• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: novembre 2007

Spagna

25 domenica Nov 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

≈ 35 commenti

Qui da noi c’è un sogno senza età, che ormai cammina assieme alla persona.
Si fanno buona compagnia.

E’ un innocente sogno un po’ spagnolo, di affabile signora d’altri tempi.
Suggerito dal nome, che taglia l’aria, in fondo, con coda sibilante.
Annunciato dal rosso delle labbra, dal guizzo dell’occhio ben segnato.
Poi coltivato, come un vizio fino, nei capelli. Blu-corvini, incuranti del cenno bianco e contrariato delle tempie.

Ora il sogno si è accampato.
Ha preso casa fissa e se la sta arredando. In forma di vestito. Con le balze. A strati fitti fitti e colorato.

L’ho visto affiorare stamattina, rosso, dall’orlo di un cappotto, mentre pioveva grigio.
Un sogno sorridente con l’ombrello.

A ridare una speranza à pois.

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La misura del tempo

13 martedì Nov 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 54 commenti

Tag

pareti

A dialogare con l’idea di Effe e altri ancora

A sacchetti riempiti, a cagne addestrate, a sogni infeltriti, a camicie orlate.
A mastelli ingrigiti, a fave sgranate, a vestiti imbastiti, a gattine figliate.

Il tempo in casa  si misurava così, con una filastrocca di gesti e sensi che lo tritavano a piacere.

La Dina lo pestava sull’asse, assieme al lardo, all’aglio e alla cipolla.
Il battere secco diceva la consistenza e la resa delle cose: era la pendola del risveglio della casa.
Accompagnava la mattina tonda, che non è l’alba e neppure il quasi mezzogiorno.
Quando la pistada diventava lenta e filosa, anche i bambini erano già lavati.

Nella stessa stanza la Iris batteva il tempo con la macchina da cucire, per altro tedesca e segaligna. Sotto la cassa di legno il piede andava su e giù col pedale, mentre sul piano la mano correva avanti e indietro per spingere la stoffa verso il piedino dell’ago e ammucchiarla avanti.
Il tempo di sotto respirava e cigolava di fretta, il tempo di sopra si gonfiava in sbuffi di stoffa cucita, quasi gobbe cammellate percorse dai punti. Anche a catenella.

Nelle stanze da letto il tempo era sbattuto e sprimacciato dalla Rosa: strappato dai letti, messo alla finestra, fatto volare in forma di piuma dai cuscini, con colpetti che scandivano Luna tu sai tu dirmi il perché e liberavano i sogni della notte.

In sottofondo, il tempo diventava scattoso e rauco perché lo misuravano i gargarismi del grande vecchio, prima del caffè corretto con la Ferrochina Bisleri: almeno sei schiarite, quante ne consentiva il bicchiere. In bagno, dove certo era restata traccia del fischio sottile dell’altro uomo di casa, che fischiava solo alle soglie della giornata: alle prese con la barba del mattino e con il rientro della sera, dietro il vetro della porta.

Aveva brusio di sciame, il tempo, con le rime e le pause del fare.

Ora la mia misura è il rammendo: pieni e vuoti.
Rammendo le voci che mancano.
Stendo bene i lembi degli strappi, ché le carezze servano a qualcosa.
Chiedo ai fili di rafforzare il liso e gettarsi oltre il vuoto.
Coll’ago o con la pagina fermo quel che c’è.
Anche le voci più piccole, anche i respiri.
Censisco il tempo: so le domande.

Riparo e fingo, anch’io sul filo.
E continuo la filastrocca.

A forme pensate, a racconti cuciti, a carni brasate, a ombrelli smarriti.
A leghe spianate, a vasetti bolliti, a speranze glassate, a steli fioriti.

