• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: ottobre 2005

Parole e nomi

27 giovedì Ott 2005

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 64 commenti

Parole e nomi di una casa bianca e gialla.

A convincere che la terra è specchio di altro sono i segni dopo la pioggia.
Triture di zampine nel fango.
Righe azzurre, storte e luccicose, fra scavi di nutrie e resti di granturco.
Parole, che han preso l’acqua, ora stese sul filo del bucato.

Molti segni stanno fitti nella casa bianca e gialla.

Nella casa bianca e gialla arrivi  se dopo la pioggia ti è rimasta la nostalgia di una nuvola e del suo singhiozzo.
Se la terra s’è arresa con tale piana apertura che chiedi a un albero il racconto dell’alto.
(Giusto per spargerne la voce o la speranza. Un noce per dire alla valle, un salice per dire alla  golena)

Nella casa bianca e gialla arrivi se ti vien voglia  di stare come un fiore in fresca.

Lì il mio amico ascolta le meraviglie dei felici e le fissa sul pentagramma con l’inchiostro.
Così sono musica e rose.
E basta.

E’ l’amico delle fiabe sotto la porta.
Delle poesie latinate in pastello.
Dei rami di ciliegio a fare la compagnia del muro.
Delle parole che bisbigliano nelle ceste.

È l’amico che ha aperto la porta ai Tre Giardini (balenavano fra la strada e l’argine).
I Tre Giardini han detto grazie e sono entrati nel suo nome, con il profumo dell’enothera e fianchi morbidi.
Alberi e parole, note e passeri si son confusi nella casa bianca e gialla di Tregiardini. o, forse, nella sua anima vegetale.
Ancora si scambiano cose.
E nascono poesie così. Arrampicate all’aria come i convolvoli.

delle parole

Esisterono voci dell’aria
Non significavano erano annunci
Le alte rincorrevano le gravi
Le gravi si davano per vinte

Scorzuti alberi le innamoravano
Echeggiavano le casse d’armonia

Vennero gli umani ad assediare
Le voci allegre a prorompere a fuggire
Gli alberi a fantasticar di braci
Alla sorte delle braci si legò la poesia

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Rarefazioni

20 giovedì Ott 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 76 commenti

È una sera liquida.

Non piove, però.
Solo gronda umidità.
Non si fa goccia né forma, quest’acqua diffusa.
La vedi obliqua e spezzata, nell’aria, senza compiersi.
Picchia sulla spalla, come un avvertimento, poi si dilata e si sfibra, a mezza quota.
Svapora e si perde.

Misteri che accadono in quella terra di nessuno, troppo bassa per gli uccelli, troppo alta per i fiori, indifferente agli uomini, che nulla fanno all’altezza del petto se non ascoltare il cuore.

Resta l’asfalto umido, fra bordi irregolari e opachi.
Un lucore immotivato, neppure richiesto da questo buio senza luna.

È così che la vita raddoppia.
Specchiata.
Uomini fanti su una carta da gioco.
Fari  che sgocciolano.
Due versi, due capi, una stessa svolta.

La riga, che separa la cosa e il suo doppio, trema e vacilla.
A quale mondo apparterranno mai i pensieri?

Vita da olive

13 giovedì Ott 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 81 commenti

Il grado di costipazione della vita a regime di una prof, dopo il limbo dell’orario provvisorio, nella sequenza a raffica di riunioni assortite,  è indicizzabile attraverso diversi sistemi di misurazione, tutti di comprovata attendibilità:

– il numero delle uscite degli allievi, sopportato col sorriso, prima di sbottare nella frase (pronunciata con voce querula)…. “ehm, veramente io starei spiegando…” (il nervosismo sale);

– la crescita esponenziale dei pacchi di verifiche che giacciono sul tavolo, pallide nella loro assenza di segni distintivi, crescita direttamente proporzionale alla lievitazione dei sensi di colpa e alla richiesta delle creature: “prof, ha corretto i compiti?” (la prostrazione incalza) ;

– la mole di camicie da stirare: languono con quelle loro pieghette malefiche che ogni giorno affondano un po’ di più, un po’ di più, eterne, ormai, già votate a futura indifferenza verso le mosse surriscaldate del  ferro a vapore (è il trionfo dell’accidia).

