ai margini dei pioppi. (Con la pioggia, l’azzurro di vecchi  caseifici, crosta di verderame e calce, è  turchino vivo, da cartoccio di  zucchero d’un tempo)
E innalzare, ai lati della strada d’argilla, castelli d’acqua alta, che appassiscono scroscianti in un momento. (Pure la pioggia ha le sue morgane)

La terra, all’andata così dura, ora s’accorda all’acqua, si scioglie in goccia  e schizzo.
Cambia.

Piace l’umiltà della terra che si sfianca, mite.
Finché può, trattiene un filo, un guscio di lumaca, un sasso che luccica nel buio, poi lascia andare.
Apre le mani e s’ammolla.
Cedevolezza amica.
Tornerà ai bordi, dopo il suo viaggio d’acqua e vento.
Si riconoscerà terra in altra forma.

E noi?
Poter impararne, intanto, la docilità…

Via del centro

10 domenica Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 46 commenti

C’è una strada, qui: curva dolce e cuore scuro in un androne.
Ha un nome alto e libertario, ma ora basta uno sguardo e te la prendi tutta.
Le han fatto il pavimento nuovo. Piccole selci, irregolari come pestate di bambini.
A camminarci, senti la polvere dura che trattiene un po’ la suola.
Ci fosse gente, sarebbero altri i rumori.
Ma la gente…
O si accrocchia al caffè…(già si diceva: quel che resta di anziani mediatori coi numeri in testa e le donne negli occhi, di passaggio.)
O tira dritto veloce: c’è poco da comprare, ormai.
L’anima dei negozi non ha retto al centro commerciale: qualche bagliore di vetrina qua e là, poi pannelli, a chiudere gli occhi alle finestre, o porte nuove.
Se qui non si vende più, meglio abitarci: tende e tendoni aggraziano buchi di serrande.

Io lo percorro piano, quest’‘adesso’, insipido e ridotto, e mi resta il senso del vecchio cancellato.
Certi odori di cuoio e corde grosse che segavano la gola prima della pelle.
Certo umore di cipolla a fetta spessa che cuoceva unta nel pane.
Certo rumore secco di ferro sul tagliere, sul collo della tacchina grassa, la voglia di scappare perchè il sangue…, il battente di una porta semovente, così pesante per mani di bambina…

Ha un doppio, questa strada sghemba, qui, nella memoria: le voci, i segni, i gesti delle botteghe morte scorrono sottili dentro le mie età.
Sono quell’altra sponda.
Come vedere, dietro la vetrina di zeppe e sandalini, la porta in fondo, che non dà sul magazzino, ma su pezze di stoffa e giocattoli a molla…

Paradosso del vivere pensando: le due rive del tempo si guardano e si chiamano, presenti nel luogo dove ho pianto e camminato, inciampato in un sasso e sussurrato.

I ricordi sono le nostre tracce, le briciole che, per ritrovarci, abbiamo seminato.
In gara con la chioccia che becchetta alle spalle, grano dopo grano, questa nostra vita.

La Maria mistica

05 martedì Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 45 commenti

(degli scudi celesti)

La Maria mistica si riconosceva da lontano: sbucava dalla piazza della torre e andava verso il viale, da certe cugine centenarie.
Soprabito grigio che pareva taffetas, se c’era fresco e se c’era caldo.
Colletto largo col bottone grosso.
Camminava, poi si fermava a interne tappe, in risposta ad un fiato pellegrino.
Aveva tante parole in arretrato: a pubblico sparito, se le contava piano; per spiegarsi bene, interrompeva il passo, all’ombra di robinie al suo servizio.
Fermava i capelli con la fascia a nodo: meno di un turbante, più d’un cerchio d’osso.
E, da attrice, li teneva lunghi al collo, aperti e spampanati, vecchie chiome che, persa la memoria di ricci e permanenti, s’erano fatte stoppa.

