• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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Agosto 2

21 domenica Ago 2016

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L’estate poteva ben avere questo profumo di pareti ritinte, o il colore tenero di muri sirena, ma se un colore doveva imporsi sugli altri, se un odore doveva straripare, ad accorpare giorni sempre uguali, quello era il rosso. Della conserva di pomodoro.
Un grosso di forze, richiedeva, che aveva corrispondenza solo nella lavata di primavera, quella con i paioli fuori e la cenere dell’inverno, e con la liscivia quasi turchina, in certe venature.

Un dispiegamento di vasi di vetro usciti da profondità nascoste della casa, forse dalla dispensa, che si prolungava in un sottoscala orrido di ragni solo immaginati.
E stracci, stracci per avvolgere i vasi perchè non avessero a tintinnare, a urtarsi, quando il bollore inventava scoppi di caldo e impennate di schizzi.
L’odore si accampava nella casa, per restarvi. Acido e dolce, insinuante e vischioso, capace di bucare il naso e lo stomaco.Un languore cavo era il regalo del pomodoro, che si strozzava nelle unghie del tritaverdure, e si gonfiava in bolle compatte nel pentolone in cui sobbolliva.

Erano giorni di agitazione, quelli della conserva. Venivano convocate zie e cugine, persino la nuora lontana, in un concitato desiderio di sfidare il tempo.
Non so quando lo capii. Forse ne ebbi la certezza leggendo lo sguardo con cui la Dina fasciava di dolcezza le sue bottiglie piene. Non c’entrava per nulla la gara quotidiana dei sapori, per far dire agli uomini di casa, quando c’erano, “che buono!”

Dentro alla stanchezza di giornate spese a trinciare e a salare e a pesare, stava tutta la voglia di battere il tempo, di aggirarlo, di chiuderlo in un barattolo.
Conservare, tenere da parte un vasetto di colore, una bottiglia di sole, una cucchiaiata di odore. L’estate, da riaprire in inverno: metamorfosi di una giornata di nebbia, schizzata col rosso del caldo, della luce.
E’ che a vivere in pianura , con la nebbia che già ad agosto ti aspetta la mattina presto, si diventa un po’ matti, o bisogna esserlo,  per inventare.
Indovinare le cose dentro la nebbia è come scoprire il sapore dentro una bottiglia.
Un sapore di vetro che cammina all’indietro e va a scavare una scia. La percorrerà chi l’ha segnata, chi ne ha posto, dall’altro capo della memoria, il primo sasso. Ma anche chi è stato dentro la scia, testimone o fattorino, compagno o ospite di un’estate rossa rossa di conserva.

La nuora lontana, quella fuori casa, arrivò aggrappata al vespino del figlio giovane della Dina, bello e geometra, il primo ad avere studiato a scuola in casa mia. L’ altro aveva studiato sfogliando strade e libri di partito. E l’altro ancora non c’era più.

Si attendeva sempre con manifesto piacere l’arrivo di questi zii perchè portavano l’eco di una cadenza ferrarese nel parlare e regalavano il senso del lontano, del quasi mare, dove, d’estate si poteva andare.
Lei, così bionda, teneva i capelli con il foulard chiaro non annodato sotto il mento ma stretto dietro a fasciare il collo, come la Loren in un film.
Il vestito bianco col collo sciallato sembrava la cosa più lontana dalla conserva che potessi immaginare, era tutte le cose buone e candide del mondo.

Miamamma si lisciò la sua vestaglia scura di pomodoro, prima di salutare la cognata, col dispiacere di farsi sorprendere così, in quella domenica laboriosa, col vestito brutto che non aveva fatto in tempo a cambiare. E addosso il forte della salsa che si rapprende.
Il vestito bianco liberava, invece, un odore felice. Dopo tanto rosso, dopo tanto acido…

Quando abbracciai la zia fui sicura: cose e odori potevano avere complicità, il colore di un vestito sapeva restituire la sua promessa di profumo, quasi di gusto, senza inganni. Dolce su dolce, bianco su bianco. Segreto o sortilegio di pelle. Invisibile.
Finalmente la pace fra cose e respiri e sapori, giocata a un crocevia di latte o di giglio, di cipria o di schiuma.

Stretta di pelle fresca e nuvola chiara nel naso, l’abbraccio.
Dentro, tuberose zuccherate, gardenie candite, fra pareti color di crema.
Conquista di armonie, “leggere e vaganti”.

