Il 19 febbraio scorso, qui da noi c’era tanto freddo: la mia casa, dopo una nevicata tardiva, non riusciva a tenere fuori certe lame sgarbate. Non ce la faceva a diventare lana, perché il freddo, se non trova sufficienti fessure, se le inventa.
E la mia casa di fessure ne ha già tante, di sue, vecchio guscio che non nasconde l’età. Figuriamoci se riusciva a tener fuori influenze e raffreddori.
Non c’erano neppure le luci del viale, quella sera.
E bisogna provarle le luci del viale, per capirne la compagnia: quando scrivo, le intravedo dalla mia finestra, accanto a questa finestra accesa, coi suoi Pesci di Nebbia…
Il dentro, il fuori e il lontano. Il bordo del mio viaggio.
Guardando il buio del viale spento, mi veniva da pensare che “le parole non si spengono mai, a maneggiarle con cura”. E che “ la dolcezza passa anche attraverso il regalo di una rima, che tintinna sul palmo delle mani…”
Ora mi viene da pensare che la dolcezza, anzi la “dolzura” prende avvio da un “clic”, vero Stepa? Vero, amici? Amici. Parola bella che attraversa l’aperto e il puntiforme, passando per la morbidezza.
Un clic-portadolzure, che aiuta a fare mazzetto di tutta una serie di pensieri-emozioni messe insieme in questo percorso lungo un anno.
Vi racconto una storia.
Una di quelle che galleggiano da queste parti nei viaggi in macchina fra la nebbia per andare alla città più vicina (…a pensarci bene, son le distanze che regalano le storie ed è la nebbia a chiamarle fuori, come una sirena. Nebbia porta-racconti, sfumata e gentile).
Selvino è un vecchio, come mio padre, giusto qualcosa in meno. Abita nel paese più in là, quello delle due fedi e delle due chiese. Ha spostato tanta terra con le mani e non ha molte parole. Per avere il tempo di cercarle, si ferma su una lunga e la ripete sempre, come se fosse una briciola per i passeri.
Mi ha detto una volta che i suoi, da bambino, lo avevano prestato per un po’ a della gente con la terra, perché lavorasse e mangiasse in quella casa, naturalmente. Tornava ogni tanto con la corriera blu, che lo metteva giù all’incrocio, naturalmente.
Tornò dopo un mese, la prima volta, una sera che c’era la neve e all’incrocio un odore di fritto buono, quello dei pincini che si fanno in casa a salutare una nevicata.
Il bambino pensava, naturalmente…
Se fossero a casa mia, i pincini, sarei capace di mangiarne cinque. Ma ci dovrebbe essere lo strutto in casa, e la farina bianca…Invece in casa c’è solo l’acqua per la polenta…
E camminava, naturalmente …
Se fossero a casa mia, i pincini, sarei capace di mangiarne dieci (perchè la strada nel freddo mette appetito…).
E l’aria era grassa di fritto dolce e di desiderio.
Erano proprio in casa sua i pincini, perché la madre aveva barattato due uova per un po’ di farina bianca e di felicità. E il vecchio si commuove a ricordarla.
E io mi commuovo a pensare che ieri è stato come trovare quaranta e più pincini caldi, preparati proprio per me, per rinnovare il piacere dell’incontro e dell’odore lasciato nell’aria fredda, che diventa, all’improvviso, un rotondo barc col cappello di legno.
Clic ( grazie grazie grazie grazie…..a tutti tutti tutti tutti con un abbraccio )