Conserva

02 venerdì Nov 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 52 commenti

L’estate poteva ben avere questo profumo di pareti ritinte, o il colore tenero di muri sirena, ma se un colore doveva imporsi sugli altri, se un odore doveva straripare, ad accorpare giorni sempre uguali, quello era il rosso. Della conserva di pomodoro.
Un grosso di forze, richiedeva, che aveva corrispondenza solo nella lavata di primavera, quella con i paioli fuori e lacenere dell’inverno, e con la liscivia quasi turchina, in certe venature.
Un dispiegamento di vasi di vetro usciti da profondità nascoste della casa, forse dalla dispensa, che si prolungava in un sottoscala orrido di ragni solo immaginati.
E stracci, stracci per avvolgere i vasi perché non avesseroa tintinnare, a urtarsi, quando il bollore inventava scoppi di caldo e impennate di schizzi.
Con mani di sangue lavoravano la Dina e le nuore, stanche e accaldate.
L’odore si accampava nella casa, perrestarvi. Acido e dolce, insinuante e vischioso, capace di bucare il naso e lo stomaco. Un languore cavo era il regalo del pomodoro, che si strozzava nelle unghie del tritaverdure, e si gonfiava in bolle compatte nel pentolone in cui sobbolliva.
Erano giorni di agitazione, quelli della conserva. Venivano convocate zie e cugine, persino la nuora lontana, in un concitato desiderio di sfidare il tempo.

Non so quando lo capii. Forse ne ebbi la certezza leggendo lo sguardo con cui la Dina fasciava di dolcezza le sue bottiglie piene. Non c’entrava per nulla la gara quotidiana dei sapori, per far dire agli uomini di casa, quando c’erano, “che buono!”
Dentro alla stanchezza di giornate spese a trinciare e a salare e a pesare, stava tutta la voglia di battere il tempo, di aggirarlo, di chiuderlo in un barattolo.
Conservare, tenere da parte un vasetto di colore, una bottiglia di sole, una cucchiaiata di odore.
L’estate, da riaprire in inverno: metamorfosi di una giornata di nebbia, schizzata col rosso del caldo, della luce.
E’ che avivere in pianura, con la nebbia che già ad agosto ti aspetta la mattina presto, si diventa un po’ matti, o bisogna esserlo, un poco, per inventare.
Indovinare le cose dentro la nebbia è come scoprire il sapore dentro una bottiglia.
Un sapore di vetro che cammina all’indietro e va a scavare una scia. La percorrerà chi ‘ha segnata, chi ne ha posto, dall’altro capo della memoria, il primo sasso. Ma anche chi è stato dentro lascia, testimone o fattorino, compagno o ospite di un’estate rossa rossa di conserva.

La nuora lontana, quella fuori casa, arrivò aggrappata al vespino del figlio giovane della Dina, bello e geometra, il primo ad avere studiato a scuola in casa mia. L’altro aveva studiato sfogliando strade e libri di partito. E l’altro ancora non c’era più. Si attendeva sempre con manifesto piacere l’arrivo di questi zii perché portavano l’eco di una cadenza ferrarese nel parlare e regalavano il senso del lontano, del quasimare, dove, d’estate si poteva andare.
Lei, così bionda, teneva i capelli con il foulard chiaro non annodato sotto il mento ma stretto dietro a fasciare il collo, come la Loren in un film.
Il vestito bianco col collo sciallato sembrava la cosa più lontana dalla conserva che potessi immaginare, era tutte le cose buone e candide del mondo.
Miamamma si lisciò la sua vestaglia scura di pomodoro, prima di salutare la cognata, col dispiacere di farsi sorprendere così, in quella domenica laboriosa, col vestito brutto che non aveva fatto in tempo a cambiare. E addosso il forte della salsa che si rapprende.
Il vestito bianco liberava, invece, un odore felice. Dopo tanto rosso, dopo tanto acido…
Quando abbracciai la zia fui sicura: cose e odori potevano avere complicità, il colore di un vestito sapeva restituire la sua promessa di profumo, quasi di gusto, senza inganni. Dolce su dolce, bianco su bianco. Segreto o sortilegio di pelle. Invisibile.
Finalmente la pace fra cose e odori e sapori, giocata a un crocevia di latte o di giglio, di cipria o di schiuma.
Stretta di pelle fresca e nuvola chiara nel naso, l’abbraccio.
Dentro c’erano tuberose zuccherate, gardenie candite, fra pareti color di crema.
Conquista di armonie, “leggere e vaganti”.

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