Altri indizi disseminati per casa (quelli che fanno temere visite investigative dei rami donneschi – anche cadetti-  dell’albero genealogico) sono indicativi, eppure non valgono quanto la prova delle prove: la progressiva incombente riduzione dello spazio abitativo del mezzo di trasporto.

L’auto di un’insegnante si riconosce subito: ha la polvere raccattata in tutti i parcheggi di fortuna passati in doviziosa rassegna quando si è in ritardo e   il suono della seconda campana arriva come una ferita non rimarginabile…
Allora appoggeresti l’auto ad un albero, in piedi sulle due ruote posteriori, la camufferesti da grosso scarafaggio, per lasciarla a zampette all’aria davanti al chiosco, tutto pur di non dover subire lo sguardo di riprovazione della bidella di turno. (C’è chi inventa malori irreversibili pur di elemosinare un po’ di comprensione…)

L’auto di un’insegnante si riconosce subito perchè fa di tutto, all’esterno, per non essere riconosciuta; in genere ha un colore tristanzuolo per non destare l’attenzione. Vuole essere dimenticata, soprattutto dagli allievi, in particolare da quelli che mostrano una smodata, quanto immotivata, attrazione per le incisioni rupestri.

L’auto di un’insegnante si riconosce subito soprattutto dall’interno: i sedili di secondo livello sono invasi da un’orgia di libri, quaderni, penne, sportine di panni da portare in lavanderia, pacchetti di sale per il grande gelo (lasciati lì dall’anno scolastico precedente), fogliettini, un tempo volanti, ora appiccicati in pianta stabile alla tappezzeria e forse avviati ad un destino di fossilizzazione, avvisi stropicciati, dépliants, elenchi di riserva, resti alimentari di fugaci colazioni, rossetti ossificati e ossidati per restauri di fortuna, (qualche auto di colleghe festaiole ha pure l’ arbre magique con decori natalizi, tanto da settembre a dicembre il passo è breve)… Ma ad operare una vera minacciosa colonizzazione dell’abitacolo sono le carpette, portate a casa in un attimo di zelo/orgoglio didattico e poi lasciate lì, a vendicarsi, durante la notte… Una volta sole, si moltiplicano, come i pani e i pesci, si gonfiano, complice l’umidità, e spostano lentamente i sedili in avanti  in avanti…facendo leva su metallici e scattosi anelli… Invadono, rosicchiano, incombono …

E così, oggi, alle sedici e trenta, salendo sull’auto di una giovane collega, ormai anch’essa in ostaggio di fogli volanti e carpette avanzanti, mi sono trovata praticamente incollata al parabrezza: naso camuso al vetro, spazio vitale ridotto a zero.

È solo ottobre. E noi già lì, come olive schiacciate contro il vasetto.
:)