Agosto

13 sabato Ago 2016

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 19 commenti

Era facile riconoscere agosto negli odori che abitavano la casa e ne vestivano i contorni più prossimi, in un continuo tracimare di vapori.
Erano i peperoni, i pomodori e le cipolle, insieme all’aceto e allo zucchero, a sprigionare un’armonia così intensa che avresti volentieri intinto pane tenero nell’aria. La salsa accompagnava i pasti e si alternava alla fragranza dolce del finocchio tagliato sottile e ben assortito al rosa del tonno.
“Quando mi sposo, a nozze io voglio solo finocchio e tonno”.
Buono, lasciava nel piatto una memoria generosa d’olio, insaporito di fresco, da assorbire con certe rosette di crosta gentile, senza fatica.
A tavola si rideva. “Gli agnolini mangerai”- si scherzava e intanto la Dina mianonna, con geometrica precisione, divideva la carne del pollo, secondo regole gerarchiche, prima gli uomini, poi i bambini e le donne.
Era importante il cibo a casa mia.
Mentre si mangiava, si favoleggiava dei tempi in cui la Dina teneva la trattoria nel paese piccolo.
Venivano i viaggiatori che apposta allungavano la strada pur di godere della sua pasta ben condita e della sua cacciatora, e quelli senza un soldo, che mangiavano e facevano allungare il conto, e qualche volta si portavano un amico. Ma una volta era venuta, per intera, anche l’orchestra del maestro Angelini, che una canzone aveva dedicato alla grazia di tanta cucina.
I ricordi scorrevano sulla tavola e il cibo prendeva altri sapori: diventava il selvatico del fagiano abbattuto con la fionda e si faceva morbido come il burro del vecchio caseificio di casa , che , rovesciato dal secchio, restava madido di piccole gocce di umore. Il burro che la nonna aveva imparato a far da sola, durante il confino in Francia del suo uomo.
Il cibo diventava il cibo di un’altra casa, di altri bambini, di altri racconti, che solo così tornavano in circolo piano piano.
Come per un moto indolente, le storie chiamavano altre storie, che non chiedevano il tepore del camino, ma sbucavano così, un po’ sudate, sulla tavola, col piacere di un uditorio senza fretta.
Quando il giro della memoria aveva già colmato la testa dei piccoli di uno sciame di nomi senza volto, allora miononno e mianonna finivano col parlare l’uno per l’altra, stretti nel loro cerchio di companatico.
“Era brava la Dina. Sempre vista a lavorare, da subito. Però quel giorno, con la veste a quadrettini, è pur venuta nella camera buia sul dietro……”
Infuocava mianonna e zittiva il marito con burbere, agrodolci occhiate.

I cibi, in casa mia, erano flauti di ricordi. Invadevano persino i colori, che ne prendevano le sfumature.
Mentre le donne di casa assaporavano la morbidezza di certe stoffe che le clienti di miazia portavano in rotoli o pezze, la Dina sentenziava col suo vocabolario strano.
“Bello questo color crème e questo nocciola, più bello del burro della camicetta della Silvana. No, no, ‘sto giallo è troppo zabaione. Ma che sfacciato ‘sto sangue di bue, va bene solo per le bistecche”…….
I colori si portavano dietro l’ombra, il fantasma dei cibi e il mondo, stoffa o muro, capello o fiore si caricava di una pastosità di fiaba, di pareti di marzapane e di tetti di biscotto.
Così le cose finivano per non essere cose: rivestite di panna, burro o nocciola, di zabaione o di carta da zucchero, si facevano dolci e belle, quinte per giochi di fantasia, in un mondo che si poteva annusare e gustare.

Quando vennero i pittori per la cucina e le donne decisero il color di crema , misi un dito dentro il secchio dove il colore schiumava di latte e, mosso da un bastone, diceva consistenze impensate. Assaggiai, ma non c’era sapore di vaniglia, solo un salato freddo. E un odore di pulito di calce, che non compensava la bocca amara.

Via del centro

04 giovedì Ago 2016

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 13 commenti

C’è una strada, qui: curva dolce e cuore scuro in un androne.
Ha un nome alto e libertario, ma ora basta uno sguardo e te la prendi tutta.
Le han fatto il pavimento nuovo, tempo fa. Piccole selci, irregolari come pestate di bambini.
A camminarci, senti la polvere dura che trattiene un po’ la suola.
Ci fosse gente, sarebbero altri i rumori.
Ma la gente…
O si accrocchia al caffè (quel che resta di anziani mediatori coi numeri in testa e le donne ancora negli occhi, di passaggio)
O tira dritto veloce: c’è poco da comprare, ormai.
L’anima dei negozi non ha retto al centro commerciale: qualche bagliore di vetrina qua e là, poi pannelli, a chiudere gli occhi alle finestre, o porte nuove.
Se qui non si vende più, meglio abitarci: tende e tendoni aggraziano buchi di serrande.

Io lo percorro piano, questo ‘adesso’, insipido e ridotto, e mi resta il senso del vecchio cancellato.
Certi odori di cuoio e corde grosse che segavano la gola prima della pelle.
Certo umore di cipolla a fetta spessa che cuoceva unta nel pane.
Certo rumore secco di ferro sul tagliere, sul collo della tacchina grassa, la voglia di scappare perchè il sangue (il battente di una porta semovente, così pesante per mani di bambina).

Ha un doppio, questa strada sghemba, qui, nella memoria: le voci, i segni, i gesti delle botteghe morte scorrono sottili dentro le mie età.
Sono quell’altra sponda.
Come vedere, dietro la vetrina di zeppe e sandalini, la porta in fondo, che non dà sul magazzino, ma su pezze di stoffa e giocattoli a molla…

Paradosso del vivere pensando: le due rive del tempo si guardano e si chiamano, presenti nel luogo dove ho pianto e camminato, inciampato in un sasso e sussurrato.
I ricordi sono le nostre tracce, le briciole che, per ritrovarci, abbiamo seminato.
In gara con la chioccia che becchetta alle spalle, grano dopo grano, questa nostra vita.

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