Con sé aveva sempre la bibbia, con la croce incisa.
Dentro la borsa a rete, della spesa di verdura: quella giusta per le cipolle, che prendon aria e poi non gettano.
Dentro la sporta di bottega, vicino al libretto per mesate, unto nell’angolo a disegnare l’isola dei debiti, diceva.
Dentro la busta di pelle, tenuta sotto il braccio, buona per la messa, ché non è d’ostacolo al bastone e prende poco posto.

– L’è la me Banca, – amava dire, mostrando il libro, con la croce e tutto, ai  sospettati di dimenticanza – la Banca del… (col dito puntato ad ammiccare al cielo, dubbi non c’eran più: banca di angeli in coro, banca beata di celesti, fra rose e nuvole santissime)
Perché lei, la Maria mistica, era donna di miracoli: sentiva la mano buona sulla testa, la carezza di tutti i santi proprio lì.
signur signur signur, era giusto sapere…
C’erano stati i ladri, ladri zingari – lei giurava e spergiurava- zingari, perché niente d’argento, che porta dolore, niente di perle, che son tutte lacrime, avevano portato via.
signur signur signur, era giusto sapere…
Nella casa rovesciata, dove l’oro già se n’era andato per patria ed altro, i ladri zingari avevano cercato e ricercato solo il denaro: nei cassetti con la lingua fuori, nelle tasche dei vestiti, nelle pentole della cucina…
ma, signur signur signur, mica avevano aperto la bibbia.
Eh, la bibbia.
Ché i soldi eran tutti tutti lì: ripiegati in ordine stirato, tanti bei fogli da dieci, larghi e rosa.
Quel che c’era: per la bottega da pagare, per la legna da bruciare, per le tombe da pulire, per il calzare e il vestire…
Miracolo celeste e generoso.

Ma al paradiso non si bussa due volte, no…
Allora, in qualche luogo segreto la scorta dei biglietti salvi.
E la bibbia con la Croce, lo Scudo universale…
Come la si poteva mai lasciare?
Insieme, sempre insieme.
Giorno dopo giorno.

Persino in cabina elettorale.
Scudo e croce guidavano la mano, oh, se guidavano la mano…

:)

La birichina del duce

02 sabato Set 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 35 commenti

Di lei si ricordano le mani: due copie di pane, coi tagli nei bordi.
E la faccia scivolata in basso: di bello neanche gli occhi o la pelle, scura nel naso e attorno alla bocca.
E la parlata, svelta svelta.
E la fretta.
Sempre andare, sempre fare, anche se non c’era famiglia da accudire, né pentola da mettere sul fuoco: solo chiacchiere e gerani, da scambiare.
In giro, bicicletta e un brio scattante nel collo, anche vecchia, quasi in risposta a un’interna fanfara.
Perché, lei, ragazza, era stata benemerita massaia rurale.
La più benemerita.
Con l’attestato.
E nell’adunata in città, quando aspettava e sperava sfilando e cantando davanti a Benito, con orgoglio aveva teso le braccia e mostrato il grembiule e le spighe e le spillette di merito.
A lui, al duce.
E quello, preso da tanto giovanile e campestre furore, l’aveva carezzata sulla testa.
“Birichiiina…”, le aveva ripetuto, due volte due, accostandosi vicino vicino, benevolo e un poco marpione.

Mille volte la storia fu raccontata e mille volte la distanza fra l’augusto labbro e il trepido orecchio fu raccorciata.
Tanto tintinnò quel birichiiina che il nome della donna andò smarrito: nell’erba di qualche cavedagna, in qualche spiffero di madia, in qualche pietra di mulino.
E col nome si perse anche la vita.
Non ci furono nozze né mani d’uomo, nel sogno di un niente accaduto.
La benemerita massaia rurale rimase per tutti, sempre e soltanto, la birichina del duce.

Ché le formule acchiappano le cose per metterle in gabbia.
O in croce.

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