Mi chiedessero

07 venerdì Ott 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 83 commenti

Mi chiedessero come nascono le storie, stasera (solo stasera, forse) non avrei dubbi.
Sono dolcissimi moti stagionali, basse maree di freddo, a creare derive, strisciate di racconti.
La colpa è della memoria.
Quando piove, grassa chioccia, raduna sulla spiaggia gli attimi già usati, con materna indolenza.
Li spinge con l’ala, uno dietro l’altro o fuori riga, in ordine sparso.
Al caldo, comunque. Perché asciughino.
(Quelli  umidi fanno malinconia, diventano appiccicosi: non rotolano come le biglie, s’incantano su tasti dolorosi…)
Così i ricordi viaggiano tiepidi e s’impigliano nei nomi e nei pensieri: sono già storie a domino, ad incastro, complici certi goccioloni, la gatta sfinge sotto la coperta, la scatola di foto che mia madre rovescia sul letto.
“Mah sì, questo l’è Rnestu Strin. Quello della casa prima del Boscone. Sulla curva. Quello amico di Buter. Ti ricordi, la fionda…”. Mio padre riconosce e chiama nel cerchio.
Non posso ricordare la fionda, servita a fine pasto, assieme al budino come un trofeo da ringraziare, a chiudere una cena densa di arretrati e di polli rubati con destrezza.
Non posso.
Conosco i fatti, ma non c’ero.
Negli anni, è già passata sulla tavola, la storia, nascosta dietro ad ogni  arrosto. Ha costeggiato l’argine nei giri in bicicletta. È spuntata dietro ad ogni Ernesto apparso a casa nostra. Ha condito racconti di pranzi succulenti o capricci di bambini con lo sguardo impermalito dal cibo proposto e rifutato… Fionda ribalda, giustiziera, nel nome della fame, di pollai inviolati e contadini avari.
Non basta: mio padre chiede complicità al ricordo.
Una presenza.
Mi chiede di essere lupus in fabula: coetanea, con lui; vicina ai suoi nomi che frastornano e fanno sciame; amica dei suoi amici, che hanno soltanto un viso di carta o di parole.
Non posso ricordare la fionda, come non ricordo la nonna ad attenderlo ragazzo, con la rama di salice (carezza un po’ spinosa sulle gambe), dopo una gara di bicicletta, vinta ma non annunciata…
Viene voglia di chieder scusa per questo non esser dentro, per non sapere i nomi che dimentica e cerca, con una risatina imbarazzata; viene voglia di chieder scusa per essere stati bambini e ragazzi in tempi diversi.
Resta da fingere la dimenticanza.
“Raccontami raccontami, ché non la ricordo bene la storia, sai…”  E intanto mia mamma, con gli occhi viperini e divertiti, guarda in alto. “Ancora!”- pensa, ma sta al gioco.
Fuori piove.

Primo ottobre

01 sabato Ott 2005

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 87 commenti

Stamattina è il primo ottobre.
Per un qualche strano gioco di vento, arriva l’odore dell’unico zuccherificio ancora in vita, a venti chilometri di distanza.
Entra per la porta socchiusa dello studio piccolo e lo sento, assieme all’aria fresca.
Non è ortica.
È un odore cattivo, ma conosciuto e amato.
Avesse il suo rumore di accompagnamento (un clangore di scalpellii) o almeno la sirena delle otto… (un soffio maldestro nella vita: troncava le parole a metà e metteva una fretta con gli spilli)… Sì, ci fosse almeno quella, sarebbe come allora.
Come quando, piccolina, andavo a scuola, il primo ottobre, la cartella che sbatteva sulle gambe e il gelo del grembiule nero che pure sbatteva, sulle braccia.
Sui batticuori dei primi giorni di scuola, sapevano essere così gelidi i grembiuli neri: non stavano nel caldo dell’armadio, ma passavano la notte ben sistemati sull’attaccapanni dell’ingresso e se la tenevano addosso. Il tiepido del letto cacciato da una corazza dura… Pelle d’oca a rilievo.
Ci aspettavamo fra bambine, in ordine di luogo: e io sempre in ritardo, sempre in ritardo, perché i colori sparivano all’improvviso e la penna pure, e la riga fra i capelli era storta, e perché la Iris miazia mi lasciava il bacio col rossetto: la Rosa miamamma mi sfregava la faccia col fazzoletto inumidito di saliva, per un rimedio frettoloso, e a me veniva lo schifo e tornavo di sopra a rilavarmi… E, ancora, perché mianonna mi rincorreva con lo zabajone… che zabajone non era: solo uovo sbattuto con l’albume a schiuma. “Lasciatela mangiare, ‘sta bambina”.
Uscivo, con la coda di bambine che sbuffavano e la sirena delle otto negli orecchi, una sirena-scivolo che durava nell’aria il tempo della corsa fino a scuola.
Ci inventavamo i verbi per strada, come una canzone.
Io giardino tu giardini egli giardina…
Io nuvolo tu nuvoli egli nuvola… .no, ella nuvola…
Tanti verbi per far muovere le gambe e le cose.
Coi pensieri arricciati a risatine.

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